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COVID E MANIFESTAZIONI DERMATOLIGICHE

Da fondazione Veronesi

Dall’orticaria all’eritema (simile a quello del morbillo). Fino alla vasculite. Sono diversi i possibili segni della malattia da coronavirus rilevabili sulla pelle.

Non soltanto tossefebbrebronchite o polmonite. L’infezione da Sars-CoV-2, al di là dei sintomi classici, può essere la causa anche di manifestazioni a livello cutaneo. Segni che difficilmente siamo portati ad associare alla Covid-19, la malattia provocata dal coronavirus. Ma che invece possono esserne una diretta conseguenza: con manifestazioni variabili anche in base ai diversi stadi della malattia. Soltanto un’ipotesi, fino a pochi mesi fa, adesso confermata da uno studio italiano pubblicato sul Journal of the American Academy of Dermatology. Sei le possibili «spie» della malattia rilevabili sulla superficie del nostro corpo.

SE COVID-19 SI SCOPRE ATTRAVERSO LA PELLE

Si tratta dell’orticaria, di un’eruzione simile a quella che si rileva nel morbillo, di una reazione pressoché analoga a quella rilevabile nei casi di varicella, della comparsa di lesioni accostabili ai geloni, di una ecchimosi da trauma (livedo reticularis) caratterizzata dalla presenza di sangue sotto la cute e di una vasculite, con la possibile comparsa di ulcere sugli arti inferiori. Queste le manifestazioni che gli specialisti hanno registrato osservato 200 pazienti che, nella prima ondata della pandemia, sono stati curati in 21 ospedali sparsi lungo la Penisola. Registrando anche altri parametri (età, sesso, presenza di altre malattie, momento e durata dei segni cutanei) e andando a incrociare le informazioni relative all’infezione con la comparsa dei sintomi (tutti i pazienti osservati erano risultati positivi al tampone molecolare) sullo strato più esterno del corpo, i dermatologi sono giunti alla conclusione che i rilievi sulla pelle erano una diretta conseguenza della malattia.

NEI GIOVANI SOPRATTUTTO I GELONI

La durata media delle manifestazioni cutanee osservata è stata di 12 giorni. Nel caso dei geloni, però, si è arrivati a superare le tre settimane. «Inoltre, abbiamo rilevato che i geloni erano il sintomo prevalente tra i giovani ed erano associati a una manifestazione quasi sempre asintomatica del virus – afferma Angelo Valerio Marzano, dermatologo dell’ospedale Maggiore Policlinico di Milano e prima firma dello studio -. Mentre tutte le altre manifestazioni erano collegate a una forma più o meno severa». A questo proposito, altri due studi avevano dato come assunto il fatto che le lesioni della pelle più gravi fossero correlate a una forma più grave di Covid-19. Stabilendo quindi una proporzione diretta tra sintomi cutanei aggressivi e gravità della polmonite interstiziale. Una corrispondenza che invece non è emersa dalla ricerca italiana. «Non sembra esserci alcuna correlazione diretta tra la gravità della manifestazione cutanea e quella della malattia da Sars-CoV-2 – prosegue il direttore della scuola di specializzazione in dermatologia e venereologia dell’Università degli Studi di Milano -. Piuttosto, una correlazione esiste tra aumento dell’età e aumento della gravità della malattia».

TORNASOLE DELLA SALUTE 

Pur non avvertendo sintomi respiratori e ritenendosi al sicuro non avendo avuto contatti stretti con persone positive, in questa fase un’apparente orticaria, un eritema esteso, una improvvisa vasculite, ecchimosi e geloni vanno considerati possibili spie della malattia. E, secondo i ricercatori, devono indurre a fare un tampone«Lo studio conferma che la cute può essere spia di una infezione da Sars-CoV-2 – dichiara Ketty Peris, direttrice dell’unità operativa complessa di dermatologia del Policlinico Gemelli di Roma e presidente della Società Italiana di Dermatologia e Malattie Sessualmente Trasmesse (Sidemast), che ha sostenuto la ricerca -. Per questo motivo, è fondamentale controllare la nostra pelle, perché potrebbe metterci in guardia e avvisarci su quello che accade nel nostro organismo, dandoci la possibilità di muoverci in anticipo e aiutarci a fare una diagnosi precoce della malattia ed anche evitare possibili ulteriori contagi».  Articolo di Fabio Di Todaro.

