SANITA’

INTELLIGENZA ARTIFICIALE e LETTURA DELLA RETINA

da https://www.ibsafoundation.org/it/blog/un-chat-gpt-per-leggere-l-interno-degli-occhi

Creato a Londra un sistema di intelligenza artificiale in grado di migliorare la diagnosi di numerose patologie (ipertensione, Parkinson e altre), tramite l’esame della retina.

I programmi di intelligenza artificiale basati sul cosiddetto self-supervised learning (o SSL, apprendimento auto-supervisionato), che tendono a riprodurre più fedelmente le modalità di apprendimento del cervello umano, potrebbero facilitare e migliorare in un prossimo futuro la diagnosi di numerose patologie effettuata attraverso le indagini sulla retina, quali quella di ipertensioneretinopatie diabetiche e malattia di Parkinson. La retina, lo ricordiamo, è il sottile strato di cellule nervose sensibili alla luce che ricopre la parte interna dell’occhio, e viene considerato un tessuto dell’organismo umano particolarmente adatto alle diagnosi, perché è direttamente collegato al cervello e ne condivide numerose somiglianze. Dunque, offre un quadro molto specifico di ciò che accade nel tessuto cerebrale, ed è anche l’unico tessuto che permette di studiare direttamente i capillari (i vasi più piccoli, nei quali sono rintracciabili gli indizi di molte patologie), senza dover superare altre barriere.

Le tecniche basate sulle immagini della retina sono un settore in rapida evoluzione, soprattutto da quando sono state supportate dall’intelligenza artificiale (AI) che, però, ancora oggi ha diverse limitazioni tecniche. Ad esempio, per istruire un programma classico a distinguere tra retina sana e retina malata, bisogna fornirgli milioni di immagini identificate chiaramente, ciascuna con una vera e propria “etichetta” relativa alla situazione specifica (retina sana/retina malata, appunto): un lavoro molto costoso, e lungo, che richiede un forte intervento umano iniziale. Il self-supervised learning è invece una tecnica che consente all’AI di apprendere senza la necessità di etichette o annotazioni esplicite.

Un sistema che alla stregua di ChatGPT impara da solo

Utilizzando questi sistemi i ricercatori del Moorfields Eye Hospital di Londra hanno messo a punto un sistema chiamato RETFound, che apprende molto più velocemente e “da solo”.

Come funziona? «Il sistema – scrive la rivista scientifica Nature, che ha pubblicato i risultati dello studio dei ricercatori britannici – si basa su un metodo simile a quello utilizzato per addestrare modelli linguistici di grandi dimensioni come ChatGPT». Nel caso di ChatGPT l’intelligenza artificiale sfrutta una miriade di esempi di testo generato dall’uomo per imparare a prevedere, in una frase, la parola successiva, basandosi sul contesto delle parole precedenti. «Allo stesso modo – spiega Nature – RETFound utilizza un grandissimo numero di foto della retina (1,6 milioni) per imparare a prevedere come dovrebbero apparire le parti mancanti delle immagini».

Risposte di alta precisione

I risultati sono stati molto positivi: se si usa una scala in cui zero rappresenta l’incapacità di distinguere, 0,5 la scoperta casuale dalla risposta corretta e 1 la risposta corretta in quanto frutto di un procedimento deduttivo, si scopre che, nel caso della retinopatia diabetica, RETFound totalizza un punteggio tra 0.882 e 0,943 a seconda della quantità e della tipologia di immagini fornite. Nel caso di patologie sistemiche come l’ipertensione, l’infarto o il Parkinson, l’efficienza è inferiore, a causa della complessità dei dati, ma comunque superiore a quella dei sistemi di AI tradizionali.
Come sottolinea anche un articolo di commento uscito sullo stesso numero di Nature, l’importanza di questo lavoro, tra i primissimi ad aver dimostrato le potenzialità dei sistemi SSL, è che costituisce un paradigma, un modello al quale ispirarsi per istruire altri sistemi SSL a effettuare diagnosi in modo non invasivo ed estremamente attendibile, partendo da immagini della retina ottenute con esami di routine.

