RISCHIO BIOLOGICO

IMPATTO STIMATO DEL LONG COVID

Da dottnet.it

Il tasso stimato di sintomi post-infezione è risultato pari al 49% in Asia, 44% in Europa e 30% in Nord America

Basandosi sulla revisione di 40 precedenti studi condotti in 17 Paesi, i ricercatori dell’Università del Michigan stimano che oltre il 40% dei sopravvissuti al Covid in tutto il mondo abbia avuto o abbia effetti persistenti dopo la malattia. La prevalenza aumenta al 57% tra i sopravvissuti che sono stati ricoverati.  Gli studi revisionati hanno esaminato le esperienze dei pazienti con il cosiddetto long Covid, definito così in base alla presenza di sintomi nuovi o persistenti dopo quattro o più settimane dall’infezione. Il tasso stimato di sintomi post-infezione è risultato pari al 49% in Asia, 44% in Europa e 30% in Nord America. Tra i sintomi più comuni, l’astenia è stata segnalata dal 23% delle persone, mentre dispnea, dolore articolare e problemi di memoria interessano ognuno il 13% dei soggetti. “Sulla base della stima dell’OMS di 237 milioni di infezioni da COVID-19 in tutto il mondo, possiamo dire che circa 100 milioni di individui attualmente presentano o hanno presentato conseguenze a lungo termine del COVID-19 sulla salute”, concludo gli autori dello studio.

BIOTECNOLOGIE E SICUREZZA

Da Inail.it

Con l’attuazione del d.lgs.206/2001, l’Autorità Competente italiana ha il compito di valutare e autorizzare gli impianti dove vengono effettuate le attività (di ricerca, di sviluppo e produzione) ed il tipo di manipolazione genetica, nonché i rischi prevedibili, immediati o futuri che i MOGM utilizzati possono presentare per la salute umana, animale e per l’ecosistema in generale. Saranno qui anticipati gli aspetti relativi alla normativa nazionale biotech e il progetto dal titolo “Prevenzione e la tutela della salute e dell’ambiente in caso di impiego di tecniche biotecnologiche avanzate”.



Prodotto: Fact sheet
Edizioni: Inail – 2021
Disponibilità: Consultabile solo in rete
Info: dcpianificazione-comunicazione@inail.it

NUOVO STUDIO SULL’EFFICACIA DELLE MASCHERINE

Da dottnet.it

Le mascherine rappresentano uno dei più efficaci mezzi preventivi di salute pubblica contro il Covid: riducono del 53% l’incidenza della malattia, quindi i contagi. È quanto emerso da una vasta meta-analisi pubblicata sul British Medical Journal e condotta da Stella Talic della Monash University in Australia, rianalizzando i dati di 72 studi pubblicati sull’efficacia dei metodi non farmacologici contro il Covid (come ad esempio il distanziamento). 

Importante è risultata anche l’igiene delle mani, che a sua volta riduce le infezioni del 53%, anche se non vi sono dati sufficienti da un punto di vista statistico; mentre il distanziamento fisico ha un’efficacia più limitata: riduce l’incidenza del Covid del 25%.   “E’ plausibile che per aumentare il controllo della pandemia è necessaria non solo un’elevata copertura vaccinale e la sua efficacia, ma anche l’aderenza continua a misure di salute pubblica efficaci e sostenibili”, ha concluso Talic.

IMMUNITA’ VACCINALE COVID A DISTANZA DI 6 MESI

Lo studio di Science che compara la protezione Pfizer, Moderna e Johnson&Johnson negli Usa. Astra Zeneca non è stato esaminato perché non approvato dalla Fda

