VACCINI E CATEGORIE DEI LAVORATORI PER INDICE DI RISCHIO

22 Marzo 2021

Da il sole 24ore

In Sicilia, e non solo, lavoratori dei supermercati mobilitati, a macchia di leopardo e senza un reale coordinamento, per sostenere “il diritto di essere vaccinati” in via prioritaria. Dopo mesi in prima linea, a contatto con clienti e fornitori per garantire un servizio essenziale, chiedono di avere una corsia preferenziale che il Piano vaccinale non prevede. Come loro, fanno sentire la loro protesta anche altre categorie, dagli avvocati alle badanti. Ma quanto è giustificata, dati alla mano, la richiesta dei cassieri della grande distribuzione?

In altre parole, è possibile “misurare” il rischio contagio di una categoria professionale? Facciamo prima un passo indietro, per capire innanzitutto quali sono i criteri della vaccinazione in via prioritaria.

Le categorie di cittadini da vaccinare in via prioritaria

Il Piano vaccini e le sue norme attuative, promossi dal Governo Conte prima e dall’Esecutivo Draghi poi, prevedono varie fasi di vaccinazione. E, per ciascuna, individuano specifiche categorie di cittadini da “mettere in sicurezza” con la somministrazione dei farmaci anti-Covid. In estrema sintesi la priorità per la Fase 1 è la vaccinazione degli operatori sanitari e sociosanitari, il personale e gli ospiti delle residenze per anziani, e gli anziani over 80. La Fase 2 individua sei categorie prioritarie. Si tratta delle persone estremamente vulnerabili (1), gli anziani tra i 70 e i 79 anni (2 e 3); le persone tra i 16 e i 69anni con aumentato rischio clinico se infettate da Covid-19 (4); i 55-69enni senza condizioni che aumentano il rischio clinico (5) e infine i cittadini tra i 18 e i 54 anni senza condizioni che aumentano il rischio clinico (6).

(foto Ansa)

Vaccini, ecco il piano: 500mila dosi al giorno e 80% di immunizzati entro settembre. In campo anche i medici della grande distribuzione

Il personale scolastico e universitario docente e non docente, le Forze armate e di Polizia, detenuti e personale carcerario e dei luoghi di comunità e, in generale, gli addetti ai servizi essenziali non hanno un ordine di priorità predefinito, ma saranno vaccinate in contemporanea alle categorie sopra descritte “in caso di disponibilità di vaccini”. E questo “in maniera da incrementare nel minor tempo possibile il numero di persone in grado di acquisire protezione rispetto all’infezione da Sars-Cov-2”.

Il criterio è dunque essenzialmente quello anagrafico, quindi con precedenza ai più anziani, con un’attenzione prioritaria alle categorie professionali ritenute a più alta probabilità di contagio (medici, infermieri, operatori sanitari, personale Rsa), a chi lavora o vive nei setting a rischio (penitenziari e luoghi di comunità), o svolge un lavoro di particolare rilevanza sociale (docenti e personale scolastico) o garantisce un servizio essenziale (Forze armate, Forze di Polizia).

Elevato rischio contagio per 6,5 milioni di lavoratori

Cerchiamo ora di individuare la platea dei lavoratori da mettere “sotto osservazione” per rispondere alla domanda da cui siamo partiti. Secondo uno studio del 2020 della Fondazione Studi dei Consulenti del lavoro (“Il rischio contagio tra gli occupati italiani”) i lavoratori italiani che presentano un elevato rischio di contagio da malattie infettive respiratorie come il Coronavirus sono circa 6,5 milioni, il 28,3% dell’intera popolazione occupata (23 milioni). Di questi, 2,8 milioni (12,2%) presentano un rischio estremamente elevato, mentre 3,7 milioni (16,1%), un rischio alto, ma non elevatissimo. Lo studio individua quindi le professioni più esposte ricorrendo a un innovativo “Indicatore di rischio contagio”, basato su cinque parametri: numero medio di contatti con altre persone richiesti nello svolgimento dell’attività lavorativa; l’interazione con clienti esterni o con il pubblico; la frequenza del lavoro al chiuso; la vicinanza fisica ad altre persone nello svolgimento del lavoro; e la frequenza di esposizione a malattie e infezioni, come conseguenza del lavoro svolto.

