Le persone arruolate in questo studio siero-epidemiologico longitudinale avevano vissuto a Wuhan per almeno 14 giorni, a partire da inizio dicembre 2019.
Su 9542 individui, appartenenti a 3556 famiglie, selezionati a caso, 532 (5-6%) partecipanti sono risultati positivi alle immunoglobuline contro il SARS-Cov-2, con una sieroprevalenza – aggiustata sulla popolazione totale – del 7% : al primo prelievo (aprile 2020) l’82% circa era asintomatico, il 13% era positivo agli anticorpi IgM, Il 16% alle IgA, il 100% alle IgG e il 40% era positivo al test per gli anticorpi neutralizzanti. La percentuale di individui che in aprile avevano anticorpi neutralizzanti è rimasta stabile nelle due visite successive effettuate a giugno e tra ottobre e dicembre 2020. Tuttavia, i titoli degli anticorpi neutralizzanti erano più bassi negli individui asintomatici rispetto ai casi confermati e ai sintomatici. Sebbene i titoli di IgG siano diminuiti nel tempo, la proporzione di individui che avevano anticorpi IgG non è diminuita sostanzialmente. I risultati fanno pensare che per l’immunità di popolazione è necessaria la vaccinazione di massa, al fine di prevenire la recrudescenza dell’epidemia.
Un’anticipazioni dello studio sulla popolazione del cluster di Vò, in Veneto, condotto dall’Università di Padova e dall’Imperial College di Londra, capofila della ricerca il professor Andrea Crisanti, microbiologo dell’Ateneo patavino.
Gli anticorpi prodotti dal Coronavirus restano in vita nell’organismo delle persone che sono state positive, o sono negative, ma risultano positive al test sierologico, dai 9 ai 10 mesi. E’ questa l’anticipazioni dello studio sulla popolazione del cluster di Vò, in Veneto, condotto dall’Università di Padova e dall’Imperial College di Londra, capofila della ricerca il professor Andrea Crisanti, microbiologo dell’Ateneo patavino.
“Non posso dire ancora nulla di più – spiega Crisanti – perché lo studio è sotto embargo, stiamo attendendo la valutazione del comitato scientifico della rivista ‘Nature’. Per il momento queste sono le uniche cose che posso dire in merito alla ricerca fatta sui cittadini di Vò”. La valutazione degli esperti di Nature arriverà tra un paio di settimane, ci vorrà un mese e mezzo per rendere pubblico un lavoro che potrebbe dare nuove e preziose informazioni su come combattere il Covid 19. Lo studio su Vò aveva coinvolto la stragrande maggioranza dei circa 3200 cittadini del paese che, a più riprese, si sottoposero al tampone e all’analisi sierologica.
Alla luce delle evidenze di letteratura e dei dati emersi dal territorio, nell’infortunato da SARS-CoV-2 può residuare un complesso menomativo connotato da un variegato e numeroso corollario di esiti. Tale fattispecie ha richiesto l’elaborazione di un metodo valutativo ad hoc che, pur fondato sulle Tabelle di legge, si connota come novità assoluta nel panorama valutativo medico-legale. Le indicazioni sull’attività di stima dei postumi giungono a supporto dell’operatore con l’obiettivo di uniformare il giudizio secondo il consolidato riferimento all’effettiva incidenza menomativa sullo spendimento della validità biologica. La rapidità comunicativa del modello editoriale scelto risponde alla necessità di una fruizione pragmatica e sintetica dei contenuti medico-legali dei temi trattati.
Sono gli Usa e la Gran Bretagna i Paesi che hanno per ora il primato della diffusione dei vaccini tra tutti gli Stati del mondo. A fronteggiarsi nel FarmaRisiko, dove le superpotenze stanno riscrivendo gli equilibri della geopolitica, al momento ci sono anche la Cina, la Russia e l’India. Ma attenzione, in questo gioco in cui in palio non ci sono solo le vite umane ma anche il ritmo e la consistenza della ripresa economica degli Stati, ciò che conta non è solo avere sviluppato un vaccino, ma anche aver contribuito a finanziarlo. Ed essere in grado di produrlo in massicce quantità, come fa l’India. Quella che segue è l’analisi della diffusione dei vaccini somministrati in 132 Paesi, equivalenti all’85% della popolazione mondiale.
Gli americani e i tre vaccini in campo: Pfizer, Moderna, Johnson & Johnson
Con tre vaccini in campo, gli Usa sono la vera superpotenza. Sono partiti per tempo, forti di cospicui finanziamenti pubblici e privati e dei migliori ricercatori, individuati anche fuori dai propri confini. È il caso dei coniugi tedeschi di origine turca Ugur Sahin e Özlem Türeci, fondatori di BioNTech. È l’azienda, specializzata nelle ricerche di immunoterapie contro i tumori, a cui l’americana Pfizer ha offerto un ricco accordo per lo sviluppo di un vaccino contro il Covid-19, finanziato anche dallo Stato tedesco e dalla Bei (la Banca europea degli investimenti). Il che spiega il favore riservatole dall’Ue e dalla Germania in particolare. Il vaccino Pzizer-BioNTech oggi è già somministrato in 77 Paesi, spesso in accoppiata con Moderna (presente in 32 Paesi): oltre a Usa, Canada, Australia e Nuova Zelanda, è stato scelto da tutti i Paesi europei, compresi quelli dell’Est, tranne la Moldavia e l’Ucraina che usano solo AstraZeneca, e San Marino che ha scelto il russo Sputnik. Questo vaccino è approdato anche alla Santa Sede. È invece assente nel continente africano, tranne che in Rwanda, insieme con AstraZeneca e Moderna. Passando al Medio Oriente, Israele lo ha scelto con quello di Moderna, mentre è l’unico vaccino in Libano, Kuwait e Qatar. Così come in Giappone, Malesia e Singapore. Poco presente nel Centro-America (in Messico c’è ma con AstraZeneca e Sputnik), in Sud America non ha conquistato i Paesi più grandi, tranne la Colombia. Quanto alle isole, è la scelta esclusiva di Bermuda, Cayman e Turks e Caicos.