Uno studio pubblicato su Science fa chiarezza sulla durata dell’immunità che garantiscono i vaccini. Rilevando che ci sono differenze tra la variante Alpha (la prima) e la Delta che ormai è la più diffusa. La ricerca – condotta tra il febbraio e ottobre 2021  – pubblicata sulla nota rivista scientifica ha avuto una platea molto ampia ovvero quella dei veterani Usa composta da 780.225 veterani (di cui 498.148 completamente vaccinati). I dati ottenuti hanno confermato che con l’arrivo della variante Delta (la mutazione prima chiamata indiana che ha già sviluppato una variante plus) il limite della protezione offerti dai vaccini è al massimo è a sei mesi, prima che lo scudo s’indebolisca. Ma lo studio del Public Health Institute di Oakland, dal Veterans Affairs Medical Center di San Francisco e dall’University of Texas Health Science Center fa emergere anche che il monodose Johnson&Johnson sviluppato dalla divisione vaccini Janssen perde maggiore efficacia. Per cui anche in Italia l’Aifa ha dato il via libera al richiamo con Pfizer o Moderna per chi è stato immunizzato con il vaccino a vettore virale. La ricerca non riguarda il vaccino Astrazeneca su cui negli Stati Uniti si era aperta una complessa polemica sui dati.

L’analisi ha, dunque, fotografato una situazione di sostanziale paritaria efficacia tra i tre composti per prevenire l’infezione di Sars Cov 2: la protezione da contagio era 86,4% per i vaccinati con Janssen (Johnson&Johnson); 86,9% per i vaccinati con Pfizer-Biontech e 89,2% per i vaccinati con Moderna. Quando Delta ha soppiantato Alpha (la variante inglese), lo scenario è mutato. A distanza di sei mesi l’efficacia della protezione era scesa al: 13,1% per i vaccinati con il monodose a vettore virale (J&J); al 43,3% per gli immunizzati con Pfizer-BioNTech; 58% per i vaccinati con l’altro composto sviluppato con la tecnica dell’Rna messaggero (moderna). In Germania, uno degli Stati più colpiti in Europa dalla nuova ondata di Covid, secondo quanto riporta il Coirriere della Sera, il Robert Koch Institute ha segnalato che circa il 26% dei pazienti è completamente vaccinato, con un numero che sale al 34% per i ricoverati over 60. L’Istituto ha anche reso noto che le infezioni tra i vaccinati sono percentualmente più comuni tra chi è vaccinato con il monodose. Nello stesso studio di Science i ricercatori hanno rilevato che la vaccinazione ha fornito una buona protezione contro la morte nelle persone infette e questo beneficio è stato osservato per i vaccini Moderna, Pfizer-BioNTech e Janssen durante l’ondata di Delta, sebbene il beneficio fosse maggiore per Moderna e Pfizer-BioNTech rispetto ai vaccini Janssen. I risultati supportano la conclusione che i vaccini COVID-19 rimangono lo strumento più importante per prevenire l’infezione e la morte. I vaccini dovrebbero essere accompagnati da misure aggiuntive sia per le persone vaccinate che per quelle non vaccinate, tra cui mascheratura, lavaggio delle mani e distanza fisica. È essenziale implementare interventi di sanità pubblica, come test strategici per il controllo delle epidemie, passaporti vaccinali, mandati di vaccinazione basati sull’occupazione, campagne di vaccinazione per bambini e adulti idonei e messaggi coerenti dalla leadership della sanità pubblica di fronte all’aumento del rischio di infezione dovuta al Delta e ad altre varianti emergenti.

Picture shows illustration for the coronavirus vaccine in Zagreb, Croatia, August 14, 2020. A Covid-19 vaccine being developed by Pfizer and Germany’s BioNTech has been found to be more than 90 per cent effective Photo: Zeljko Lukunic/PIXSELL (Zagreb – 2020-08-14, Zeljko Lukunic/PIXSELL / IPA) p.s. la foto e’ utilizzabile nel rispetto del contesto in cui e’ stata scattata, e senza intento diffamatorio del decoro delle persone rappresentate

NIENTE CONTROLLI SE IL GREEN PASS VIENE DATO AL DATORE DI LAVORO

Con 199 voti favorevoli38 contrari e nessun astenuto, il Senato ha approvato il nuovo decreto legge contenente nuove semplificazioni sull’obbligo di Green pass sui luoghi di lavoro. Tra gli emendamenti approvati in commissione Affari costituzionali del Senato c’è la semplificazione delle verifiche della certificazione verde anche al settore privato. Sostanzialmente, i dipendenti delle aziende private potranno «richiedere di consegnare al proprio datore di lavoro la copia della propria certificazione verde Covid-19» in modo tale che il datore, o chi ne ha la delega, non debba effettuare controlli sui dipendenti fino a quando il Green pass è valido.