MONITORAGGIO INAIL DEI SANITARI COVID POSITIVI

La pubblicazione, frutto di un lavoro tecnico di ricerca condotto dall’Inail, in collaborazione con l’ISS, è stata realizzata grazie al prezioso contributo delle regioni nella raccolta dei dati relativi al personale sanitario contagiato, consentendo di realizzare lo studio retrospettivo descritto nel volume.

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ll documento affronta il tema del contagio tra il personale sanitario che, fin dalle primissime fasi, ha svolto un ruolo cruciale nella gegtione dell’epidemia sia per la cura in prima linea dei pazienti infetti, con il conseguente maggior rischio di esposizione, sia nell’assicurare la piena implementazione delle misure di prevenzione e controllo per il contenimento del contagio. Questo ha determinato un’elevata diffusione di contagi tra gli operatori sanitari con percentuali molto elevate rispetto ai casi registrati nella popolazione generale.


Prodotto: Vomune
Edizioni Inail – 2021
Disponibilità: Consultabile solo in rete
Info: dcpianificazione-comunicazione@inail.it

VACCINI COVID , PRESTO POSSIBILE ANCHE LA SOMMINISTRAZIONE IN AZIENDA

Il ministro della Salute Roberto Speranza ha dato il via libera per le vaccinazioni sul posto di lavoro dopo l’accordo con le parti sociali

Somministrare i vaccini dentro le aziende si può. Lo avrebbe concordato il ministro della Salute Roberto Speranza con le parti sociali convocate per un vertice dal ministro del Lavoro Andrea Orlando. Secondo quanto sarebbe emerso, nell’incontro si è ipotizzata la possibilità di “utilizzare presidi all’interno delle aziende, quindi i medici aziendali, per le somministrazioni delle dosi, per garantire un accesso più fluido ai lavoratori più esposti al contagio”.

Vaccini Covid, somministrazione anche in azienda: l’incontro

Vaccini Covid, giovedì i primi “estremamente vulnerabili” chiamati dalle  strutture sanitarie - Toscana Notizie

Alla videoconferenza ha preso parte anche il nuovo commissario all’emergenza Francesco Paolo Figliuolo che si occuperà di tutta la logistica nella distribuzione dei vaccini. Durante la riunione i rappresentanti del governo hanno presentato alle sigle sindacali due obiettivi: “Fare il punto sull’attuazione dei protocolli di sicurezza firmati nel marzo dello scorso anno” e verificare la “possibilità di utilizzare i presidi che esistono all’interno delle aziende, quindi i medici aziendali, per le vaccinazioni”. A questo scopo sarebbe previsto anche il coinvolgimento dell’Inail attraverso la rete dei suoi ambulatori.

Il principio espresso dai ministri di Sanità e Lavoro è che “ogni presidio e ogni luogo dove può esserci un medico messo nelle condizioni, nel pieno rispetto dei protocolli di sicurezza, di accelerare le vaccinazioni è un fatto positivo per il Paese”, quindi “risorse anche intere alle aziende per agevolare la vaccinazione dei dipendenti”.

Vaccini Covid, ok alla somministrazione anche in azienda: il ruolo delle imprese

Presente all’incontro oltre ai sindacati anche Confindustria, con il direttore generale Francesca Mariotti, la quale ha ribadito la disponibilità delle aziende a collaborare attivamente alla somministrazione delle dosi.

L’associazione di imprese garantirebbe la possibilità di arrivare a una platea di 12 milioni di soggetti da coinvolgere nella campagna di vaccinazione, compresi i componenti delle famiglie dei 5,5 milioni di dipendenti nella rete di aziende.

Confindustria condivide l’obiettivo di un ritorno alla normalità nel più breve tempo possibile, per limitare i danni economici portati dall’emergenza sanitaria, e per questo ha già presentato a governo e sindacati una proposta operativa con tempi e strumenti per affrontare gli effetti, diretti e indiretti, della pandemia sul mercato del lavoro.

Sul punto il segretario generale della Uil Pierpaolo Bombardieri ha sottolineato che “serve un piano nazionale per codificare regole e funzioni per la distribuzione e la somministrazione dei vaccini”.