DUE FARMACI CONTRO IL CANCRO RIGENERANO LA PRODUZIONE DI INSULINA.

da dottnet.it

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L’ eccezionale scoperta è stata di un team di ricerca australiano guidato da scienziati del Baker Heart and Diabetes Institute di Melbourne e potrebbe rivoluzionare le attuali strategie di cura del diabete

Due farmaci già approvati per combattere il cancro potrebbero rappresentare una svolta contro il diabete: queste piccole molecole, infatti, sono in grado di innescare la produzione insulina dalle cellule pancreatiche appena 48 ore dopo la somministrazione. Il loro “segreto” risiede nella capacità di trasformare le cellule progenitrici duttali del pancreas in surrogati delle cellule β, ovvero le cellule endocrine presenti nelle isole pancreatiche (isole di Langerhans) sensibili alla glicemia – i livelli di zucchero nel sangue – e deputate a produzione, stoccaggio e rilascio dell’insulina nell’organismo.

In parole semplici, le cellule duttali possono essere spinte a comportarsi come le cellule β, rispondendo al glucosio circolante e rilasciando insulina in base alle necessità. I due farmaci possono ripristinare la funzione perduta / compromessa della sintetizzazione di insulina a causa del diabete di tipo 1, che distrugge le cellule β attraverso un processo autoimmunitario (i linfociti T attaccano e uccidono le cellule delle isole pancreatiche). Ma non solo, questi farmaci possono rappresentare una soluzione preziosa anche per tutte quelle persone con diabete di tipo 2 dipendenti dalle iniezioni di insulina, una necessità che erode sensibilmente la qualità della vita.

A determinare che due farmaci anti cancro sono in grado di ripristinare la produzione di insulina a soli due giorni dalla somministrazione è stato un team di ricerca australiano guidato da scienziati del Baker Heart and Diabetes Institute di Melbourne, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi di altri istituti, fra i quali Unità di immunologia e diabete – Istituto di ricerca medica di St Vincent; STEM College dell’Università RMIT; e Università Monash. I ricercatori, coordinati dal professor Assam El-Osta, docente presso il Program Epigenetics in Human Health and Disease, si sono concentrati su uno specifico enzima chiamato EZH2; si tratta di una metiltransferasi intimamente connessa alla crescita e allo sviluppo delle cellule. Utilizzando due farmaci chiamati GSK126 e Tazemetostat, già approvati dalla Food and Drug Administration (FDA) statunitense contro tumori metastatici come il sarcoma epitelioide e il carcinoma mammario, i ricercatori hanno dimostrato che è possibile influenzare l’enzima EZH2 e modificare lo sviluppo delle cellule duttali progenitrici, le cellule rivestono i dotti pancreatici, responsabili del trasferimento del succo pancreatico al duodeno. Attraverso il trattamento queste cellule, note per la grande capacità di differenziazione, sviluppano funzioni simili a quelle delle cellule β, iniziando a rispondere ai livelli di glicemia e a produrre insulina. In pratica, vanno a sostituire le cellule β compromesse.

In test condotti su cellule in coltura, donate sia da pazienti con diabete di tipo 1 che da un soggetto sano, il professor El-Osta e colleghi hanno dimostrato che la stimolazione transitoria attraverso i due farmaci le cellule duttali progenitrici hanno iniziato a produrre insulina appena 48 ore dopo la somministrazione. Gli esperimenti sono stati condotti su cellule di un bambino di 7 anni e di un adulto di 61 anni con diabete di tipo 1, oltre che su quelle di un soggetto sano di 56 anni. GSK126 e Tazemetostat si sono sempre dimostrati efficaci nel favorire la produzione di insulina, indipendentemente dall’età. Come spiegato dagli autori dello studio, i farmaci attualmente disponibili per trattare il diabete aiutano a tenere sotto controllo i livelli di glucosio nel sangue, ma “non prevengono, arrestano o invertono la distruzione delle cellule che secernono insulina”, pertanto con questa nuova, potenziale terapia, si potrebbe raggiungere l’indipendenza dalle iniezioni di insulina.

Consideriamo questo approccio rigenerativo un importante passo avanti verso lo sviluppo clinico”, ha dichiarato il professor El-Osta in un comunicato stampa, ma ci vorrà ancora diverso tempo prima di arrivare alla disponibilità della terapia. I dettagli della ricerca “EZH2 inhibitors promote β-like cell regeneration in young and adult type 1 diabetes donors” sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Signal Transduction and Targeted Therapy del circuito Nature.