Il terzo vaccino Usa: Johnson & Johnson
Le recenti autorizzazioni del terzo vaccino Usa, lo Janssen di Johnson & Johnson, ne vedono l’utilizzo al momento solo negli Stati Uniti e in Sud Africa, ma molti Paesi lo hanno autorizzato, tra cui l’Italia.
Il vaccino inglese di AstraZeneca: il più utilizzato al mondo (merito del prezzo basso)
Sviluppato dallo Jenner Institute dell’Università di Oxford, prodotto e distribuito dall’azienda farmaceutica anglosvedese AstraZeneca, il vaccino inglese è al momento il più utilizzato al mondo, forte del prezzo più basso. Tra i 78 Paesi che ne stanno già facendo uso ci sono quasi tutti gli europei, anche dell’Est. A differenza degli americani, AstraZeneca è molto opzionato in Africa, dove ha conquistato sette sui 13 Paesi che hanno in corso le vaccinazioni, tra cui l’Angola, il Ghana, il Kenia, il Marocco (con il cinese SinoPharm), il Rwanda e l’Uganda. È poco presente in Medio Oriente, tranne in Arabia Saudita con Pfizer-BioNTech, e nel Bahrain e negli Emirati (che hanno opzionato tutti i maggiori vaccini). In Asia è stato adottato in India, Myanmar, Nepal, Bangladesh, Pakistan, Sri Lanka, Thailandia, Vietnam e Mongolia. Tra le isole, Antigua, Barbados, Maldive, Mauritius.
Il russo: il vaccino Sputnik è stato il primo registrato al mondo
È stato il primo vaccino al mondo registrato contro il Covid-19 nell’agosto scorso, grazie alla ricerca che il Centro Gamaleya aveva già fatto sull’Ebola e sulla Mers. Lo Sputnik al momento è stato autorizzato in quasi 50 Paesi ma è operativo in 18. L’Autorità europea (Ema) non gli ha dato il nullaosta: politicamente non c’è la volontà di foraggiare il regime di Vladimir Putin. Al momento viene iniettato oltre che a San Marino anche in Montenegro, in Serbia e in Ungheria, l’unico Paese al mondo in cui si utilizzano tutti i vaccini in circolazione. Sono molti i Paesi con regimi autoritari che l’hanno scelto: Algeria e Tunisia, Iran e Venezuela. È presente anche in Argentina, Bolivia e Paraguay. L’Italia è l’unico Paese europeo che ha siglato un accordo per la produzione di dieci milioni di dosi di Sputnik. Questa rottura del fronte antirusso è stata accolta con freddezza dai maggiori Paesi Ue. I dieci miliardi di dollari che la Russia incamererebbe dalla vendita ipotetica di un miliardo di dosi in tutto il mondo inquietano, considerando che eguagliano quasi il valore delle sue esportazioni di armi dello stesso periodo. Intanto il laboratorio siberiano Vektor ha registrato il secondo vaccino russo: l’EpiVacCorona.
I vaccini cinesi
Turchia, Egitto, Ungheria. Basterebbero questi tre Stati, che hanno accolto i vaccini cinesi SinoPharm e SinoVac, a dare la misura di come la Cina si muova offrendo alleanze a Paesi-chiave in quadranti strategici. In Sud America le esportazioni riguardano colossi come Argentina, Brasile e Perù. Nella propria area ha conquistato le Filippine, in rotta con l’alleato Usa per non avere avuto le dosi promesse di Pfizer-BioNTech, e l’Indonesia, altro partner Usa deluso, accanto a Thailandia, Laos e Cambogia. L’offensiva è tale che Stati Uniti e Giappone sono pronti a finanziare un miliardo di dosi, da produrre in India e far distribuire dall’Australia in tutto il Sud-Est asiatico.
L’india: due vaccini «nazionali» e la produzione del 60% dei vaccini mondiali
L’India ha elaborato un paio di vaccini con cui sta mettendo in sicurezza la propria popolazione (1,3 miliardi di abitanti) ma produce il 60% dei vaccini distribuiti nel mondo, in particolare AstraZeneca. Questo ne fa una potenza sullo scacchiere dei vaccini.