“In questo quadro, bisogna aggiornare i Protocolli sulla sicurezza sottoscritti lo scorso anno con il Governo, anche introducendo due capitoli: quello relativo ai lavoratori fragili e quello sulla formazione” spiega il segretario Uil.

“È necessario consentire la somministrazione dei vaccini nei luoghi di lavoro, lì dove ci sono medici competenti e medici aziendali, ma anche nelle piccole aziende, magari facendo ricorso alle strutture bilaterali delle parti sociali presenti sul territorio – è il punto di vista di Bombardieri. Tutto ciò per accelerare la distribuzione e per non pesare eccessivamente sulle strutture pubbliche. Ecco perché dobbiamo stabilire un percorso per arrivare presto alla sottoscrizione di un nuovo Protocollo”.

da quifinanza.it

PERCHÉ NON CONVIENE FARE GLI SCHIZZINOSI SUI VACCINI COVID

Da il post.it

Nonostante i vaccini contro il coronavirus finora autorizzati in Europa e negli Stati Uniti si siano rivelati tutti sicuri ed efficaci nel prevenire la COVID-19, c’è chi mostra una certa diffidenza nei confronti di alcune soluzioni rispetto ad altre. I dubbi nell’ultimo periodo hanno riguardato soprattutto il vaccino di AstraZeneca, a causa di qualche imprevisto organizzativo nella gestione dei test clinici lo scorso anno e per i dati sulla sua efficacia, che a prima vista può apparire inferiore rispetto a quella di altri vaccini come quelli di Pfizer-BioNTech e Moderna.

Gli esperti invitano a non mettere a diretto confronto vaccini che sono stati sperimentati in condizioni molto diverse tra loro, proprio perché nel farlo si rischia di farsi un’idea sbagliata. Inoltre, a prescindere dall’efficacia rilevata, in questa fase è essenziale che il maggior numero possibile di persone si vaccini e in fretta, in modo da tutelare l’intera comunità sia per quanto riguarda la riduzione del carico dei sistemi sanitari sia per prevenire la circolazione del coronavirus (non è ancora chiaro se e quanto i vaccini riducano il rischio di contagio, ma i primi dati sono incoraggianti)

Efficacia
Per valutare l’efficacia di un vaccino sperimentale, i ricercatori di solito dividono i partecipanti alla sperimentazione in due gruppi: il primo riceve il vaccino, mentre il secondo riceve una sostanza che non fa nulla (placebo). I volontari conducono normalmente la loro vita, come qualsiasi altro individuo, e realisticamente alcuni di loro entrano in contatto con l’agente che causa la malattia contro la quale si sta sperimentando il vaccino. Dopo un po’ di tempo i ricercatori raccolgono i dati su quanti volontari si siano ammalati tra i vaccinati e quanti tra quelli con il placebo.

I ricercatori calcolano poi il rapporto tra malati e sani in ciascun gruppo. Se il vaccino funziona, la percentuale di malati nel gruppo dei vaccinati è di solito inferiore rispetto a quella nel gruppo dei non vaccinati. L’efficacia indica quindi in percentuale la differenza relativa tra le due percentuali nei rispettivi gruppi (lo avevamo spiegato più estesamente qui). Se non c’è differenza tra i due gruppi, il vaccino ha un’efficacia dello 0 per cento, se nessuno dei volontari vaccinati si ammala, l’efficacia è del 100 per cento.

Efficacia nella comunità
I volontari che partecipano alle sperimentazioni sono di solito persone giovani e in salute e i test clinici sono svolti in condizioni controllate, cercando di ridurre il più possibile le variabili che potrebbero incidere sulla qualità dei risultati. Questo fa sì che l’efficacia rilevata sia spesso diversa da quella che viene poi riscontrata nella comunità, cioè nel mondo reale, una volta che il vaccino viene autorizzato e somministrato a milioni di persone.

Differenze
Le procedure seguite per organizzare i test clinici sono più o meno sempre le stesse, ma questo non significa che si possano mettere a confronto diretto test clinici diversi e per specifici vaccini: ogni sperimentazione è per molti aspetti un mondo a sé. Gli individui che partecipano al test clinico per il vaccino A sono diversi da quelli che partecipano alla sperimentazione per il vaccino B, le quantità stesse dei volontari possono cambiare, così come la loro distribuzione geografica, l’ambiente e le condizioni in cui vivono.