FOCUS SULLE NUOVE SFIDE DELLA MEDICINA DEL LAVORO IN UN SEMINARIO A MILANO

da amblav.it

Seminario
“Le prospettive del medico del lavoro: salute e lavoro oltre il giudizio di idoneità”

29 gennaio 2024 – ore 9.00-17.00
Milano – Clinica del Lavoro, Aula Magna – Via Francesco Sforza 35
Seminario gratuito, previa iscrizione, in presenza e online

I cambiamenti intervenuti nel mondo del lavoro (nuove tecnologie, frammentazione delle filiere produttive) e nella società (immigrazione, invecchiamento della popolazione, nuove forme contrattuali) impattano sulle condizioni di lavoro e di rischio dei lavoratori.
La medicina del lavoro si sta evolvendo occupandosi anche di basse esposizioni, rischi psicosociali, condizioni disergonomiche e organizzazione del lavoro, ma anche di agenti esterni che impattano sulle condizioni di rischio (es. climatici, violenze, malattie infettive); inoltre, anche alla luce della nuova definizione di salute adottata dall’OMS, la medicina del lavoro sta adottando sempre più una nuova visione del rapporto tra lavoro e salute che punta sull’adattamento del lavoro all’uomo in rapporto alle sue concrete condizioni di salute, cercando di contemperare diritto alla salute e diritto al lavoro per tutti, anche per le persone fragili.

Per ulteriori informazioni contattare gli organizzatori.

Fonte: CIIP

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SINERGIA TRA RSPP ED ESPERTO DI RADIOPROTEZIONE

da inail.it

Scopo del documento è fare capire ai radioprotezionisti perché – fra le proprie competenze – la conoscenza del d.lgs. 81/08 non possa essere trascurata, ed ai responsabili ed addetti del servizio di prevenzione e protezione perché la radioprotezione non debba essere semplicemente considerata quale materia delegata ad altro “specialista”

Il risultato atteso è quello di contribuire allo sviluppo di una cultura della sicurezza che risulti più circolare, inclusiva, sinergica, e nella quale siano evidenti i diversi ambiti interferenziali nei quali l’adozione di un “gioco di squadra” si ponga, non tanto come opportunità, quanto, piuttosto, come irrinunciabile necessità.

Prodotto: Fact sheet
Edizioni: Inail – 2023
Disponibilità: Consultabile solo in rete
Info: dcpianificazione-comunicazione@inail.it

ACUFENI: EFFETTO DI UNA PERDITA UDITIVA OCCULTA?

L’acufene, o tinnito, è un disturbo dell’udito caratterizzato dalla percezione ininterrotta di suoni come ronzii, trilli, scrosci. Questa condizione che riduce la qualità della vita e rappresenta un frequente motivo di richiesta di consulto medico, nelle forme più gravi può diventare una patologia debilitante, caratterizzata da deprivazione del sonno, isolamento sociale, ansia e depressione.

Una delle maggiori difficoltà per il trattamento di questo disturbo sta nell’individuazione delle cause. L’acufene infatti può essere originato da patologie dell’orecchio, problemi muscolari, cardiovascolari o neurologici.

Un nuovo studio condotto da ricercatori del Mass Eye and Ear Infirmary, ha mostrato che i soggetti che soffrono di acufene presentano un danno del nervo acustico che i convenzionali esami audiometrici non sono in grado di rilevare. Si tratta di una scoperta significativa in quanto, nonostante sia diffusa la convinzione che gli acufeni si manifestano in soggetti caratterizzati da una perdita uditiva, in realtà il danno all’udito non è rilevato in tutti coloro che presentano questo disturbo.

Il lavoro si inserisce in una serie di ricerche sulla sinaptopatia cocleare, comunemente indicata come “perdita di udito nascosta” ossia associata a un calo di efficienza a livello del nervo acustico, in presenza di una capacità uditiva nella norma. I risultati di questo studio, pubblicati sulla rivista Scientific Reports, potrebbero aprire la strada a una migliore comprensione delle origini di questo disturbo.

