INQUINAMENTO

EFSA : “RIVEDERE LA DOSE TOLLERABILE DEI PFAS NEI CIBI”

L’Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare,  ha proposto di rivedere le assunzioni tollerabili di due contaminanti chimici, Pfoa e Pfos i per- e polifluoroalchilici più conosciuti come Pfas, a cui i consumatori sono esposti attraverso la catena alimentare a causa dell’inquinamento ambientale. La contaminazione è particolarmente acuta in diverse province del Veneto dove, a causa dello sversamento delle lavorazione della Miteni oggi chiusa, ha esposto la popolazione e la catena alimentare a un rischio prolungato

L’Authority, spiega in una altra nota ha acquisito la prima delle due valutazioni su queste sostanze e pertanto le conclusioni sono  provvisorie: “Questo primo parere scientifico riguarda i principali Pfas, noti come perfluoroottano sulfonato (Pfos) e acido perfluoroottanoico (Pfoa), due prodotti chimici artificiali, ampiamente utilizzati nelle applicazioni industriali e di consumo dalla metà del 20° secolo. Persistono nell’ambiente perché si degradano lentamente. Inoltre, possono accumularsi nel corpo umano, il che significa che possono essere necessari molti anni per eliminarli“.

La Commissione europea ha chiesto all’Efsa di riesaminare i rischi che i Pfas pongono alla salute umana utilizzando i dati resi disponibili dalla sua valutazione iniziale nel 2008. La produzione, l’immissione sul mercato e l’uso di Pfos sono regolati dalle leggi della Ue sugli inquinanti organici persistenti (Regolamento CE 850/2004). Le restrizioni relative alla fabbricazione e all’inserimento sul mercato di Pfoa entreranno in vigore il 4 luglio 2020, a seguito di valutazioni scientifiche dell’Agenzia europea per le sostanze chimiche (Echa).

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UNA ROSA CONTRO IL MESOTELIOMA

DA AGINegli estratti dei fiori della Filipendula vulgaris, un arbusto perenne appartenente alla famiglia delle Rosacee, sono stati identificati dei componenti capaci di riprogrammare il metabolismo di un tumore raro e molto aggressivo

Negli estratti dei fiori della Filipendula vulgaris, un arbusto perenne appartenente alla famiglia delle Rosacee, sono stati identificati dei componenti capaci di riprogrammare il metabolismo di un tumore raro e molto aggressivo, il mesotelioma. Lo ha scoperto uno studio del gruppo di ricerca dell’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena (IRE) coordinato da Sabrina Strano e Giovanni Blandino, ricercatori del laboratorio di Oncogenomica ed Epigenetica.
I risultati sono stati pubblicati sul Journal of Experimental and Clinical Cancer Research.

Il mesotelioma è una neoplasia che colpisce principalmente i foglietti della pleura polmonare. Dal punto di vista eziologico il mesotelioma è una patologia occupazionale correlata all’esposizione professionale alle fibre d’amianto. “Gli effetti antitumorali dell’estratto di fiore – illustrano i ricercatori – sono stati caratterizzati in modelli ‘in vitro’ e ‘in vivo’ di mesotelioma. A livello molecolare, sono stati usati due approcci ‘omici’ per studiare il meccanismo d’azione antitumorale dei fiori di ‘Dropwort’: l’analisi del profilo metabolico e quello proteico delle cellule di mesotelioma.

I risultati rivelano che i composti naturali di questa pianta riducono la proliferazione cellulare, la vitalità e la migrazione delle cellule tumorali del mesotelioma e presuppongono quindi implicazioni chemio-preventive e antitumorali per la gestione della patologia”. Dopo 25 anni dalla messa al bando nel nostro paese della produzione dell’amianto, l’incidenza del mesotelioma non decresce in quanto nell’ambiente ne rimangono 5 quintali per cittadino, 32 milioni di tonnellate.

L’Italia è stato uno dei maggiori produttori europei di amianto insieme all’URSS, ed è uno dei paesi più colpiti dalle malattie amianto-correlate. La mortalità costituisce il 4 per cento di quella globale per tumore in tutte le età a prescindere dal sesso, secondo il Registro Italiano del Mesotelioma. Si caratterizza per la lunga latenza, l’andamento silente, la mancanza di specifici biomarcatori e la resistenza alle terapie convenzionali quali Cisplatino e Pemetrexed.