I vaccini e le tentazioni «autarchiche»
Una notazione a proposito dell’India, Cina e Stati Uniti: il fatto che la Cina produca la maggior parte delle molecole e dei principi attivi, che l’India produca il 60% dei vaccini mondiali e che gli Usa monopolizzino il settore dei bioreattori e dei materiali plastici necessari per i vaccini, spiega perché una loro torsione autarchica sarebbe foriera di seri problemi soprattutto per l’incauta Europa.
In Sicilia, e non solo, lavoratori dei supermercati mobilitati, a macchia di leopardo e senza un reale coordinamento, per sostenere “il diritto di essere vaccinati” in via prioritaria. Dopo mesi in prima linea, a contatto con clienti e fornitori per garantire un servizio essenziale, chiedono di avere una corsia preferenziale che il Piano vaccinale non prevede. Come loro, fanno sentire la loro protesta anche altre categorie, dagli avvocati alle badanti. Ma quanto è giustificata, dati alla mano, la richiesta dei cassieri della grande distribuzione?
In altre parole, è possibile “misurare” il rischio contagio di una categoria professionale? Facciamo prima un passo indietro, per capire innanzitutto quali sono i criteri della vaccinazione in via prioritaria.
Le categorie di cittadini da vaccinare in via prioritaria
Il Piano vaccini e le sue norme attuative, promossi dal Governo Conte prima e dall’Esecutivo Draghi poi, prevedono varie fasi di vaccinazione. E, per ciascuna, individuano specifiche categorie di cittadini da “mettere in sicurezza” con la somministrazione dei farmaci anti-Covid. In estrema sintesi la priorità per la Fase 1 è la vaccinazione degli operatori sanitari e sociosanitari, il personale e gli ospiti delle residenze per anziani, e gli anziani over 80. La Fase 2 individua sei categorie prioritarie. Si tratta delle persone estremamente vulnerabili (1), gli anziani tra i 70 e i 79 anni (2 e 3); le persone tra i 16 e i 69anni con aumentato rischio clinico se infettate da Covid-19 (4); i 55-69enni senza condizioni che aumentano il rischio clinico (5) e infine i cittadini tra i 18 e i 54 anni senza condizioni che aumentano il rischio clinico (6).
Il personale scolastico e universitario docente e non docente, le Forze armate e di Polizia, detenuti e personale carcerario e dei luoghi di comunità e, in generale, gli addetti ai servizi essenziali non hanno un ordine di priorità predefinito, ma saranno vaccinate in contemporanea alle categorie sopra descritte “in caso di disponibilità di vaccini”. E questo “in maniera da incrementare nel minor tempo possibile il numero di persone in grado di acquisire protezione rispetto all’infezione da Sars-Cov-2”.
Il criterio è dunque essenzialmente quello anagrafico, quindi con precedenza ai più anziani, con un’attenzione prioritaria alle categorie professionali ritenute a più alta probabilità di contagio (medici, infermieri, operatori sanitari, personale Rsa), a chi lavora o vive nei setting a rischio (penitenziari e luoghi di comunità), o svolge un lavoro di particolare rilevanza sociale (docenti e personale scolastico) o garantisce un servizio essenziale (Forze armate, Forze di Polizia).
Elevato rischio contagio per 6,5 milioni di lavoratori
Cerchiamo ora di individuare la platea dei lavoratori da mettere “sotto osservazione” per rispondere alla domanda da cui siamo partiti. Secondo uno studio del 2020 della Fondazione Studi dei Consulenti del lavoro (“Il rischio contagio tra gli occupati italiani”) i lavoratori italiani che presentano un elevato rischio di contagio da malattie infettive respiratorie come il Coronavirus sono circa 6,5 milioni, il 28,3% dell’intera popolazione occupata (23 milioni). Di questi, 2,8 milioni (12,2%) presentano un rischio estremamente elevato, mentre 3,7 milioni (16,1%), un rischio alto, ma non elevatissimo. Lo studio individua quindi le professioni più esposte ricorrendo a un innovativo “Indicatore di rischio contagio”, basato su cinque parametri: numero medio di contatti con altre persone richiesti nello svolgimento dell’attività lavorativa; l’interazione con clienti esterni o con il pubblico; la frequenza del lavoro al chiuso; la vicinanza fisica ad altre persone nello svolgimento del lavoro; e la frequenza di esposizione a malattie e infezioni, come conseguenza del lavoro svolto.
Su una scala da 1 a 100, in base all’”Indicatore di rischio contagio”, il gruppo professionale più pericoloso, in termini di esposizione al Covid, è, come prevedibile e come dimostrato da oltre un anno di pandemia, quello del settore sanità e dintorni. In testa alla classifica troviamo infatti i medici (308mila soggetti), con indice di rischio (IR) 90, il più alto in assoluto. Seguono, con IR 88, i tecnici della salute, come infermieri, radiologi, ed esperti di diagnostica (736mila). Poi ci sono i professionisti dei servizi sanitari e sociali, come i massaggiatori sportivi, gli operatori sociosanitari e gli assistenti degli studi medici (258mila), con IR 86.