I vaccini di Pfizer-BioNTech e Moderna, per esempio, sono stati sperimentati per lo più negli Stati Uniti lo scorso anno, in un periodo in cui non erano ancora emerse le varianti del coronavirus di cui si è parlato molto negli ultimi mesi, e che possono rendere più contagioso il virus. Il vaccino di Johnson & Johnson è stato sperimentato più di recente negli Stati Uniti, in Sudamerica e in Sudafrica, quindi in contesti molto diversi e soprattutto in una fase in cui avevano iniziato a diffondersi alcune varianti. Per questo il vaccino ha fatto riscontrare un’efficacia del 57 per cento in Sudafrica dove stava circolando una variante, mentre negli Stati Uniti ha fatto rilevare un’efficacia del 72 per cento.

Il vaccino di AstraZeneca è stato sperimentato lo scorso anno in diversi paesi come il Regno Unito, il Brasile e il Sudafrica, anche in questo caso in condizioni diverse tra loro. I ricercatori hanno inoltre ritenuto utile provare vari scenari, per valutare tempi e dosaggi per ottenere migliori risultati dal punto di vista dell’efficacia. Questa strategia ha comportato qualche imprevisto, legato per esempio a un iniziale errore nei dosaggi per i volontari, e non ha permesso di avere dati affidabili sull’efficacia del vaccino negli individui con più di 65 anni. I dati raccolti nella comunità sono comunque incoraggianti e indicano una marcata protezione anche per i più anziani, secondo alcune analisi preliminari.

Oltre a essere stati sperimentati in modo diverso, i vaccini finora autorizzati utilizzano principi diversi di funzionamento. Quelli di Pfizer-BioNTech e di Moderna sono a base di RNA messaggero, un sistema relativamente nuovo e che fino alla pandemia non era stato sperimentato su così larga scala, mentre quello di AstraZeneca utilizza un virus sostanzialmente innocuo (adenovirus) che viene modificato per insegnare al sistema immunitario a riconoscere il coronavirus, in modo da bloccarlo nel caso in cui si venisse contagiati.

Percentuali
I vaccini di Pfizer-BioNTech e di Moderna hanno fatto rilevare un’efficacia intorno al 95 per cento nei test clinici nel prevenire la COVID-19, mentre il vaccino di AstraZeneca ha raggiunto il 62 per cento.

Leggendo i due dati si può pensare che i due vaccini oltre il 90 per cento siano migliori rispetto a quello di AstraZeneca, ma non è necessariamente così. Tra gli scopi principali di un vaccino contro la COVID-19 c’è quello di evitare che si sviluppino sintomi gravi, che potrebbero rendere necessario un ricovero in ospedale o causare la morte. Insomma, non è tanto importante che il vaccino impedisca in assoluto di ammalarsi di COVID-19, ma che impedisca di avere una forma grave e altamente rischiosa della malattia.

Su questo ultimo punto, non c’è praticamente differenza tra i vaccini di Moderna, Pfizer-BioNTech, Johnson & Johnson, e AstraZeneca: proteggono tutti quasi al 100 per cento dalle forme gravi di COVID-19. Dai dati finora disponibili, il vaccino di AstraZeneca sembra essere inoltre in grado di farlo meglio di altri a tre settimane dalla somministrazione della prima dose (le differenze non sono comunque marcate, parliamo di pochi punti percentuali).

(JAMA)

Non quale, ma quando
Immunologi ed epidemiologi segnalano inoltre come in questa fase non sia importante quale vaccino ricevere, naturalmente tra quelli verificati e autorizzati, ma riceverne uno il prima possibile. Vaccinare il maggior numero di persone è ciò che può fare la differenza in questa fase, non una percentuale sull’efficacia diversa da un’altra.

Negli Stati Uniti, un gruppo di ricercatori ha sviluppato un sistema per simulare che cosa accadrebbe con vaccini dalla diversa efficacia, somministrata a velocità e tempi diversi. Nella maggior parte delle simulazioni, l’impiego di un vaccino “meno efficace” da subito disponibile consente di ridurre molti più casi di COVID-19, ricoveri e morti rispetto all’utilizzo di un vaccino con un’efficacia più alta, ma che rende necessari tempi di attesa più lunghi.