“Gli estratti dei fiori della Filipendula vulgaris – illustrano Sabrina Strano e Giovanni Blandino, autori dello studio – presentano dei componenti capaci di riprogrammare il metabolismo del mesotelioma e di bloccare l’attività oncogenica di YAP e TAZ, due proteine da tempo studiate nei nostri laboratori, inibendo così la proliferazione, la migrazione e l’invasione di cellule del mesotelioma”. Inoltre, secondo i ricercatori, l’attività antitumorale della pianta potenzia il trattamento chemioterapico con Cisplatino o Pemetrexed, farmaci utilizzati nel trattamento del mesotelioma.

“Tale studio – sottolinea Gennaro Ciliberto, direttore scientifico IRE – potrebbe contribuire al miglioramento del trattamento del mesotelioma. E’ compito della ricerca validarne l’efficacia poiche’ in un momento di forte enfasi sui nutraceutici, occorre precisare che non sempre naturale equivale ad efficace e sicuro per la nostra salute. Questa scoperta sebbene molto promettente necessita di ulteriori approfondimenti per una applicazione clinica ma siamo orientati a continuare su questa linea e validare sempre di più, attraverso test scientifici rigorosi, il meccanismo di azione antitumorale di sostanze naturali”.

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TUTTA LA MICROPLASTICA DELLA NOSTRA TAVOLA

Da il sole24ore

NEW YORK – Sono nel cibo che mangiamo, in ciò che beviamo e persino nell’aria che respiriamo. Le microplastiche – particelle minuscole più piccole di cinque millimetri – contaminano l’ambiente che ci circonda. La loro diffusione continua ad aumentare nonostante gli sforzi dei governi, delle organizzazioni per la tutela dell’ambiente e del cambiamento degli stili di vita. Uno studio dell’Università di Newcastle, in Australia, che ha messo assieme i risultati di 52 ricerche preesistenti sulle stime di ingestione della plastica nel mondo, sostiene che ogni essere umano ingerisce in media 1.769 particelle di microplastica a settimana semplicemente bevendo acqua. Vale a dire: cinque grammi di microplastiche finiscono nei nostri organismi ogni sette giorni. Tradotto equivale al peso di una carta di credito.

Negli Usa record di microplastiche
Gli Stati Uniti, la patria del consumismo, dove al supermercato quando acquisti qualcosa ti danno gratis non una ma due buste di plastica, sono più a rischio dell’Europa. I sacchetti e le cannucce di plastica sono i principali imputati. Microplastiche oltre all’acqua sono state ritrovate nella birra, nel sale, nel pesce, nello zucchero, nell’alcool e nel miele. Per calcolare quanto spesso una persona mangi questi alimenti sono state prese in considerazioni le raccomandazioni del Dipartimento all’Agricoltura Usa. Stando a questi dati le microplastiche nel cibo sono in media nel 15% delle calorie ingerite da ogni individuo.
Un altro studio del 2018 sostiene che negli Stati Uniti, in ragione del maggiore inquinamento da plastica, sono stati riscontrati il doppio delle microplastiche nell’acqua di rubinetto rispetto a Europa, India o in Indonesia, pari a 90.000 particelle all’anno. Che vanno ad aggiungersi alle bevande ingerite dagli americani con le bottiglie in plastica: da 74mila a 121mila particelle di microplastica dalle bevande in bottiglia oltre, appunto, alle 90mila particelle ingerite con l’acqua del rubinetto.

La plastica che viene dal mare
Le microplastiche entrano nella catena alimentare attraverso i fiumi, i mari e gli oceani. Vengono ingerite dai pesci e finiscono nella catena alimentare.
Dopo l’acqua di rubinetto e le bevande in bottiglia, i crostacei sarebbero la seconda maggiore fonte di ingestione di microplastiche nell’organismo, secondo la ricerca dell’università australiana. Questo perché gamberi, aragoste, scampi, astici e mazzancolle “vengono mangiati tutti, compreso il loro apparato digerente, dopo una vita trascorsa in acque marine inquinate”, ha spiegato Kieran Cox l’autore della ricerca, secondo cui le conclusioni sono sottostimate e i livelli di ingestione di microplastiche sarebbero in realtà più elevati. Ma le micro particelle diffuse nell’ambitente derivano da tante altre fonti, incluse le fibre tessili artificiali come nylon e poliestere, le microsfere di alcuni dentifrici, e grandi pezzi di plastica che gradualmente si riducono e vengono dispersi in parti sempre più piccole in mare, nell’irrigazione e nell’alimentazione animale, sino a finire sulle nostre tavole.

