TUTTA LA MICROPLASTICA DELLA NOSTRA TAVOLA

7 Luglio 2019

Da il sole24ore

NEW YORK – Sono nel cibo che mangiamo, in ciò che beviamo e persino nell’aria che respiriamo. Le microplastiche – particelle minuscole più piccole di cinque millimetri – contaminano l’ambiente che ci circonda. La loro diffusione continua ad aumentare nonostante gli sforzi dei governi, delle organizzazioni per la tutela dell’ambiente e del cambiamento degli stili di vita. Uno studio dell’Università di Newcastle, in Australia, che ha messo assieme i risultati di 52 ricerche preesistenti sulle stime di ingestione della plastica nel mondo, sostiene che ogni essere umano ingerisce in media 1.769 particelle di microplastica a settimana semplicemente bevendo acqua. Vale a dire: cinque grammi di microplastiche finiscono nei nostri organismi ogni sette giorni. Tradotto equivale al peso di una carta di credito.

Negli Usa record di microplastiche
Gli Stati Uniti, la patria del consumismo, dove al supermercato quando acquisti qualcosa ti danno gratis non una ma due buste di plastica, sono più a rischio dell’Europa. I sacchetti e le cannucce di plastica sono i principali imputati. Microplastiche oltre all’acqua sono state ritrovate nella birra, nel sale, nel pesce, nello zucchero, nell’alcool e nel miele. Per calcolare quanto spesso una persona mangi questi alimenti sono state prese in considerazioni le raccomandazioni del Dipartimento all’Agricoltura Usa. Stando a questi dati le microplastiche nel cibo sono in media nel 15% delle calorie ingerite da ogni individuo.
Un altro studio del 2018 sostiene che negli Stati Uniti, in ragione del maggiore inquinamento da plastica, sono stati riscontrati il doppio delle microplastiche nell’acqua di rubinetto rispetto a Europa, India o in Indonesia, pari a 90.000 particelle all’anno. Che vanno ad aggiungersi alle bevande ingerite dagli americani con le bottiglie in plastica: da 74mila a 121mila particelle di microplastica dalle bevande in bottiglia oltre, appunto, alle 90mila particelle ingerite con l’acqua del rubinetto.

La plastica che viene dal mare
Le microplastiche entrano nella catena alimentare attraverso i fiumi, i mari e gli oceani. Vengono ingerite dai pesci e finiscono nella catena alimentare.
Dopo l’acqua di rubinetto e le bevande in bottiglia, i crostacei sarebbero la seconda maggiore fonte di ingestione di microplastiche nell’organismo, secondo la ricerca dell’università australiana. Questo perché gamberi, aragoste, scampi, astici e mazzancolle “vengono mangiati tutti, compreso il loro apparato digerente, dopo una vita trascorsa in acque marine inquinate”, ha spiegato Kieran Cox l’autore della ricerca, secondo cui le conclusioni sono sottostimate e i livelli di ingestione di microplastiche sarebbero in realtà più elevati. Ma le micro particelle diffuse nell’ambitente derivano da tante altre fonti, incluse le fibre tessili artificiali come nylon e poliestere, le microsfere di alcuni dentifrici, e grandi pezzi di plastica che gradualmente si riducono e vengono dispersi in parti sempre più piccole in mare, nell’irrigazione e nell’alimentazione animale, sino a finire sulle nostre tavole.

Quali rischi per la salute umana?
Tra gli scienziati non c’è concordanza sui danni che le microplastiche possono causare nell’organismo umano nel lungo termine. La ricerca dell’Università di Newcastle è stata commissionata dal Wwf per il suo report “No Plastic in Nature: Assessing Plastic Ingestione from Nature to People”. Secondo uno studio del King’s College di Londra datato 2017 l’effetto cumulativo dell’ingestione delle microplastiche nel tempo può essere dannoso. I diversi tipi di plastica hanno proprietà tossiche differenti: alcuni tipi di plastica possono contenere elementi tossici come la clorina, altre possono lasciare tracce di piombo nell’ambiente. Nel tempo queste tossine possono avere un impatto sul sistema immunitario. L’oceanografo inglese Richard Lampitt, non coinvolto nella ricerca australiana, intervistato da Cnn ha sottolineato la difficoltà a valutare l’impatto dell’ingestione delle microplastiche senza comprendere tutti i rischi correlati alla salute umana. “C’è molta incertezza sull’impatto della plastica sulla salute”, ha detto il ricercatore auspicando nuovi studi sui danni a lungo termine nell’organismo umano.

Nel 2050 produzione triplicata
È evidente che la risposta deve arrivare dalle politiche dei governi, delle organizzazioni internazionali e delle aziende per limitare la produzione e il consumo di plastica a livello mondiale e promuovere il riciclo corretto. Ogni anno nel mondo si producono 330milioni di tonnellate metriche di plastica. Almeno 8 tonnellate di plastica finiscono nel mare. Non è immune il Mediterraneo, anche se i mari più inquinati sono in Asia come ha raccontato il velista Giovanni Soldini durante una recente regata da Hong Kong a Londra, nella quale uno dei tre timoni della sua veloce barca a vela è stato danneggiato da rifiuti dell’Oceano Indiano.

La plastica nei mari italiani
Il Consiglio nazionale delle ricerche stima che ogni chilometro quadrato di mare in Italia contenga fino a 10 chilogrammi di plastica. Nel Tirreno settentrionale, attorno a Sardegna, Sicilia e Puglia il Cnr stima almeno due chili di plastica in superficie. Il 79% di questa plastica finisce nelle discariche e in tutti gli ambienti naturali, il 12% viene incenerito e solo il 9% riciclato. Nonostante le politiche virtuose di tanti paesi per limitare o eliminare, ad esempio, come è in Europa, le buste di plastica, la produzione di plastica è aumentata dal 2000 del 4% l’anno. Le stime al 2050 parlano di una produzione più che triplicata rispetto ai valori attuali: senza cambiamenti radicali di politiche e se l’andamento della produzione proseguirà nella maniera attuale la plastica potrebbe raggiungere i 34 miliardi di tonnellate di cui almeno 12 tonnellate l’anno di rifiuti sparsi in tutti gli ambienti. Pensateci la prossima volta che gettate un pezzo di plastica per strada.

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