Su una scala da 1 a 100, in base all’”Indicatore di rischio contagio”, il gruppo professionale più pericoloso, in termini di esposizione al Covid, è, come prevedibile e come dimostrato da oltre un anno di pandemia, quello del settore sanità e dintorni. In testa alla classifica troviamo infatti i medici (308mila soggetti), con indice di rischio (IR) 90, il più alto in assoluto. Seguono, con IR 88, i tecnici della salute, come infermieri, radiologi, ed esperti di diagnostica (736mila). Poi ci sono i professionisti dei servizi sanitari e sociali, come i massaggiatori sportivi, gli operatori sociosanitari e gli assistenti degli studi medici (258mila), con IR 86.

Scorrendo la graduatoria, con un livello di rischio più basso, troviamo quelli che lo studio dei consulenti del lavoro chiama “specialisti delle scienze della vita”, ossia farmacisti, biologi, e veterinari (150mila addetti) e i professori della scuola primaria (485mila), categorie per le quali il rischio contagio oscilla in un range tra 73 e 76. Proseguendo troviamo, tutti con IR 63, i professionisti delle cure estetiche (parrucchieri, estetisti e massaggiatori, in tutto 277mila addetti), e i tecnici dei servizi sociali (assistenti sociali, operatori dei servizi all’impiego, per un totale di 88mila occupati).

Ancora, con IR 62, i 492mila addetti ai servizi personali e assimilati, come baby sitter, badanti e caregiver, e gli assistenti di viaggio, tra cui hostess, steward e accompagnatori di gruppi (19mila addetti). Nel complesso, fin qui, tutte professioni che per “esposizione a possibili infezioni, ambiente di lavoro chiuso, contatto fisico con utenti, esposizione a numero elevato di contatti”, sono evidentemente esposte a un elevato rischio di contagio. E che anche per questo rientrano a pieno titolo tra le categorie prioritarie del Piano vaccinale.

La seconda linea delle professioni più esposte

Meno elevato “ma comunque alto”, sottolineano i consulenti del lavoro, è invece l’Indice di rischio (compreso tra 50 e 60) che il report (elaborato su dati Icp-Inapp e Istat) riconosce al successivo gruppo professionale. Si va dagli addetti turistici e assimilati (73mila, IR 57) agli esercenti e gli addetti nelle attività di ristorazione come baristi, camerieri e cuochi (1 milione 183mila addetti, IR 54), passando dagli addetti alle vendite, come commessi e cassieri (anche dei supermercati), e il personale dei distributori di benzina (1 milione 108mila occupati, IR 54) e dai professori di scuola secondaria e post-secondaria (469mila, IR 54). Nel gruppo sono presenti anche receptionist e addetti all’accoglienza (280mila, IR 53), e gli addetti agli sportelli e ai cassieri di banca (IR 54).

Dati alla mano, i livelli di esposizione al rischio dei lavoratori risultano nel complesso molto diversificati se declinati rispetto ai diversi comparti dell’economia. Nell’industria, per esempio, solo il 2,7% degli addetti presenta un elevato rischio di contagio, e il livello è basso anche le costruzioni e il settore agricolo. “Di contro – sottolinea lo studio – i lavori ad alto rischio di contagio tendono a concentrarsi in alcuni settori, come la sanità e l’istruzione, dove il 53,9% presenta un rischio molto elevato di contagio e il 21,1% uno alto, le attività turistiche – alberghi e ristoranti – dove l’82,7% degli occupati presenta un rischio alto, anche se non elevatissimo, servizi collettivi e personali (attività sportive, culturali, di assistenza), dove la quota complessiva di lavoratori a rischio è pari al 43% e infine il commercio, settore in cui è ad alto rischio contagio il 34,9% di lavoratori”.