Quali rischi per la salute umana?
Tra gli scienziati non c’è concordanza sui danni che le microplastiche possono causare nell’organismo umano nel lungo termine. La ricerca dell’Università di Newcastle è stata commissionata dal Wwf per il suo report “No Plastic in Nature: Assessing Plastic Ingestione from Nature to People”. Secondo uno studio del King’s College di Londra datato 2017 l’effetto cumulativo dell’ingestione delle microplastiche nel tempo può essere dannoso. I diversi tipi di plastica hanno proprietà tossiche differenti: alcuni tipi di plastica possono contenere elementi tossici come la clorina, altre possono lasciare tracce di piombo nell’ambiente. Nel tempo queste tossine possono avere un impatto sul sistema immunitario. L’oceanografo inglese Richard Lampitt, non coinvolto nella ricerca australiana, intervistato da Cnn ha sottolineato la difficoltà a valutare l’impatto dell’ingestione delle microplastiche senza comprendere tutti i rischi correlati alla salute umana. “C’è molta incertezza sull’impatto della plastica sulla salute”, ha detto il ricercatore auspicando nuovi studi sui danni a lungo termine nell’organismo umano.

Nel 2050 produzione triplicata
È evidente che la risposta deve arrivare dalle politiche dei governi, delle organizzazioni internazionali e delle aziende per limitare la produzione e il consumo di plastica a livello mondiale e promuovere il riciclo corretto. Ogni anno nel mondo si producono 330milioni di tonnellate metriche di plastica. Almeno 8 tonnellate di plastica finiscono nel mare. Non è immune il Mediterraneo, anche se i mari più inquinati sono in Asia come ha raccontato il velista Giovanni Soldini durante una recente regata da Hong Kong a Londra, nella quale uno dei tre timoni della sua veloce barca a vela è stato danneggiato da rifiuti dell’Oceano Indiano.

La plastica nei mari italiani
Il Consiglio nazionale delle ricerche stima che ogni chilometro quadrato di mare in Italia contenga fino a 10 chilogrammi di plastica. Nel Tirreno settentrionale, attorno a Sardegna, Sicilia e Puglia il Cnr stima almeno due chili di plastica in superficie. Il 79% di questa plastica finisce nelle discariche e in tutti gli ambienti naturali, il 12% viene incenerito e solo il 9% riciclato. Nonostante le politiche virtuose di tanti paesi per limitare o eliminare, ad esempio, come è in Europa, le buste di plastica, la produzione di plastica è aumentata dal 2000 del 4% l’anno. Le stime al 2050 parlano di una produzione più che triplicata rispetto ai valori attuali: senza cambiamenti radicali di politiche e se l’andamento della produzione proseguirà nella maniera attuale la plastica potrebbe raggiungere i 34 miliardi di tonnellate di cui almeno 12 tonnellate l’anno di rifiuti sparsi in tutti gli ambienti. Pensateci la prossima volta che gettate un pezzo di plastica per strada.

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RIFIUTI RAEE E RICICLO IN ITALIA

(Da Teleborsa) – Una nuova vita per i vecchi apparecchi elettronici ed elettrici grazie al riciclo che ha permesso di recuperare 45 milioni di tonnellate di rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE), di cui 2 in Italia.

È il risultato del progetto europeo “Critical Raw Material Closed Loop Recovery“, che vede tra i partner ENEA e Consorzio Ecodom, e che permette di guardare alla Giornata Mondiale dell’Ambiente, celebrata il 5 giugno in tutto il mondo, con nuove prospettive.

Il progetto infatti ha l’obiettivo di aumentare il recupero di alcune delle 27 materie prime critiche dai RAEE, sperimentando nuove tecniche e individuando nuove linee guida per il riciclo corretto di materiali delicati e critici.

Nei tre anni e mezzo del progetto, Ecodom ed ENEA, insieme ai partner della sperimentazione RecyclingBorse, Asekol, Axion Consulting e Re-Tek, hanno testato diverse modalità di recupero, tra cui il trattamento meccanico e i processi chimici per incrementare il recupero dai rifiuti tecnologici di alcune delle 27 materie prime critiche (CRM), in particolare antimonio, berillio, cobalto, fluorite, indio, gallio grafite, tantalio, terre rare, oro, argento, metalli del gruppo del platino e rame.