Lo studio dell’acufene in pazienti con capacità uditiva nella norma

I ricercatori hanno cercato di determinare se danni nascosti all’udito potessero essere associati con gli acufeni, in una coorte di 294 persone (154 donne) con un’età tra 18 e 72 anni, una capacità uditiva normale e senza precedenti di disturbi all’udito. Il campione è stato suddiviso in tre gruppi, in base alla frequenza del disturbo: il primo gruppo, considerato di controllo, era composto da persone che non avevano mai, o solo occasionalmente e per pochi minuti, sperimentato l’acufene; il secondo gruppo da individui che avevano avuto almeno un episodio di acufene di durata inferiore a sei mesi, e il terzo gruppo da chi aveva avuto il disturbo per almeno sei mesi continuativi.

Per tutti i soggetti esaminati gli esiti dell’esame audiometrico del puro tono (che rileva la capacità di percepire i diversi suoni trasmessi dall’aria) sono risultati nella norma; in un tipo di differente di test, gli elettrodi hanno misurato la risposta a stimolazioni sonore a livello dell’orecchio interno, del nervo acustico e del cervello. Questo test ha rilevato, nel gruppo di soggetti che presentavano acufeni, una risposta ridotta nei nervi acustici e un’iperattività a livello del tronco encefalico.

Il lavoro sembra confermare l’ipotesi che gli acufeni possano essere scatenati da un danno al nervo acustico anche in soggetti con udito nella norma, il cervello compenserebbe la parziale perdita di funzionalità del nervo aumentando la sua attività, provocando la percezione di un “suono fantasma”; per questo l’acufene viene anche paragonato alla sindrome dell’arto fantasma.

da medicoepaziente.it

RAPPORTO EEA SULL’ESPOSIZIONE A BISFENOLO

da” l Indipendente “

Un rapporto dell’Agenzia Europea dell’Ambiente (EEA), basato su dati provenienti da uno studio di monitoraggio biologico dell’UE, ha rivelato che fino al 100% delle persone provenienti da 11 paesi dell’Unione Europea potrebbe essere stata esposta al Bisfenolo A (BPA) – una sostanza chimica sintetica nociva impiegata nella produzione delle plastiche in policarbonato – oltre ai livelli considerati sicuri per la salute. I dati emersi mettono in luce il potenziale rischio per la salute pubblica nel Vecchio Continente, soprattutto per quel che riguarda i bambini e le donne in gravidanza. 

Il rapporto si è basato su dati provenienti dallo studio Human-Biomonitoring-Studie (HBM4EU), condotto da gennaio 2017 a giugno 2022. Il progetto europeo di biomonitoraggio umano ha misurato la presenza di bisfenolo A e altri due bisfenoli, utilizzati come sostituti del BPA (bisfenolo S e bisfenolo F), nelle urine di 2.756 adulti provenienti da 11 paesi (Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Francia, Finlandia, Germania, Islanda, Lussemburgo, Polonia, Portogallo e Svizzera, che rappresentano l’Europa settentrionale, orientale, meridionale e occidentale). Quel che è emerso ha sollevato la preoccupazione dei ricercatori poiché tra il 71% e il 100% dei partecipanti ha superato i limiti consentiti nell’UE di esposizione alla sostanza. “Va notato – scrive l’EEA per descrivere la vastità del problema – che il limite di quantificazione dei metodi analitici utilizzati per monitorare il BPA nelle urine umane è superiore al valore guida per il biomonitoraggio umano (HBM-GV). Ciò significa che i superamenti segnalati sono numeri minimi; Esiste la probabilità che in realtà tutti gli 11 Paesi abbiano tassi di superamento del 100% esposti al di sopra dei livelli di sicurezza”. Numeri troppo elevati e che costituiscono un problema per la salute pubblica nell’Unione Europea..

Il Bisfenolo A, infatti, è una sostanza chimica sintetica nota per danneggiare il sistema immunitario umano anche a dosi molto basse, con effetti indesiderati che implicano la riduzione della fertilità, l’interferenza endocrina e le reazioni allergiche cutanee. La contaminazione del corpo umano da BPA avviene principalmente attraverso il cibo – in quanto la sostanza è presente nella plastiche e nelle resine utilizzate per confezionare alimenti e bevande – ed è stata collegata ad un aumento del rischio di cancro al seno, sovrappeso, danni al sistema nervoso e comportamenti anomali nei bambini. 

I problemi derivanti dal BPA sono noti già da tempo e sebbene l’Unione Europea abbia introdotto misure restrittive sul suo utilizzo dal 2011, quanto emerso dallo studio dell’EEA dimostra come tali regolamentazioni siano state insufficienti. È per questo motivo che l’Agenzia Europea dell’Ambiente, insieme all’Agenzia Europea delle Sostanze Chimiche hanno raccomandato la necessità di un intervento immediato per mitigare l’esposizione dei cittadini europei a questo tipo di sostanze. 