Con un altro emendamento, relativo alle aziende con meno di 15 dipendenti, viene prolungato il periodo in cui i datori di lavoro possono sospendere o sostituire un lavoratore privo di certificazione verde. Attualmente un dipendente privo di Green pass viene segnalato come assente ingiustificato e dopo cinque giorni d’assenza può rischiare di esser sospeso e rimanere senza paga per un massimo di dieci giorni, rinnovabili una volta sino al 31 dicembre 2021. Con l’emendamento viene specificato che i dieci giorni sono lavorativi, mentre viene meno la clausola del possibile rinnovo univoco.

Insomma, il lavoratore che ha accumulato cinque giorni di assenze ingiustificate potrà essere sospeso anche più di due volte, sempre però entro il 31 dicembre 2021. Salvo proroghe. Novità anche per i lavori in somministrazione. Attualmente il controllo del Green pass è in capo sia all’agenzia di somministrazione sia a carico dell’azienda dove il lavoratore effettua la propria prestazione. Con questo emendamento il duplice controllo verrebbe meno, poiché il controllo spetterebbe solo all’azienda presso cui il lavoratore svolge la propria prestazione lavorativa.

Un altro emendamento riguarda invece la scadenza del Green pass durante l’orario lavorativo. Qualora la certificazione verde dovesse scadere nel mezzo dell’orario di lavoro, il dipendente può continuare a lavorare sino alla fine del proprio turno e non viene applicata a suo carico alcuna sanzione amministrativa. Rischia invece una multa dai 600 ai 1500 euro il lavoratore che, in caso di controllo, viene trovato in possesso di un Green pass scaduto dopo un’ora dall’inizio della prestazione lavorativa. Nel dl sono inoltre state introdotte misure urgenti in materia di test antigenici rapidi, nonché la proroga fino al 31 dicembre 2021 dei prezzi calmierati dei test rapidi per rilevare l’eventuale contagio. Da open.online

ANTIVIRALI E MONOCLONALI PER COMBATTERE IL COVID

La lotta al virus Sars-CoV-2 è a una svolta. Perché ai vaccini, che hanno un ruolo insostituibile nella prevenzione, e agli anticorpi monoclonali – che però scontano un impiego marginale a causa dell’utilizzo solo ospedaliero e per endovena –, si stanno per affiancare le cosiddette pillole anti-Covid, cioè potenti farmaci antivirali. Che presentano indubbi vantaggi: intanto sono specifici, cioè molecole create esclusivamente contro il Sars-CoV-2, a differenza di quanto si è provato a fare sinora ricorrendo ad un ventaglio di medicinali, in passato impiegati per altre patologie, e non direttamente rivolti cioè contro questo parassita; i nuovi farmaci, poi, combattono anche tutte le varianti circolanti, così come altri coronavirus noti; infine, possono essere assunti per bocca, come una normale pillola antinfluenzale.

Quanto sono efficaci?

Nella corsa al farmaco antivirale – che ha previsto investimenti ingenti, visto che spesso è molto più difficile e lungo l’iter per realizzare un simile prodotto rispetto a un vaccino –, sono ormai al traguardo due colossi farmaceutici americani: Merck (in Europa presente con il marchio Msd), e Pfizer, l’azienda detentrice del primato mondiale nella produzione di vaccini anti-Covid, incensata, venerdì, da una sorta di preventivo “imprimatur” al nuovo prodotto nientemeno che dal presidente Usa Joe Biden, che aveva strizzato l’occhio all’azienda di New York anche sulla questione della terza dose. Ma se il farmaco di Merck, che si chiama Molnupiravir, realizzato con Ridgeback Biotherapeutics, sarebbe capace di ridurre, stando alle sperimentazioni presentate agli enti regolatori, di circa il 50% i rischi di ospedalizzazione e morte, quello approntato da Pfizer, il “Paxlovid”, raggiungerebbe un’efficacia dell’89%.