Da qui sono nate 5 linee guida per favorire e aumentare la raccolta e il recupero di queste materie prime che prevedono: ridisegnare e armonizzare le infrastrutture di raccolta; aumentare la consapevolezza dei cittadini su raccolta e trattamento corretti dei RAEE; introdurre incentivi per favorire le buone pratiche; promuovere la ricerca e l’innovazione nel campo del recupero incoraggiando una maggiore collaborazione internazionale; introdurre standard nel trattamento dei RAEE.

Oggi – ricorda ENEA – in Europa solo il 30% dei RAEE è riciclato correttamente. Se lo fossero tutti, dalle circa 10 milione di tonnellate prodotte ogni anno si potrebbero recuperare 186 tonnellate di argento, 24 tonnellate di oro e 7,7 tonnellate di platino.

L’obiettivo del progetto è “aumentare il tasso di riciclo delle materie prime essenziali contenute nei RAEE del 5% entro il 2020 e del 20% entro il 2030”, spiega Luca Campadello, Projects & Researches Manager di Ecodom.

TLB courtesy: 03/11/2016 – Ansa|

“Dentro i piccoli elettrodomestici si possono recuperare alcune delle principali materie prime di difficile reperimento in natura, ma che hanno un ruolo fondamentale in moltissimi settori, dall’aeronautica all’elettronica di consumo, dall’industria automobilistica alle energie rinnovabili come eolico e fotovoltaico”, ricorda Dario della Sala, responsabile della Divisione tecnologie e processi dei materiali per la sostenibilità – Dipartimento Sostenibilità dei Sistemi Produttivi e Territoriali di ENEA.

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L’INQUINAMENTE 2.0 INVECCHIA LA PELLE PIU’ DELLO SMOG

GLI SCHERMI SONO DANNOSI?

L’inquinamento elettromagnetico emesso dagli schermi di computer e cellulari può avere effetti negativi sull’ epidermide e alterare le fibre di collagene. Non è solo lo smog che avvelena l’ aria, a danneggiare la nostra pelle. Anche l’ inquinamento elettromagnetico emesso dagli schermi di computer e cellulari può avere effetti negativi sull’ epidermide e alterare le fibre di collagene.

Se all’ esterno ogni anno vengono liberati nell’ aria oltre 36 miliardi di tonnellate di Co2 e il 92% della popolazione mondiale respira un’ aria di pessima qualità, satura di gas, metalli presenti nelle polveri sottili e diversi tipi di particelle, negli ambienti chiusi, dove ormai si trascorre il 90% del tempo, l’ aria può essere sino a dieci volte più inquinata. A mettere in guardia dalle nuove forme di inquinamento che alterano le funzioni dell’ epidermide è Alessandra Narcisi, dermatologa dell’ Istituto clinico Humanitas.

LA LUCE BLU

Le definizioni ormai si sprecano: Cov (Composti organici volatili), City Syndrome, luce blu. Proprio quest’ ultima è una fonte inquinante, sempre più diffusa, per la pelle e per gli occhi derivante dagli apparecchi elettronici e dai moderni device tecnologici, più pericolosa addirittura dei raggi Uv perché non produce effetti immediati, né facilmente indagabili. Così si parla di Digital Aging per indicare le rughe e i malesseri causati dai device tecnologici.

Si tratta di uno dei fattori di invecchiamento precoce della pelle che colpisce donne e uomini a tutte le età – spiega Narcisi – e si manifesta con rughe su viso e collo per effetto delle onde elettromagnetiche emesse dagli schermi di pc, smartphone e tablet. Queste onde aumentano la temperatura dei tessuti favorendo il surriscaldamento di quelli ricchi di acqua come il derma e portando quindi al deterioramento delle fibre collagene con conseguente insorgenza di rughe e doppio mento”.

UN’ALTRO GRANDE PROTAGONISTA: LA PLASTICA

Ma l’ inquinamento 2.0 ha un’ altra grande protagonista: la plastica. I Composti organici volatili (Cov) sono particelle potenzialmente nocive emesse da molteplici oggetti di uso comune e in particolare quelli che ‘profumano di nuovo’: formaldeide, toluene, acetaldeide, acetone. Dal momento che, secondo l’ Epa, l’ agenzia americana per la protezione dell’ ambiente, un individuo trascorre in media l’ 80% del proprio tempo in casa e sul posto di lavoro, “l’ inquinamento domestico costituisce un vero e proprio pericolo quotidiano, un’ insidia ancora tutta da esplorare e che le aziende cosmetiche stanno prendendo in considerazione da poco”, evidenzia l’ esperta. Proprio le case cosmetiche stanno facendo a gara nel produrre nuove linee anti-pollution.