A riguardo, la Commissione Europea dovrebbe presentare, con l’inizio del nuovo anno, il regolamento per vietare l’uso del bisfenolo A nei contenitori alimentari di plastica e nelle lattine. Un provvedimento che dovrebbe includere regole anche per evitare che l’uso del Bisfenolo A venga sostituito con altre sostanze simili, già rivelatesi dannose, e che dovrebbe prevedere deroghe e periodi di transizione per i produttori e gli utilizzatori. Una decisione che è arrivata a seguito del parere dell’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA), che ha ridotto di 20mila volte la dose tollerabile della sostanza chimica (ancora utilizzata in moltissimi tipi di contenitori alimentari). 

[di Iris Paganessi]

UNO STUDIO SULLE AGGRESSIONI NEL COMPARTO SANITARIO.

da Inail.it

ROMA – È stato pubblicato di recente l’articolo scientifico dal titolo “Systematic Violence Monitoring to Reduce Underreporting and to Better Inform Workplace Violence Prevention Among Health Care Workers: Before-and-After Prospective Study” dalla rivista peer reviewed Journal of Medical Internet Research (JMIR) Public Health and Surveillance. Lo studio è stato realizzato nell’ambito del progetto “Valutazione dei determinanti principali delle violenze in due Aziende socio sanitarie territoriali lombarde, per una efficace prevenzione”, finanziato dall’Inail attraverso il bando Ricerche in collaborazione (Bric) 2019. Il destinatario istituzionale, il Dipartimento di medicina e chirurgia – Centro Epimed dell’Università degli studi dell’Insubria, ha avuto come obiettivo quello di sviluppare e implementare un sistema di monitoraggio e gestione del fenomeno della violenza e delle aggressioni agite sugli operatori sanitari, nelle Aziende sociosanitarie lombarde (Asst) di Lariana e Sette Laghi Varese, entrambe unità operative del progetto.

Lo studio prospettico ha coinvolto gli operatori sanitari delle ASST di progetto. Attraverso la collaborazione tecnico-scientifica con il laboratorio Rischi psicosociali e tutela dei lavoratori vulnerabili del Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro e ambientale (Dimeila) dell’Inail, è stato implementato uno studio prospettico, della durata di 14 mesi sui lavoratori del settore sanitario delle ASST di progetto, che ha consentito l’analisi e l’approfondimento dei dati provenienti dalle segnalazioni degli eventi di violenza e aggressione occorsi, e degli impatti e dei potenziali fattori di rischio, anche tramite il coinvolgimento di esperti per l’individuazione di proposte di gestione. 

Emergenza-urgenza e salute mentale le aree sanitarie più a rischio. Dai risultati dello studio emerge che i lavoratori maggiormente coinvolti negli eventi di violenza e aggressione hanno un’età media inferiore ai 30 anni, rivestono il ruolo di infermiere e appartengono al genere maschile. Per quanto riguarda invece le aree sanitarie più a rischio ritroviamo, in linea con la letteratura scientifica di riferimento, quella di emergenza-urgenza e di salute mentale. Le aggressioni agite sul personale femminile sarebbero prevalentemente verbali e motivate da fattori socioculturali dell’aggressore. Sono state rilevate ripercussioni psicologiche maggiori nelle donne rispetto ai colleghi uomini, quest’ultimi più soggetti invece ad aggressioni fisiche. Tra i fattori facilitanti principali si riscontrano l’elevato turn-over e la riduzione di personale, oltre a fattori legati all’ambiente fisico.

Necessario un sistema di rilevazione sistematica. Lo studio ha sottolineato anche la necessità di definire e implementare un sistema di rilevazione sistematica del fenomeno della violenza e delle aggressioni nel settore sanitario. Ciò contribuirebbe a ridurre il divario esistente tra la reale entità del fenomeno e le effettive segnalazioni provenienti dai lavoratori contribuendo a far emergere il fenomeno. Ciò consentirebbe inoltre l’identificazione delle aree sanitarie a maggiore rischio, delle cause prevalenti e dei principali fattori di rischio per contribuire all’individuazione e implementazione di interventi preventivi efficaci.