A chi si rivolgono?

Questi nuovi farmaci si rivelano efficaci se assunti nei primi giorni di insorgenza dell’infezione, e si rivolgono a pazienti considerati vulnerabili ma non ospedalizzati, con patologia da lieve a moderata confermata da test di laboratorio.

Quando li avremo a disposizione?

Merck ha presentato l’autorizzazione all’immissione in commercio all’ente regolatore degli Stati Uniti (l’Fda), che potrebbe approvarlo entro fine anno, e ha già ottenuto il semaforo verde da quello della Gran Bretagna. L’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha deciso di affrettare i tempi per rendere disponibile Molnupiravir nel nostro Paese acquisendo una quantità adeguata, come ha annunciato il presidente del Comitato tecnico scientifico, Franco Locatelli. I tempi per l’ok di Ema al farmaco, infatti, «non sono prevedibili – aveva sottolineato nei giorni scorsi la stessa Agenzia – ma siamo pronti a dare assistenza agli Stati che vogliano dare il via libera all’uso di emergenza prima dell’autorizzazione Ue». Insomma, in questo caso l’ok italiano potrebbe precedere quello dell’Agenzia dell’Unione con sede ad Amsterdam. Per quanto riguarda Paxlovid, invece, Pfizer prevede di inviare «il prima possibile» i dati all’Fda per «l’autorizzazione all’uso di emergenza».

Merck ha già firmato 9 accordi per la vendita di più di 3 milioni di pillole. La Gran Bretagna ha prenotato 480mila trattamenti. Ad aver confermato interesse per il Molnupiravir sono anche l’Australia, per 300 mila dosi, la Francia (50mila), l’Indonesia e la Malesia (150mila), le Filippine (300mila), Singapore e Sud Corea (20mila) e la Thailandia che vuole 200mila confezioni. Gli Stati Uniti puntano invece all’acquisto di 1,7 milioni di dosi della cura Pfizer, al prezzo di 700 dollari l’unità, mentre la Gran Bretagna ha approvato un ordine per 250mila dosi.

Ma le novità dell’arsenale terapeutico anti-Covid non finisce qui, visto che, a breve, come ha annunciato il presidente dell’Aifa, Giorgio Palù, sono attesi anche monoclonali iniettabili a livello intramuscolare che faciliteranno ulteriormente le cure domiciliari.

Da Avvenire.it

UN ANTIDEPRESSIVO CONTRO IL COVID

La fluvoxamina, un farmaco impiegato contro depressione e disturbi d’ansia, ha dato risultati incoraggianti in un test clinico per trattare la COVID-19, riducendo sensibilmente i rischi di sviluppare sintomi gravi che possono rivelarsi letali. Il principio attivo non è più coperto da brevetto ed è piuttosto economico, quindi il suo impiego potrebbe rivelarsi ideale soprattutto nei paesi più poveri. Lo studio ha però interessato un numero limitato di pazienti e saranno quindi necessari ulteriori approfondimenti, per quanto il primo test clinico sia stato definito promettente da vari osservatori.

Angela Reiersen, una psichiatra statunitense parte del gruppo di ricerca che ha partecipato alla sperimentazione, aveva iniziato a studiare la fluvoxamina ben prima della pandemia e nel 2019 si era imbattuta in uno studio sul suo impiego su cavie di laboratorio per trattare la sepsi, un’infiammazione molto forte e diffusa innescata da vari tipi di infezioni e causata da una risposta fuori misura del sistema immunitario. Quando erano emersi i primi studi sugli effetti della COVID-19, che in alcuni casi spinge l’organismo ad avere una risposta di questo tipo, Reiersen pensò di riprendere quello studio per approfondirlo.