I nuovi composti usano ingredienti base di vitamine C ed E e peptidi, in generale sostanze che agiscano contro l’ ossidazione o dalle funzioni anti-infiammatorie e lenitive. Sono efficaci – elenca la dermatologa – anche gli antociani e i flavonoidi e in generale le sostanze anti-ossidanti in grado di combattere le tossine, come il resveratrolo e il licopene. Occorre però anche potenziare l’ effetto barriera dell’ epidermide perché, se quest’ ultima non è integra, consente un più facile accesso e accumulo alle particelle. E’ bene, dunque, ricompattare le cellule superficiali usando sieri a base di ceramidi, i fosfolipidi che vanno a ricreare i legami fra le cellule, a renderle più forti e in grado di rigenerarsi.

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TECO MILANO FESTEGGIA IL 22 APRILE LA GIORNATA DELLA TERRA

Il 22 aprile, è ancora Earth Day e si festeggia il nostro pianeta con una giornata ricca di eventi e iniziative. In tutto il mondo sono tante le iniziative in programma.

La prima Giornata della Terra ebbe luogo il 22 aprile 1970 per ribadire la necessità di necessità di tutelare le risorse naturali. Di anno in anno le iniziative si sono moltiplicate coinvolgendo un numero sempre maggiore di persone e di Paesi.( da Green me)

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L’inquinamento ambientale responsabile malattie autoimmuni del fegato

Emerge da uno studio condotto nell’ Inghilterra del Nord e presentato all’ International Liver Congress 2019, in corso a Vienna

L’ esposizione a un persistente, anche se ridotto, fattore inquinante ambientale sembra giocare un ruolo chiave nello sviluppo di alcune malattie autoimmuni del fegato. E’ quanto emerge da un vasto studio condotto nell’ Inghilterra del Nord e presentato all’ International Liver Congress 2019, in corso a Vienna (Austria). Lo studio ha rilevato un cluster significativo di casi di colangite biliare primaria, epatite autoimmune e colangite sclerotizzante primaria in alcune ben definite regione dell’ Inghilterra nord-orientale e della North Cumbria.

Questo, secondo i ricercatori, suggerisce il coinvolgimento di uno o più agenti ambientali. Le patologie autoimmuni del fegato sono relativamente rare, colpiscono persone di tutte le età e durano tutta la vita. Le cause non sono ancora ben chiare, anche se si sospetta un’ interazione tra una predisposizione genetica all’ autoimmunità e fattori ambientali. Lo studio è stato condotto da ricercatori di Newcastle, che hanno evidenziato i cluster di queste patologie, indagando anche sull’ indirizzo dei pazienti individuati. In questo modo hanno visto un eccesso di pazienti rispetto alle attese in alcune aree particolari, molto ben delimitate.

“Lo studio suggerisce che l’ esposizione a un agente ambientale persistente e a basse concentrazioni può aver giocato un ruolo nella patogenesi di tutte e tre le malattie autoimmuni del fegato studiate”, conclude Jessica Dyson, della Newcastle University. Dal momento che i cluster delle tre patologie non coincidono, la studiosa ipotizza che potrebbero essere in gioco fattori diversi, che potrebbero anche essere collegati, ad esempio, a riserve idriche, o impianti industriali, o ancora a miniere e stoccaggio dei rifiuti. Occorre indagare ancora, per far luce sull’ origine del fenomeno, conclude il team.

Questo studio è molto importante, dal momento che le malattie autoimmuni del fegato, che pure non sono frequenti, hanno un’ incidenza in aumento a livello generale”, commenta Marco Marzioni dell’ Università Politecnica delle Marche di Ancona, e membro del Board Easl (European Association for the Study of the Liver). “I fattori che le scatenano sono tuttora ignoti – aggiunge il medico – Se in precedenza sono stati considerati elementi ambientali, mancano però ancora dati solidi a supporto di questa tesi. Questo studio rinforza l’ idea che un’ esposizione ambientale possa giocare un ruolo importante nello scatenare le malattie autoimmuni del fegato”.

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