Scorrendo la graduatoria, con un livello di rischio più basso, troviamo quelli che lo studio dei consulenti del lavoro chiama “specialisti delle scienze della vita”, ossia farmacisti, biologi, e veterinari (150mila addetti) e i professori della scuola primaria (485mila), categorie per le quali il rischio contagio oscilla in un range tra 73 e 76. Proseguendo troviamo, tutti con IR 63, i professionisti delle cure estetiche (parrucchieri, estetisti e massaggiatori, in tutto 277mila addetti), e i tecnici dei servizi sociali (assistenti sociali, operatori dei servizi all’impiego, per un totale di 88mila occupati).
Ancora, con IR 62, i 492mila addetti ai servizi personali e assimilati, come baby sitter, badanti e caregiver, e gli assistenti di viaggio, tra cui hostess, steward e accompagnatori di gruppi (19mila addetti). Nel complesso, fin qui, tutte professioni che per “esposizione a possibili infezioni, ambiente di lavoro chiuso, contatto fisico con utenti, esposizione a numero elevato di contatti”, sono evidentemente esposte a un elevato rischio di contagio. E che anche per questo rientrano a pieno titolo tra le categorie prioritarie del Piano vaccinale.
La seconda linea delle professioni più esposte
Meno elevato “ma comunque alto”, sottolineano i consulenti del lavoro, è invece l’Indice di rischio (compreso tra 50 e 60) che il report (elaborato su dati Icp-Inapp e Istat) riconosce al successivo gruppo professionale. Si va dagli addetti turistici e assimilati (73mila, IR 57) agli esercenti e gli addetti nelle attività di ristorazione come baristi, camerieri e cuochi (1 milione 183mila addetti, IR 54), passando dagli addetti alle vendite, come commessi e cassieri (anche dei supermercati), e il personale dei distributori di benzina (1 milione 108mila occupati, IR 54) e dai professori di scuola secondaria e post-secondaria (469mila, IR 54). Nel gruppo sono presenti anche receptionist e addetti all’accoglienza (280mila, IR 53), e gli addetti agli sportelli e ai cassieri di banca (IR 54).
Dati alla mano, i livelli di esposizione al rischio dei lavoratori risultano nel complesso molto diversificati se declinati rispetto ai diversi comparti dell’economia. Nell’industria, per esempio, solo il 2,7% degli addetti presenta un elevato rischio di contagio, e il livello è basso anche le costruzioni e il settore agricolo. “Di contro – sottolinea lo studio – i lavori ad alto rischio di contagio tendono a concentrarsi in alcuni settori, come la sanità e l’istruzione, dove il 53,9% presenta un rischio molto elevato di contagio e il 21,1% uno alto, le attività turistiche – alberghi e ristoranti – dove l’82,7% degli occupati presenta un rischio alto, anche se non elevatissimo, servizi collettivi e personali (attività sportive, culturali, di assistenza), dove la quota complessiva di lavoratori a rischio è pari al 43% e infine il commercio, settore in cui è ad alto rischio contagio il 34,9% di lavoratori”.
147mila casi di contagio denunciati all’Inail nel 2020
Per avere una conferma indiretta di questa analisi, dobbiamo chiedere aiuto all’Inail, l’istituto nazionale per l’assicurazione dagli infortuni sul lavoro, che ha tra i suoi compiti anche quello di monitorare le malattie professionali. Secondo il 13° Report Covid della Consulenza statistico attuariale Inail, diffuso a febbraio, i contagi da Coronavirus denunciati all’istituto alla data del 31 gennaio sono 147.875, “pari a circa un quarto delle denunce complessive di infortunio sul lavoro pervenute dall’inizio del 2020”. I casi mortali causa Covid rilevati sempre al 31 gennaio sono invece 461.
Tra le attività produttive, il maggior numero delle segnalazioni di malattia professionale causa Covid è arrivato dal settore della sanità e dell’assistenza sociale (ospedali, case di cura e di riposo, istituti, cliniche e policlinici universitari, residenze per anziani e disabili), al primo posto con il 68,8% del totale delle denunce e il 25,9% dei decessi. A seguire l’amministrazione pubblica (in particolare organismi sanitari e Asl e le amministrazioni regionali, provinciali e comunali), con il 9,2% dei contagi e il 10,7% dei casi mortali. Gli altri settori più colpiti, spiega il Report, “sono i servizi di supporto alle imprese (vigilanza, pulizia e call center), il manifatturiero (tra cui gli addetti alla lavorazione di prodotti chimici e farmaceutici, stampa, industria alimentare), al secondo posto per numero di decessi con il 13,2% del totale, le attività dei servizi di alloggio e ristorazione, il trasporto e magazzinaggio e le altre attività di servizi (pompe funebri, lavanderia, riparazione di computer e di beni alla persona, parrucchieri, centri benessere…), le attività professionali, scientifiche e tecniche (consulenti del lavoro, della logistica aziendale, di direzione aziendale) e il commercio all’ingrosso e al dettaglio”.
Non i primi, ma nemmeno gli ultimi
Anche per l’Inail, dunque, gli addetti alle vendite e i cassieri, inseriti nel settore del commercio, rientrano de facto tra le categorie a rischio, senza dimenticare che la fotografia dell’Istituto è comunque parziale rispetto alla realtà. Il perché lo spiega il rapporto a più voci (Istat, Inail, Anpal, Inps, ministero del Lavoro) sul “Mercato del lavoro 2020” del 25 febbraio scorso: “Nei primi nove mesi del 2020 si registra una forte flessione delle malattie professionali denunciate (poco meno del 30%), conseguenza dell’epidemia da SARS-Cov-2che ha influito sia per la sospensione temporanea o la chiusura nel corso dell’anno di molte attività economiche, sia per la difficoltà oggettiva dei lavoratori di effettuare di persona la denuncia di malattia”.