Bruce Y. Lee, uno degli autori della ricerca, lo ha spiegato chiaramente pochi giorni fa in un articolo sul New York Times:

Ipotizziamo che gli Stati Uniti siano in grado di vaccinare un milione di persone al giorno, con un vaccino efficace al 90 per cento (un po’ quello che è successo finora) e che continuino fino al raggiungimento del 60 per cento di popolazione vaccinata. A questo ritmo, occorrerebbero circa sei mesi e mezzo.
Ora consideriamo uno scenario dove le persone sono vaccinate a un ritmo più alto pari a 1,5 milioni di vaccinazioni al giorno con un vaccino meno efficace, intorno al 70 per cento, e fino al raggiungimento del 60 per cento della popolazione vaccinata. A questo ritmo più veloce, ci vorrebbero circa quattro mesi.
Abbiamo notato che quest’ultimo scenario potrebbe prevenire in media 1,38 milioni di nuovi casi positivi, oltre 51mila ricoveri e più di 6.000 morti rispetto allo scenario con una vaccinazione più lenta, ma con un vaccino più efficace.

Il vaccino di Johnson & Johnson potrebbe dare un contributo determinante nell’accelerare le vaccinazioni, perché richiede una sola somministrazione rispetto agli altri vaccini contro il coronavirus. La soluzione di Johnson & Johnson è stata autorizzata negli Stati Uniti lo scorso fine settimana e dovrebbe ricevere un’autorizzazione di emergenza nell’Unione Europea entro la metà di marzo.

Quindi?
Finora in tutto il mondo sono stati somministrati circa 250 milioni di dosi di vaccini, per lo più di Pfizer-BioNTech, Moderna e AstraZeneca, i vaccini autorizzati anche nell’Unione Europea e impiegati in Italia, che si stanno rivelando sicuri ed efficaci nel prevenire forme gravi e potenzialmente letali di COVID-19. La loro disponibilità è ancora limitata e per questo le autorità sanitarie invitano a non sprecare nemmeno una dose; i governi si sono dovuti impegnare, singolarmente o collettivamente come nell’Unione Europea, a gestire gli acquisti e le somministrazioni a seconda delle fasce di età e dei rischi che corrono.

In questa fase, considerare un ripiego l’utilizzo di un vaccino rispetto a un altro sarebbe un errore, che pagherebbe non solo chi rifiuta di vaccinarsi esponendosi a inutili rischi, ma anche le comunità che ormai da un anno fanno i conti con dolorosi lutti, sacrifici, forti limitazioni e difficoltà economiche.

Articolo di Emanuele Menietti

LEADERSHIP AL TEMPO DEL COVID 19

In questo periodo di pandemia stiamo assistendo con apprensione ai tentativi, più o meno ordinati e ponderati, dei nostri leader di contenere la diffusione dell’epidemia e gestire un’emergenza senza precedenti.


Non possiamo sapere con certezza quando questa crisi sanitaria finirà e neanche quali saranno le conseguenze che ne deriveranno, ma di una cosa possiamo essere certi: alcuni leader si saranno dimostrati più capaci di altri di fronteggiare la crisi e minimizzare i danni delle comunità cui appartengono.
E’ proprio nei periodi più duri che si evidenziano e si amplificano gli effetti devastanti della leadership inadeguata: incompetenza, arroganza, disonestà, indifferenza per la sofferenza degli altri, costituiscono, ancor più nei periodi di crisi, i detonatori di sconvolgimenti sociali ed economici.
I leader che si dimostreranno più capaci saranno coloro in grado di esprimere qualità come la competenza, l’umiltà, l’integrità, il coraggio ma anche, soprattutto, l’empatia e l’intelligenza emotiva.

Mai come oggi, in un periodo in cui l’intera popolazione mondiale è esposta in tutta la sua vulnerabilità alla paura e alla sofferenza, la guida di un Paese (e di qualsiasi altro gruppo organizzato) richiede ai leader di dare fiducia e rassicurazione, connettendo le persone nelle emozioni e nei valori.