Insieme ad altri colleghi fece domanda per partecipare a TOGETHER Trial, un ambizioso progetto organizzato durante la pandemia per sperimentare farmaci già esistenti – e sviluppati per altre malattie – contro la COVID-19.

Ottenuti i permessi e avviate le collaborazioni con altre istituzioni, lo studio era stato poi svolto in Brasile utilizzando un campione di circa 1.500 partecipanti, selezionato perché ad alto rischio di sviluppare forme gravi della malattia. A circa metà dei volontari era stata somministrata la fluvoxamina, mentre ai restanti una sostanza che non faceva nulla (placebo).

Stando ai risultati pubblicati a fine ottobre sulla rivista medica Lancet, nel gruppo che aveva assunto il farmaco nelle prime fasi della malattia le morti per COVID-19 sono diminuite del 90 per cento rispetto al gruppo di controllo con il placebo. È stata inoltre rilevata una riduzione del 65 per cento dei casi che hanno reso necessarie cure ospedaliere e più invasive, rispetto a chi non aveva assunto il farmaco vero e proprio.

Nel complesso, dice lo studio, la fluvoxamina si è rivelata utile nel ridurre la risposta immunitaria quando questa rischia di finire fuori controllo, portando più danni che benefici all’organismo. Il farmaco ha anche ridotto il rischio di subire danni ai tessuti, sempre indotti dalla eccessiva risposta immunitaria.

A oggi pochi farmaci sviluppati per altre malattie si sono rivelati effettivamente utili nel trattare le forme iniziali di COVID-19, riducendo i rischi di sintomi gravi tra le persone che potrebbero risentirne di più come gli anziani. In alcuni paesi si impiegano terapie a base di anticorpi monoclonali, ma queste sono costose, richiedono una somministrazione in ospedale e non sempre danno gli effetti sperati. Le compresse di fluvoxamina costano pochi decimi di euro e per un ciclo completo di dieci giorni, in caso di COVID-19 lieve, il costo complessivo potrebbe aggirarsi intorno ai 3-4 euro. Non essendo più coperto da brevetto, il farmaco può essere inoltre prodotto a costi bassi e venduto come generico.

La fluvoxamina potrebbe essere somministrata insieme ad altri farmaci che agiscono invece sul coronavirus, impedendogli di replicarsi facilmente nelle cellule portando avanti l’infezione virale. L’azienda farmaceutica Merck, al di fuori di Stati Uniti e Canada conosciuta come MSD (Merck Sharp Dome), ha da poco annunciato risultati molto promettenti del molnupiravir, un farmaco antivirale sviluppato specificamente che riduce la replicazione del virus, per il quale sono in corso le ultime verifiche per autorizzarne l’impiego sui malati a rischio.

Nel frattempo la fluvoxamina dovrà comunque essere sottoposta ad altri test clinici e ricerche. I risultati dello studio svolto in Brasile sono promettenti, ma contengono alcuni elementi da chiarire legati a come sono trattati i casi di COVID-19 nel paese, molto spesso con trattamenti ambulatoriali e non ricoveri in ospedale. Il gruppo di ricerca ha quindi avuto a disposizione sistemi per valutare la gravità dei pazienti diversi da quelli più diffusi negli Stati Uniti e in Europa, basati per lo più sulla permanenza ospedaliera. Da il post)

TERZA DOSE PER I SANITARI IN LOMBARDIA

A partire dalle ore 14 di lunedì 18 ottobre, gli operatori sanitari e socio sanitari possono prenotare la terza dose “booster” di vaccino anti Covid-19, sul portale ufficiale (https://prenotazionevaccinicovid.regione.lombardia.it/) e tramite call center 800 894 545. Lo rende noto la direzione generale Welfare di Regione Lombardia. La vaccinazione della terza dose a tutti gli operatori sanitari avviene senza differenziazione di età.