Concludendo: gli addetti al commercio al dettaglio e nella grande distribuzione non rientrano nelle categorie professionali in assoluto più esposte al Coronavirus, primato che spetta ai medici, ai paramedici e ai professionisti della Sanità. Ma il loro “Indice di rischio” è comunque “alto” o “molto alto” per oltre il 34% della categoria. Percentuale non paragonabile a quella attribuita a chi lavora nel settore dell’istruzione, della sanità e dei servizi sociali (rischio alto o molto alto per il 75% degli addetti), o in quello dei servizi collettivi e personali (43%). Ma è pur sempre oltre il 34 per cento. I luoghi di lavoro – sintetizza lo studio dei consulenti del lavoro – “sono gli ambiti più a rischio: non solo perché frequentati da una quota importante di popolazione (…) ma anche per il tempo che vi si trascorre. Nello specifico, le caratteristiche dell’attività professionale svolta possono condizionare fortemente il livello di tale rischio, determinando una maggiore o minore esposizione da parte del lavoratore”.
I farmaci usati per la cura del colesterolo, a base di statine, ridurrebbero sensibilmente la mortalità nei pazienti gravi con Covid-19. “Studi parlano di una riduzione del 30-50%, un dato importante”
La notizia può assumere un grande significato ed aprire nuove prospettive nella lotta al Covid-19: le statine utilizzate per il colesterolo avrebbero un ruolo molto importante nel ridurre la mortalità nei pazienti gravi ospedalizzati con l’infezione da Sars-Cov-2.
Cosa dice lo studio
Lo studio, pubblicato su una delle riviste scientifiche mondiali più importanti, Nature Communication, ha osservato un totale di 2626 pazienti ospedalizzati: gli autori hanno deciso di confrontare 1296 pazienti di cui 648 già utilizzatori di statine e 648 non consumatori di statine.
“Concludiamo che l’uso di statine antecedenti nei pazienti ospedalizzati con Covid-19 è associato a una minore mortalità ospedaliera”, scrivono i ricercatori. “Sebbene le statine siano state tradizionalmente somministrate per abbassare il colesterolo sierico, i loro effetti pleiotropici, comprese le proprietà antinfiammatorie e antitrombotiche, le rendono una classe di farmaci attraente nel contesto del Covid-19”, aggiungono. Questi farmaci sono i più utilizzati per ridurre i livelli eccessivamente elevati di grassi nel sangue: come riportato da un giornale web specializzato, la prima statina ad essere scoperta, nel 1976, fu la mevastatina, un composto di origine naturale isolato per la prima volta da colture di due specie di fungo appartenenti al genere Penicillium e che può essere considerato come il precursore di tutte le statine. 1976.
“Riduzione di mortalità fra 30 e 50%”
“Il farmaco è di larghissimo uso, 30 anni fa venne introdotto per ridurre il colesterolo e le statine hanno avuto un grandissimo successo terapeutico perché, negli anni, hanno dimostrato non solo di ridurre il colesterolo ma anche gli infarti e la mortalità cardiovascolare. Le statine sono un farmaco cardine della terapia dell’infartuato e della prevenzione dall’infarto”, afferma in esclusiva per ilgiornale.it il Prof. Maurizio Averna, Responsabile Unità di Medicina d’urgenza dell’ Azienda Ospedaliera Universitaria “Paolo Giaccone” di Palermo, Consigliere Nazionale della Società Italiana di Medicina Interna (SIMI) ed esperto di fama internazionale su colesterolo e statine.