1.I LEADER PIU’ CAPACI: COMPETENTI E EMPATICI
Tomas Chamorro-Premuzic, nel suo libro “Why do so many incompetent men become leaders (and how to fix it)” mette in evidenza come alcuni tratti del carattere quali l’egocentrismo, l’autocompiacimento, l’eccesso di confidenza nelle proprie capacità, siano stati spesso interpretati come espressione di una personalità forte e carismatica, anziché, come sarebbe corretto, essere considerati dei campanelli d’allarme di disturbi della personalità.
Addirittura in molti casi l’eccessiva confidenza viene confusa con la competenza.
Il risultato è che troviamo un surplus di incompetenti (e narcisisti) alla guida di organizzazioni, istituzioni e Paesi.
Questo fenomeno rischia di acuirsi e accentuarsi in periodi di crisi, quando la tentazione dell’”uomo forte al comando” sembra costituire la panacea di tutti i mali.
I leader narcisisti ed egocentrici generano nella collettività ansia, sfiducia e frustrazione provocando conseguenze devastanti non solo sul clima e sulla tenuta sociale ma anche sulla produttività.

E’ vero al contrario che una leadership positiva e benefica rappresenta una risorsa per le collettività e le organizzazioni, dando impulso alla motivazione e alla performance.
La self confidence, lo strenuo perseguimento del successo personale anche a scapito del bene collettivo devono essere messi da parte rispetto ad altri più importanti aspetti della leadership: esperienza e competenza professionale, intelligenza, umiltà, impegno, networking, integrità, empatia.

E’ la rivincita della competenza sull’improvvisazione, sulla superficialità e la banalità dell’apparire.
Ma la competenza e la professionalità da sole non bastano. In parallelo è altrettanto importante adottare un approccio più empatico, umano, all’occorrenza controcorrente, perché solo così saremo incoraggiati a coltivare il gusto per le novità, la prospettiva, le diversità, l’inclusione e soprattutto ci sentiremo motivati al perseguimento di obiettivi ambiziosi, anche a costo di sacrifici e rinunce.

Il leader vincente è colui o colei che guida il gruppo (sia esso un popolo o un team aziendale) al successo collettivo perché capace di intercettare, comprendere e dare voce a sentimenti, emozioni, stati d’animo delle persone e di mettere da parte il proprio interesse personale a favore del più ampio benessere della collettività.

L’intelligenza emotiva e l’empatia giocano un ruolo fondamentale in questo senso, e le donne, che più spesso degli uomini hanno una naturale propensione verso queste competenze, se avranno l’opportunità di accedere ai ruoli decisionali in misura più consistente di quanto avvenuto finora, potranno certamente dare un contributo importante e decisivo all’auspicata trasformazione culturale.

2. I BENEFICI DELLA GENEROSITA’

Le incertezze e i problemi determinati dall’emergenza in atto possono essere meglio affrontati se si innescano processi comunitari collaborativi e di condivisione, cooperativi e solidali.
Adam Grant nel suo libro “Give and Take” ci dimostra che la generosità può avere benefici tangibili per gli individui e le comunità cui appartengono, e che le persone di maggior successo sono proprio i Givers, ovvero coloro che sono capaci di agire a vantaggio degli altri, arricchendo la vita delle persone con cui interagiscono.

I Givers, spiega Grant, sono coloro che preferiscono dare più che prendere, sono generosi nel condividere tempo, energie, conoscenze, capacità, idee e connessioni con altre persone.
Hanno la propensione ad agire per il bene altrui e un forte senso di responsabilità verso chi li circonda. Amano dare il proprio contributo senza pretendere nulla in cambio, sono capaci di anteporre il bene del gruppo al proprio interesse.
Adottano uno stile di comunicazione pacato e partecipativo (Powerless) e nel dialogo utilizzano di solito la prima persona plurale (noi, nostro…).

Al contrario i Takers antepongono sempre il proprio interesse, prendendo più di quanto danno e drenando risorse ed energie dagli altri.
Sempre concentrati su se stessi, hanno un approccio ipercompetitivo, si sentono superiori agli altri, tendono a sopravvalutare il proprio contributo e a sottovalutare quello degli altri.
I loro valori di riferimento sono la ricchezza economica, il potere, la prevaricazione sull’avversario in logica win-lose.
Rappresentano un costo e un grave rischio per la coesione sociale.