Regione Lombardia – si legge in una nota della direzione Welfare – vista la priorità nella salvaguardia dei pazienti in ospedale e nelle strutture sanitarie, in analogia alle Rsa, consente la vaccinazione della terza dose a tutti gli operatori sanitari senza differenziazione di età. L’indicazione riguarda tutti i cittadini che esercitano le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario che svolgono le loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private. Come pure nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali”.

La terza dose può essere somministrata se sono passati almeno sei mesi dal completamento del ciclo vaccinale primario. In sede vaccinale si deve presentare l’autocertificazione con cui si dichiara di appartenere a questa categoria. ( Da milanotoday)

EFFICACIA E PROTEZIONE DELLA TERZA DOSE

da doctor33

I vaccini contro il Sars-CoV-2 sono sicuri ed efficaci e la somministrazione di una terza dose può conferire un’efficacia protettiva maggiore. È quanto emerge dallo studio condotto su 3.720 operatori sanitari della Fondazione Irccs Policlinico San Matteo di Pavia per indagare, in modo prospettico, il rischio di infezione da Sars-CoV-2 in soggetti vaccinati. Il lavoro, uno dei più ampi condotti fino ad ora, è stato pubblicato sulla rivista “Nature Communications”.

I risultati hanno dimostrato l’efficacia dei vaccini nel proteggere dall’infezione da Sars-CoV-2 che si attesta all’83% nella popolazione complessiva degli operatori sanitari e al 93% negli operatori sanitari che avevano in precedenza contratto l’infezione. Dei 3.720 operatori sanitari vaccinati solamente 33 hanno contratto l’infezione da Sars-CoV-2, vale a dire meno dell’1%; 17 erano sintomatici e presentavano sintomi lievi come rinite, tosse e artralgie.

Nessuno ha avuto la polmonite o ha necessitato di ricovero ospedaliero. Altro dato interessante riguarda la trasmissibilità del virus: dei 33 operatori del San Matteo che si sono infettati, solo 2 di loro hanno trasmesso l’infezione ai familiari. I dati sono stati comparati con un gruppo di 346 operatori sanitari che nel periodo tra gennaio e aprile 2021 non avevano ancora ricevuto la vaccinazione. Su questo campione i risultati cambiano considerevolmente e testimoniano l’efficacia della vaccinazione anti Covid-19. I ricercatori e clinici del San Matteo hanno, infatti, registrato un tasso maggiore di infezione (il 5,78%) e anche un maggior numero di soggetti sintomatici. L’85% ha avuto sintomi quali febbre, anosmia (perdita dell’olfatto), ageusia (perdita del gusto) e il 10% ha necessitato di ricovero ospedaliero in seguito al peggioramento delle condizioni cliniche.
“I numeri non hanno bisogno di ulteriori commenti – sottolineano i ricercatori del San Matteo di Pavia -. I risultati sono più che confortanti: l’impatto della vaccinazione ha sostanzialmente cancellato la possibilità di infettarsi in grandi numeri. Qualche caso di reinfezione c’è stato, ma è al di sotto dell’1% degli operatori analizzati. Percentuale che si dimezza per coloro che avevano avuto una pregressa infezione e hanno completato il ciclo vaccinale. Questo ci dice che più stimolazioni conferiscono una maggiore immunità”, concludono i ricercatori.

Al momento il booster è previsto per diverse categorie:
– ottantenni e over 80
– personale e ospiti dei presidi residenziali per anziani
– esercenti le professioni sanitarie e operatori di interesse sanitario
– persone con elevata fragilità motivata da patologie concomitanti/preesistenti di età uguale o maggiore di 18 anni
– persone di 60 anni e più con patologia concomitante.
Finora sono 581.132 le persone che hanno ricevuto una terza dose, il 7,67% della popolazione per cui è prevista la dose aggiuntiva.