Il professore ci spiega che l’articolo di Nature rientra tra i migliori fin qui condotti e si unisce a quelli che sono stati pubblicati in quest’anno di pandemia su altre riviste importanti, un numero compreso fra 25 e 30 studi in cui tutti i risultati vanno nella stessa direzione. “Tra i ricoverati per Covid, in quelli che definiamo ‘users’, cioè coloro i quali avevano fatto uso di statine rispetto a quelli che non ne avevano mai fatto uso, c’è stata una riduzione della mortalità che oscillava fra il 30 ed il 50%, un dato importante – afferma Averna – È importante perché, in quest’ultimo lavoro fatto molto bene, sono stati studiati oltre 600 ricoverati Covid con uso precedente di statine ed altri 600 ricoverati che non ne avevano mai fatto uso. La riduzione della mortalità a 30 giorni era del 45% circa”. Questo lavoro conferma altre due metanalisi, cioè l’analisi contemporanea di più studi, una su studi fatti in Cina e Corea con malati Covid ricoverati e l’altra su pazienti ricoverati in Europa e Stati Uniti. “Ebbene, le due metanalisi sono andate nella stessa direzione: c’è una riduzione di mortalità fra 30 e 50% nei pazienti che facevano uso di statine, questo è un dato solido”.https://139b604774008aa7d2ab036ebf79e126.safeframe.googlesyndication.com/safeframe/1-0-37/html/container.html
Il ruolo delle statine: 5 diverse ipotesi
Ma perché le statine provocano una riduzione della mortalità? Il Prof. Averna ci ha spiegato cinque valide interpretazioni per questo fenomeno osservazionale. “La prima è che le statine riducano la mortalità cardiovascolare: coloro i quali sono stati trattati cronicamente con statine, quando si ammalano di Covid ed hanno una serie di comorbidità che li costringe in ospedale, il virus a cascata potrebbe scompensare gli altri organi portando alla morte per malattia cardiovascolare. I pazienti che la utilizzavano prima, però, sarebbero protetti da questi eventi cardiovascolari”, spiega l’esperto. La seconda possibilità, invece, riguarda direttamente gli effetti del farmaco sulla riduzione del colesterolo, il vero motivo per cui sono stati prodotti. “Quando si riduce il colesterolo, la riduzione media una serie di azioni che sono antinfiammatorie e anticoagulative: è stato dimostrato che le statine hanno un’attività antinfiammatoria in vitro e in vivo, sull’uomo, riducono un parametro che indica l’infiammazione chiamato ‘proteina C reattiva’, l’esame che chiede il medico per vedere se c’è infiammazione. Le statine riducono la proteina C reattiva e riducono pure l’aggregazione delle piastrine, il primo fenomeno che porta alla trombosi”. La riduzione avviene perché cambia il contenuto di colesterolo nelle membrane cellulari: cambiando questo contenuto, si ha meno flogosi (infiammazione) e meno aggregazione piastrinica. “Questa potrebbe essere un’altra chiave di interpretazione del dato osservazionale”, sottolinea Averna.
“Una terza chiave di interpretazione è sempre legata alla modifica delle membrane: il virus, per entrare dentro la cellula, usa dei recettori. Questi recettori sono concentrati in punti della membrana delle cellule; il virus usa queste porte per entrare nella cellula ma quando cambia la composizione di colesterolo delle membrane, queste zone di arricchimento diventano rarefatte ed il virus potrebbe avere maggiore difficoltà ad entrare e infettare”, ci dice l’esperto. Una quarta possibilità, invece, è di recente scoperta e riguarda una dimostrazione ottenuta in silico, cioè eseguito al computer o tramite simulazione al computer. “Si è visto che la statina, come struttura molecolare, è un potente inibitore di una proteasi virale del Covid chiamata ‘Mpro’, proteasi M. Le statine potrebbero inibire questa proteasi che è fondamentale per la replicazione virale, quindi sarebbe di ostacolo al virus”. Ma c’è anche un quinto indizio che va su questa strada e riguarda un lavoro spagnolo dello scorso anno costruito allo stesso modo di quello pubblicato su Nature Communication. “Non solo ha dimostrato la stessa cosa, che c’è una riduzione della mortalità del 40-50% in chi aveva fatto uso di statine, ma la riduzione era maggiore se si continuavano ad utilizzare anche in ospedale”.
“Cura anti-Covid? Non saprei dire”
Insomma, cinque indizi fanno più di una prova ma il Prof. Averna rimane cauto. “Se lei mi chiede di curare il Covid con le statine non le so rispondere, non abbiamo elementi per dare una risposta del genere ma le posso dire sicuramente una cosa: dopo un anno di Covid, la prevenzione secondaria delle malattie cardiovascolari, quella che si fa con le statine, credo che abbia avuto un arresto per una serie di motivi”, afferma l’esperto. I motivi riguardano la riduzione del 40% delle attività di cardiologia interventistica, come nel caso degli stent, perché la gente non è più andata in ospedale anche in presenza di sindrome coronarica acuta. “La stessa cosa credo sia accaduta anche per i controlli, la frequentazione degli ambulatori specialistici per le prescrizioni di farmaci di questo tipo. Credo che vedremo l’effetto di quest’anno di pandemia in termini di peggioramento della prevenzione cardiovascolare perché avremo più eventi avversi ma questo lavoro, però, potrebbe servire a far capire di non abbandonare la terapia statinica anche se non si ha il Covid, può proteggere in ogni caso”.
Il giusto scetticismo del Prof. Averna deriva da quanto accaduto in passato, quando le statine erano state provate nella sindrome da distress respiratoria, cioè insufficienza respiratoria acuta, quadro analogo con quello che si verifica nei pazienti più gravi con Covid. I risultati, però, non sono stati convincenti. “Questo tentativo era già stato fatto ma i risultati sono stati conflittuali, non me la sento di dire una cosa del genere”. A questo punto, per essere sicuri di utilizzare le statine “come coadiuvante terapeutico per un paziente Covid, dobbiamo assolutamente aspettare i risultati da un trial d’intervento, cioè un trial disegnato ad hoc e non uno studio retrospettivo. In questo momento, il consiglio da dare ai pazienti è di continuare a fare le statine e non lasciarle”, conclude Averna.
Il costo sarà tutto a carico delle imprese ma Confindustria conferma al governo il proprio contributo per vaccinare in azienda lavoratori e loro dipendenti.