I Matchers, che rappresentano la maggior parte (circa il 60%) della popolazione, cercano l’equilibrio tra dare e avere, sono disponibili ad aiutare gli altri se ne possono ottenere dei vantaggi, fondano le relazioni su scambi di favori alla pari e proteggono se stessi con la reciprocità.
Hanno un approccio positivo e costruttivo nella relazione con gli altri, governato dal principio del fairplay. Ma, cercando sempre e comunque di ottenere un beneficio in cambio del loro aiuto, sono meno efficaci dei Givers a generare effetti benefici su chi li circonda.

Nelle culture governate dai valori dei takers la regola è quella di ottenere il più possibile dagli altri contribuendo il meno possibile. Si aiutano gli altri solo quando si è convinti che i benefici personali superino i costi e si ha paura, aiutando gli altri, di essere considerati deboli.
L’inevitabile effetto di questo approccio è di ingenerare competizione e conflitto interno scoraggiando comportamenti di aiuto e contributo reciproci.

Nelle “culture del matching”, la norma è di aiutare coloro che ci aiutano, mantenendo un costante equilibrio tra dare e avere. Sebbene le culture dominate dai valori dei matchers beneficino di un ambiente maggiormente collaborativo rispetto a quelle in cui a prevalere sono i principi guida dei takers, costituiscono ambienti ancora poco efficienti per la collaborazione, la condivisione e lo sviluppo di nuove idee e conoscenze che nascono dalla cross-fertilization.

I Giver hanno più spiccate capacità di interazione proficua con gli altri e sono capaci di creare un ambiente più aperto, solidale, improntato alla fiducia e all’armonia.
Nelle culture improntate al giving, le persone aiutano spontaneamente gli altri senza aspettarsi nulla in cambio.
Questo comportamento di sostegno e supporto facilita l’efficacia delle comunità organizzate da diversi punti di vista:

  • migliora la coesione e il coordinamento del gruppo
  • crea un ambiente più favorevole al rispetto delle regole, perché le persone avvertono che le loro esigenze sono realmente la massima priorità
  • favorisce la circolazione e lo scambio di idee, il trasferimento di know how e di competenze.

Numerosi studi hanno dimostrato che la gentilezza migliora il benessere fisico ed emotivo non solo di chi la riceve ma anche di chi la agisce, alza i livelli di energia, oltre a rafforzare il senso di lealtà nei confronti del gruppo di appartenenza e a favorire il gioco di squadra.

3. IN CONCLUSIONE

Le sfide che ci pone il futuro sono molteplici e ardue. Nulla sarà come prima e dobbiamo essere pronti ad abbracciare nuovi modelli di riferimento.  
A cominciare ad esempio da un atteggiamento più aperto e fiducioso verso le tecnologie digitali, che si sono rivelate preziose per mitigare gli effetti negativi dell’isolamento e dell’inattività e favorire la tenuta del tessuto sociale ed economico.
Imprescindibile appare in questo scenario la radicale trasformazione dei modelli di guida e comando delle nazioni e delle organizzazioni, che sia improntata a empatia, gentilezza, generosità, solidarietà, disponibilità ad ascoltare e aiutare gli altri.
Saper ascoltare e “sentire” le persone, entrare in sintonia con loro, riconoscere le emozioni e prendere decisioni finalizzate a massimizzare il bene comune: queste sono le doti che i leader dovranno dimostrare per consentirci di ricostruire una società più giusta e più equa.
Chiudo citando Einstein che nel 1955 scriveva:

“Non pretendiamo che le cose cambino se continuiamo a farle nello stesso modo. La crisi può essere una vera benedizione per ogni persona e per ogni nazione, perché è proprio la crisi a portare progresso. La creatività nasce dall’angoscia, come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che nasce l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere superato. Chi attribuisce le proprie sconfitte e i propri errori alla crisi, violenta il proprio talento e mostra maggior interesse per i problemi piuttosto che per le soluzioni. La vera crisi è l’incompetenza. Il più grande difetto delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel trovare soluzioni.” (Albert Einstein)

Da weplusnetwork.com

Sullo stesso argomento:

https://www.ilsole24ore.com/art/leadership-infinita-tempi-covid-pandemia-e-un-occasione-crescita-ADWEoF4