COME CURARE L ‘ANOSMIA DA COVID

Da dottnet.it

Ricordare momenti felici di vita vissuta, legati a odori e sapori, per recuperare olfatto e gusto dopo essersi ammalati di Covid. E’ l’intuizione della professoressa Arianna Di Stadio, ricercatore onorario presso il Laboratorio di Neuroinfiammazione del UCL Queen Square Neurology di Londra, docente di Neuroscienze all’Università di Perugia, che ha coordinato uno studio sulla connessione tra perdita di memoria e anosmia e ageusia nella sindrome del long Covid, sottomesso per la pubblicazione ad una rivista scientifica. Quando si perde la memoria si dimenticano anche gli odori e i sapori. Se, infatti, in primo luogo, la ricerca riconduce lo stato di nebbia cerebrale e la perdita di olfatto e gusto ad una neuroinfiammazione causata dall’impatto del virus sul sistema nervoso centrale, i sapori e gli odori possono essere ritrovati lavorando anche sull’aspetto emotivo: “Sono molti i ricordi legati a forti emozioni e molti di questi ci riportano alla mente certi odori e sapori. Recuperando i ricordi positivi collegati, si possono ritrovare quegli odori e quei sapori”, afferma l’esperta.  Lo studio – che si è basato sui dati raccolti dall’Ospedale San Giovanni di Roma, dall’Università di Tor Vergata e dall’ Ospedale di Fano – ha incluso 151 pazienti (102 donne e 49 uomini) non ospedalizzati con disturbi dell’olfatto persistenti (almeno 5 mesi) correlati al Covid-19. La nebbia cerebrale o ‘brain fog’ era presente nel 60% dei pazienti con anosmia, la cefalea nel 61,8%. In entrambi i casi parliamo di popolazione Long Covid.

“Il nostro studio ha identificato una correlazione tra nebbia cerebrale, brain fog, e anosmia e a supposto che l’alterazione della memoria possa avere un impatto negativo sulla capacità olfattiva – spiega Di Stadio – Il Covid presenta un’ampia gamma di manifestazioni cliniche e durata dei sintomi. Il virus attraverso il naso può diffondersi sia all’encefalo che al resto del corpo determinando appunto una patologia multiorgano. In particolare, l’infezione dell’encefalo è responsabile di sintomi come anosmia, problemi di memoria e nebbia cerebrale ed altri sintomi neurologici che, se persistenti, sono annoverati nella cosiddetta sindrome long Covid. Nello studio abbiamo analizzato la prevalenza del deficit di memoria in una corte di pazienti con disturbi olfattivi e abbiamo osservato come per il 60% erano affetti da nebbia cerebrale e per il 61,8% da mal di testa. Da un lato il bulbo olfattivo, area di ingresso del virus nel cervello, potrebbe aver aumentato la suscettibilità all’infiammazione, mentre un’infiammazione più diffusa del cervello provoca la nebbia cerebrale. Dall’altro i pazienti con nebbia cerebrale hanno maggiori difficoltà a ricordare correttamente gli odori. Dunque, sia la nebbia cerebrale sia la perdita di olfatto possono derivare dalla diffusione del virus nelle aree della memoria dove risiede la funzione cognitiva ed essere manifestazioni di neuroinfiammazione diffusa”. “La neuroinfiammazione Sars-Cov-2 è potenzialmente un percorso comune, che potrebbe spiegare il mal di testa persistente e la nebbia cerebrale in associazione con l’anosmia – afferma ancora l’esperta – I trattamenti farmacologici per ridurre la neuroinfiammazione potrebbero, dunque, avere un ruolo nel ridurre la sofferenza del mal di testa e della nebbia cerebrale e nel promuovere il recupero della funzione olfattiva.  In particolare, PEALut (palmitoiletanolamide co-ultramicronizzata con Luteolina), un ultramicrocomposito antineurofiammatorio e insieme antiossidante, in grado di riparare il danno neuronale, è promettente per alleviare i sintomi neurocognitivi e promuovere il recupero olfattivo come dimostrato dallo studio pubblicato su European Review of Medical and Pharmacological Science. La molecola è, infatti, in grado di intervenire sul processo neuroinfiammatorio modulando l’azione delle cellule non-neuronali e l’effetto dello stress ossidativo grazie all’azione antiossidante della luteolina”.