MAGGIORE FLESSIBILITÀ AL LAVORO MINORI RISCHI PER IL CUORE.

da doctor33.it

La flessibilità sul lavoro diminuisce i problemi cardiovascolari, almeno nelle persone più a rischio

Una maggiore flessibilità sul posto di lavoro può ridurre il rischio di malattie cardiovascolari per alcuni dipendenti, secondo uno studio pubblicato sull’American Journal of Public Health.

«Il nostro lavoro illustra come le condizioni di lavoro siano importanti determinanti sociali della salute. Mitigando le condizioni stressanti sul posto di lavoro e il conflitto lavoro-famiglia si è infatti osservata una riduzione del rischio di malattie cardiovascolari tra i dipendenti più vulnerabili, senza ripercussioni sulla produttività» spiega Lisa Berkman, della Harvard Chan School of Public Health, prima autrice dello studio. I ricercatori hanno progettato un intervento sul posto di lavoro inteso ad aumentare l’equilibrio tra lavoro e vita privata, e hanno assegnato in modo casuale l’intervento a unità o siti lavorativi all’interno di due aziende: una società IT, con 555 dipendenti partecipanti, e una società di assistenza a lungo termine, con 973 dipendenti. I dipendenti IT erano costituiti da tecnici, uomini e donne, con salari alti e medi; i dipendenti della società di assistenza a lungo termine erano costituiti principalmente da badanti di sesso femminile a basso salario.

Per questi 1.528 individui assegnati a gruppi sperimentali e di controllo sono stati registrati la pressione sanguigna sistolica, l’indice di massa corporea, l’emoglobina glicata, l’abitudine al fumo, il colesterolo HDL e il colesterolo totale all’inizio dello studio e di nuovo 12 mesi dopo. Gli esperti hanno utilizzato queste informazioni sanitarie per calcolare un punteggio di rischio cardiometabolico (CRS) per ciascun dipendente, che aumentando indicava un rischio stimato più elevato di sviluppare malattie cardiovascolari entro il decennio. Lo studio ha rilevato che l’intervento sul posto di lavoro non ha avuto effetti complessivi significativi sul CRS dei dipendenti. Tuttavia, i ricercatori hanno osservato riduzioni del CRS specificamente tra i partecipanti con un CRS di base più elevato, e soprattutto tra quelli di età superiore ai 45 anni. «Questi risultati potrebbero essere particolarmente importanti per i lavoratori a basso e medio salario che tradizionalmente hanno meno controllo sui propri orari e sulle richieste di lavoro, e sono soggetti a maggiori disuguaglianze sanitarie» concludono gli autori.

American Journal of Public Health 2023. Doi: 10.2105/AJPH.2023.307413

http://doi.org/10.2105/AJPH.2023.307413

SINDROME DELL’OCCHIO SECCO , VIDEOTERMINALI E TERAPIA: UNO STUDIO

Impatto dell’Uso dei Dispositivi Digitali sulla Salute Oculare e l’Efficacia di una Soluzione Oftalmica Innovativa.

Negli ultimi anni, l’uso sempre più diffuso dei dispositivi digitali, come computer, tablet e smartphone, ha portato a un aumento significativo dei casi di disagio oculare correlato a questi dispositivi. Molti di questi casi manifestano sintomi gravi, il che solleva preoccupazioni sulla salute visiva della popolazione generale. La salute degli occhi è fondamentale per garantire un’ottimale integrità ottica, e i sintomi visivi e oculari associati all’uso di videoterminali (VDU) sono spesso legati a alterazioni nel film lacrimale. In questi pazienti, l’ammiccamento, il tempo di rottura del film lacrimale e la quantità del film stesso risultano ridotti a causa di una maggiore evaporazione, dovuta a cambiamenti nel film lipidico.

Un recente studio ha esaminato l’associazione tra l’esposizione prolungata ai videoterminali e le variazioni nel film lacrimale su un campione di 1.025 utilizzatori. I risultati hanno evidenziato che le caratteristiche del film lacrimale sono significativamente correlate al tempo trascorso davanti ai dispositivi digitali, sia in termini di anni di esposizione che di ore giornaliere. In particolare, la secrezione lacrimale è risultata significativamente ridotta nei pazienti che avevano trascorso 8-12 anni al videoterminali, con una media di 6-8 ore al giorno, rispetto a coloro che avevano un utilizzo meno intenso.