La firma del primo protocollo d’intesa tra la ministra degli Affari regionali Maria Stella Gelmini, il governatore del Friuli-Venezia Giulia Fedriga, il presidente di Confindustria regionale Giuseppe Bono e i sindacati definisce per la prima volta in concreto le regole per le vaccinazioni sul posto di lavoro aprendo la strada ad accordi che verranno estesi a tutto il Paese, contribuendo così ad immunizzare decine di migliaia di persone
L’ACCORDO. La piena riuscita dell’accordo, frutto del lavoro congiunto della direzione Prevenzione della Regione, di Confindustria Fvg, delle organizzazioni sindacali regionali, delle Cooperative dei medici di base e della Croce Rossa Italiana – Comitato Regionale del Friuli Venezia Giulia, è subordinata alla concreta disponibilità dei vaccini.
È previsto anzitutto il coinvolgimento dei Comitati anti-Covid 19 costituitisi in azienda per la selezione degli ambiti, determinati in virtù di criteri di precedenza oggettivi quali l’età o l’esposizione a maggior rischio sì da rendere tempestiva la risposta delle imprese al momento di fornire le indicazioni necessarie, promuovere le opere di sensibilizzazione e attivare le procedure di accertamento sui lavoratori interessati. Dopodiché la Regione, in ottemperanza con i piani di vaccinazione elaborati secondo le indicazioni del Governo, informerà Confindustria FVG della disponibilità di vaccini da destinare alla terza fase dell’operazione. E sarà proprio compito di quest’ultima comunicare alle aziende l’avvio e i tempi della campagna richiedendo alle stesse di prenotare entro una certa data, in via telematica, i vaccini per il numero dei lavoratori disponibili ad effettuare volontariamente la somministrazione.
Sarà elaborato un ordine di priorità nella prenotazione della fornitura in relazione alla data di arrivo della comunicazione telematica fino a concorrenza dei numeri di vaccini disponibili. Le imprese provvederanno a indicare il numero dei vaccini necessari nel pieno rispetto delle vigenti disposizioni in materia di tutela della riservatezza. Confindustria FVG comunicherà infine alle aziende l’attivazione della fase di somministrazione. Alle imprese che non rientrano nella lista verrà assegnato un diritto di precedenza sulla base della data di arrivo dell’adesione per i vaccini successivamente assegnati dalla Regione.
Somministrazione. La somministrazione potrà avvenire solo nelle strutture/operatori in grado di garantire il pieno rispetto delle normative sanitarie e disporre di abilitato e formato. Le imprese cui Confindustria FVG avrà comunicato l’inserimento nella lista di prelazione, sottoscriveranno, indicando il numero preciso di vaccini da effettuare, il contratto di somministrazione o con la Cooperativa medici di base Cure primarie di Pordenone e la Croce Rossa Italiana – Comitato Regionale del FVG nei termini precisati dalla convenzione stipulata tra queste e Confindustria Fvg.
Sarà una di queste tre figure a prendere in carico il numero di vaccini corrispondenti alle richieste contrattuali provvedendo poi alla somministrazione entro il perimetro aziendale e durante l’orario di lavoro (ferma restando la possibilità per motivi di organizzazione e numerici che possa essere effettuata in locali in prossimità della sede aziendale e/o con tempi che possano essere estesi subito prima e subito dopo l’orario di lavoro).
Rimane sempre a carico della struttura sanitaria somministratrice dell’eventuale prima dose del vaccino provvedere all’informazione nei confronti dell’impresa e dei lavoratori della somministrazione della seconda. Il costo della somministrazione è a carico dell’impresa.
L’accordo è stato sottoscritto da: Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia – Presidente della Giunta Massimiliano Fedriga e VP Riccardo Riccardi, Confindustria Friuli Venezia Giulia – Presidente Giuseppe Bono assistito dal Direttore Generale Massimiliano Ciarrocchi e dal Direttore Operativo Giuseppe Del Col, CGIL Friuli Venezia Giulia (Segretario Villiam Pezzetta), CISL Friuli Venezia Giulia (Segretario Alberto Monticco) e UIL Friuli Venezia Giulia (Segretario Giacinto Menis) con la presenza di Medici Cure Primarie Friuli Occidentale Soc. Coop. e della Croce Rossa Italiana – Comitato Regionale del Friuli Venezia Giulia in persona rispettivamente di Paolo Montanucci e Milena Cisilino.
Continua la polemica sulle mascherine con il costante apporto da parte degli esperti per identificare i prodotti “irregolari”. Nel mirino sono finite quelle con la marchiatura CE 2163, certificate dal laboratorio turco Universalcert e vendute anche in alcune farmacie italiane, su cui sono ancora in corso indagini. Al momento sono ancora nel database UE: l’obiettivo è ora capire se i dispositivi fossero non a norma già dopo aver ottenuto il “bollino” CE oppure se le modalità di produzione siano cambiate successivamente. Ci sono però altri codici che sono considerati certamente non sicuri, a cui gli acquirenti devono fare attenzione. Queste le sigle “sospette”, come riporta Il Giorno:
ICR Polska (Polonia) – CE 2703
CELAB (Italia) – CE 2037
ECM (Italia) – CE 1282
ISET (Italia) – CE 0865
TSU Slovakia (Slovacchia) – CE 1299
Chiunque sia in possesso di mascherine Ffp2 con questo marchio, quindi, fa meglio a liberarsene. Intanto la Comunità Europea ha realizzato un database in cui si può inserire il codice della propria mascherina e verificare se questa è in regola o meno e se la società che l’ha venduta abbia o meno i requisiti per farlo.