147mila casi di contagio denunciati all’Inail nel 2020

Per avere una conferma indiretta di questa analisi, dobbiamo chiedere aiuto all’Inail, l’istituto nazionale per l’assicurazione dagli infortuni sul lavoro, che ha tra i suoi compiti anche quello di monitorare le malattie professionali. Secondo il 13° Report Covid della Consulenza statistico attuariale Inail, diffuso a febbraio, i contagi da Coronavirus denunciati all’istituto alla data del 31 gennaio sono 147.875, “pari a circa un quarto delle denunce complessive di infortunio sul lavoro pervenute dall’inizio del 2020”. I casi mortali causa Covid rilevati sempre al 31 gennaio sono invece 461.

Tra le attività produttive, il maggior numero delle segnalazioni di malattia professionale causa Covid è arrivato dal settore della sanità e dell’assistenza sociale (ospedali, case di cura e di riposo, istituti, cliniche e policlinici universitari, residenze per anziani e disabili), al primo posto con il 68,8% del totale delle denunce e il 25,9% dei decessi. A seguire l’amministrazione pubblica (in particolare organismi sanitari e Asl e le amministrazioni regionali, provinciali e comunali), con il 9,2% dei contagi e il 10,7% dei casi mortali. Gli altri settori più colpiti, spiega il Report, “sono i servizi di supporto alle imprese (vigilanza, pulizia e call center), il manifatturiero (tra cui gli addetti alla lavorazione di prodotti chimici e farmaceutici, stampa, industria alimentare), al secondo posto per numero di decessi con il 13,2% del totale, le attività dei servizi di alloggio e ristorazione, il trasporto e magazzinaggio e le altre attività di servizi (pompe funebri, lavanderia, riparazione di computer e di beni alla persona, parrucchieri, centri benessere…), le attività professionali, scientifiche e tecniche (consulenti del lavoro, della logistica aziendale, di direzione aziendale) e il commercio all’ingrosso e al dettaglio”.

Non i primi, ma nemmeno gli ultimi

Anche per l’Inail, dunque, gli addetti alle vendite e i cassieri, inseriti nel settore del commercio, rientrano de facto tra le categorie a rischio, senza dimenticare che la fotografia dell’Istituto è comunque parziale rispetto alla realtà. Il perché lo spiega il rapporto a più voci (Istat, Inail, Anpal, Inps, ministero del Lavoro) sul “Mercato del lavoro 2020” del 25 febbraio scorso: “Nei primi nove mesi del 2020 si registra una forte flessione delle malattie professionali denunciate (poco meno del 30%), conseguenza dell’epidemia da SARS-Cov-2che ha influito sia per la sospensione temporanea o la chiusura nel corso dell’anno di molte attività economiche, sia per la difficoltà oggettiva dei lavoratori di effettuare di persona la denuncia di malattia”.

Concludendo: gli addetti al commercio al dettaglio e nella grande distribuzione non rientrano nelle categorie professionali in assoluto più esposte al Coronavirus, primato che spetta ai medici, ai paramedici e ai professionisti della Sanità. Ma il loro “Indice di rischio” è comunque “alto” o “molto alto” per oltre il 34% della categoria. Percentuale non paragonabile a quella attribuita a chi lavora nel settore dell’istruzione, della sanità e dei servizi sociali (rischio alto o molto alto per il 75% degli addetti), o in quello dei servizi collettivi e personali (43%). Ma è pur sempre oltre il 34 per cento. I luoghi di lavoro – sintetizza lo studio dei consulenti del lavoro – “sono gli ambiti più a rischio: non solo perché frequentati da una quota importante di popolazione (…) ma anche per il tempo che vi si trascorre. Nello specifico, le caratteristiche dell’attività professionale svolta possono condizionare fortemente il livello di tale rischio, determinando una maggiore o minore esposizione da parte del lavoratore”.

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