Un altro aspetto da considerare è l’esposizione alla luce blu emessa dai dispositivi digitali, che è stata associata a diversi disturbi oculari, tra cui danni alla retina e secchezza oculare. Studi sperimentali hanno dimostrato che la luce blu può aumentare i livelli di citochine infiammatorie sulla superficie oculare, contribuendo così a condizioni come l’occhio secco. In media, in Italia, le persone trascorrono quattro ore al giorno davanti al computer e due ore e otto minuti su dispositivi mobili, il che rappresenta il valore più elevato in Europa.

Uno studio del 2013 ha riportato che l’affaticamento oculare, il bruciore e il rossore sono le lamentele più comuni tra coloro che lavorano al computer per più di sei ore al giorno. Per quanto riguarda i bambini, uno studio ha evidenziato un forte legame tra l’uso degli smartphone e la sindrome pediatrica dell’occhio secco.

Obiettivo dello Studio

Lo scopo di questo studio è valutare l’incidenza dei segni e dei sintomi correlati all’occhio secco in una popolazione di lavoratori che utilizzano regolarmente i videoterminali. Inoltre, lo studio mira a confrontare l’efficacia di una terapia basata su una soluzione oftalmica contenente acido ialuronico cross-linkato, liposomi e crocina con quella di un acido ialuronico lineare al 0,2%.

La crocina è un carotenoide idrosolubile che può interagire con l’acido ialuronico cross-linkato per aumentare la viscosità e l’adesione sulla superficie oculare. Inoltre, agisce come schermo contro la luce blu, riducendo i suoi effetti dannosi sugli occhi.

Metodi dello Studio

Lo studio è stato condotto su 50 pazienti, di cui 25 trattati con una soluzione oftalmica a base di acido ialuronico lineare e 25 con una soluzione contenente acido ialuronico cross-linkato, liposomi e crocina (LUMIXA collirio). Sono stati valutati parametri primari e secondari, tra cui il punteggio dell’Indice dei Sintomi dell’Occhio Secco (OSDI), il tempo di rottura del film lacrimale (TBUT), il test di Schirmer e l’osmolarità del film lacrimale.

Risultati dello Studio

I risultati hanno mostrato che il gruppo trattato con LUMIXA collirio ha ottenuto miglioramenti significativamente superiori rispetto al gruppo di controllo con acido ialuronico lineare. Sia i parametri oggettivi del film lacrimale che i sintomi soggettivi sono notevolmente migliorati nel gruppo LUMIXA.

In particolare, l’osmolarità del film lacrimale, il TBUT e il punteggio OSDI sono migliorati in modo significativo nel gruppo LUMIXA rispetto al gruppo di controllo.

Conclusioni

L’uso prolungato dei dispositivi digitali può avere un impatto significativo sulla salute oculare, causando secchezza oculare e altri sintomi correlati. Tuttavia, una terapia specifica con una soluzione oftalmica che comprende acido ialuronico cross-linkato, liposomi e crocina si è dimostrata efficace nel ridurre il disagio causato dall’occhio secco associato all’uso dei videoterminali. La crocina, in particolare, gioca un ruolo importante nel proteggere gli occhi dalla luce blu dannosa e nel migliorare la stabilità del film lacrimale.

Questo studio fornisce preziose informazioni sulla gestione dell’occhio secco correlato all’uso dei dispositivi digitali e sottolinea l’importanza di soluzioni oftalmiche innovative per migliorare la salute degli occhi in un’epoca in cui l’uso di dispositivi digitali è così diffuso.

fonte :https://www.medicitalia.it/blog/oculistica/7467-finalmente-un-collirio-per-la-computer-vision-syndrome.html

REGIONE EMILIA: LE BUONE PRATICHE NELL’ASSISTENZA SANITARIA DEGLI ANZIANI/ MALATI

da Regione Emilia


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Buone pratiche per la promozione del benessere organizzativo e prevenzione del rischio psicosociale nelle strutture residenziali di assistenza per anziani, anche per contrastare possibili violenze e aggressioni (PP08)

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Buone pratiche per la valutazione del rischio e l’adozione di soluzioni per la riduzione del sovraccarico biomeccanico in attività di assistenza domiciliare a persone non autosufficienti (PP08)

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