Mascherine Ffp2: la guida
Ma come si è arrivati a questa confusione su uno strumento giudicato fra le protezioni fondamentali dal contagio? Il sito altroconsumo.it ha fatto chiarezza sulla natura delle Ffp2 e su come verificare la loro correttezza. Le mascherine Ffp2 (come le sorelle Ffp3) sono mascherine filtranti facciali. Per essere messe in commercio devono essere prima analizzate da un organismo terzo che ne certifichi l’aderenza ai requisiti della norma tecnica EN 149:2001 sulla protezione delle vie respiratorie. Ottenuto il via libera il produttore potrà “fregiarsi” del marchio CE. Come riconoscere le mascherine a norma? Sulla confezione e sul prodotto deve essere riportato il marchio CE accompagnato da un codice di quattro numeri. Questo identifica il laboratorio o un altro soggetto che ha dato il via libera al prodotto perché questo è in linea con la norma EN 149:2001. Il marchio CE, per altro, deve avere proporzioni precise. Se è diverso o ha dimensioni differenti può essere contraffatto e quindi non rispettare gli standard di sicurezza europei.
Come valutare se le mascherine Ffp2 acquistate sono regolari
Le informazioni che servono sono due: il codice di 4 lettere che si abbina al marchio CE e il certificato che accompagna il dispositivo di protezione. L’elenco completo di tutti gli enti certificatori compare sul database “Nando” della Commissione Europea. In questa lista possiamo controllare se il numero che accompagna il marchio CE della nostra mascherina Ffp2 corrisponde a un laboratorio autorizzato a valutare i dispositivi di protezione e a certificarli. Basta cercare il codice di 4 numeri e aprire la scheda dell’organismo. Qui troveremo quali prodotti può certificare. Nel caso delle Ffp2 devono essere citati il “personal protective equipment” e il Regolamento EU 2016/425. E tra i prodotti valutati deve essere presente il riferimento a “Equipment providing respiratory system protection”. Se non compare in questo elenco, il certificato che accompagna le nostre mascherine è quasi sicuramente un falso.
Le informazioni obbligatorie del certificatore
Il certificato di conformità emesso da un laboratorio autorizzato deve contenere informazioni obbligatorie. Se non ci sono è molto probabile che il certificato sia contraffatto. Queste le informazioni indispensabili:
nome e codice numerico dell’organismo notificato che certifica;
nome e indirizzo del fabbricante o del mandatario;
tipologia di DPI;
riferimento alle norme tecniche considerate per la certificazione della conformità
data di rilascio.
Sempre nel database Nando sono presenti gli indirizzi dei siti web degli enti certificatori. Qui, solitamente, si può verificare se i certificati sono autentici e si può anche individuare il produttore della mascherina per cui è stata chiesta la certificazione, a cui poi si può scrivere un’email. Attenzione anche al QR Code di cui sono dotate alcune confezioni o imballaggi di dispositivi di protezione individuale. Questi QR Code rimandano direttamente al sito dell’ente su cui verificare la validità della certificazione.
Mascherine commercializzate in deroga
Data la “fame” di mascherine nei mesi scorsi il governo, con il decreto Cura Italia, ha consentito la vendita in deroga – solo per quanto riguarda le tempistiche di autorizzazione – di alcuni dispositivi di protezione individuale privi di marchio CE. Detto che gli standard della norma EN 149:2001 devono essere comunque rispettati anche da queste mascherine, i produttori devono inviare all’Inail la documentazione riguardo l’aderenza dei loro dispositivi a tutte le specifiche tecniche e di qualità previste attraverso l’autocertificazione. Sarà l’Inail, a questo punto, una volta analizzata la documentazione, ad autorizzarne la vendita. Sul sito dell’Inail c’è una pagina dove si può trovare l’elenco dei dispositivi di protezione individuali che hanno ricevuto il via libera.
Il documento, redatto dal gruppo di lavoro Iss, Ministero della Salute, Aifa e Inail, risponde a diversi quesiti sulle misure farmacologiche, di prevenzione e controllo delle infezioni da Coronavirus sorti con il progredire della campagna vaccinale contro il contagio e la comparsa delle diverse varianti del virus
La circolazione prolungata del virus Sars-CoV-2 e la comparsa di varianti virali, di cui solo alcune destano preoccupazione per la salute pubblica (Variant Of Concern, Voc), sono al centro di indagini per accertarne la presenza e la diffusione. Mentre la campagna vaccinale anti-Covid-19 è attualmente in corso, sono sorti diversi quesiti sulle misure di prevenzione e di controllo delle infezioni sostenute da varianti di Sars-CoV-2 sia di tipo non farmacologico sia di tipo farmacologico. Nonostante le conoscenze sulle nuove varianti virali siano ancora in via di consolidamento, vengono fornite specifiche indicazioni, basate sulle evidenze ad oggi disponibili, che possano essere di riferimento per l’implementazione delle strategie di prevenzione e controllo dei casi di Covid-19 sostenuti da queste varianti virali.
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