APPARECCHI DI SOLLEVAMENTO : ACCERTAMENTO TECNICO E VERIFICA PERIODICA

Partendo dal patrimonio informativo che negli anni l’Istituto ha costituito e dalle competenze maturate nell’espletamento delle attività di verifica periodica e di accertamento tecnico, il documento rappresenta un archivio dei pareri tecnici elaborati sugli apparecchi di sollevamento materiali, al fine di fornire utili indirizzi che possano rendere più efficace l’attività di verifica periodica, nell’ottica di un miglioramento dei livelli di sicurezza nei luoghi di lavoro, come previsto nella mission istituzionale.

Immagine Apparecchi di sollevamento materiali - L'accertamento tecnico per la verifica periodica

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Prodotto: Volume
Edizioni: Inail – 2020
Disponibilità: Sì – Consultabile anche in rete
Info: dcpianificazione-comunicazione@inail.it

Da Inail.it

ALLO STUDIO IN UK I VACCINI COVID DI NUOVA GENERAZIONE

Il team che ha lavorato al prodotto Oxford/Astrazeneca starebbe già studiando la messa a punto di un antidoto contro il coronavirus di più facile utilizzo rispetto a quello di Pfizer e degli altri che vengono somministrati con un’iniezione. “Ma ci vorrà tempo”, avvertono i ricercatori

Da:

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Il team che ha lavorato al prodotto Oxford/Astrazeneca starebbe già studiando la messa a punto di un antidoto contro il coronavirus di più facile utilizzo rispetto a quello di Pfizer e degli altri che vengono somministrati con un’iniezione. “Ma ci vorrà tempo”, avvertono i ricercatori.

I vaccini di seconda generazione contro il Covid potrebbero essere diversi da quelli attuali, e non solo perché potrebbero aver subito “aggiustamenti” per meglio contrastare le varianti più minacciose.  Via fiale e siringhe, potrebbero essere somministrati con spray nasali o pillole. A questa prospettiva starebbe già pensando il team di Oxford che ha lavorato sull’antidodo di Astrazeneca e che sta anche svolgendo sperimentazioni sul mix di vaccini diversi. Nelle scorse settimane, l’ex numero uno della task force britannica per i vaccini, Kate Bingham, aveva detto, in un’audizione davanti alla “Commons Science and Technology Commitee”, che andavano esplorate altre strade per rendere la somministrazione del vaccino più facile in futuro. Ovviamente qualsiasi novità, ha bisogno di tempo per svilupparsi.

La ricerca di vaccini più facilmente gestibili

“Abbiamo vaccini antifluenzali che possono essere somministrati  con spray nasali e questo potrebbe essere l’approccio giusto per tutti i vaccini contro i diversi coronavirus”, ha spiegato Sarah Gilbert, a capo del team dei ricercatori  di Oxford, ai deputati della Commissione.

Come evidenziato già da Bingham a più riprese negli ultimi mesi, la doppia somministrazione, e soprattutto l’attuale conservazione del prodotto di Pfizer a temperature poibitive, rende la campagna vaccinale inevitabilmente complessa e difficile. In questo senso, già il via libera a Johnson&Johnson, antidoto  monodose, atteso a breve, contribuirà a facilitare non poco la situazione nel Regno Unito.

Verso una nuova normalità

Nelle ultime settimane, il ritmo di crescita delle dosi somministrate ha subito un rallentamento anche in Inghilterra, per quanto il Paese abbia ormai superato i 18 milioni di vaccinati con la prima dose e da fonti governative venga  smentito il rischio che la seconda dose possa essere ulteriormente procrastinata rispetto alle 12 settimane. Il fatto è che qui, come annunciato dal premier Boris Johnson, si sta avvicinando il momento della “cauta ma irriversibile” uscita dal lockdown. Sarebbe comunque sbagliato affidarsi completamente solo ai vaccini. L’osservanza di altre misure, a partire dal distanziamento sociale, è importante che venga seguita il più possibile, per non vanificare gli sforzi fin qui fatti e per rispettare le oltre 120mila morti da Covid registrate finora nel Regno Unito. Intanto proseguono anche gli studi per cercare di comprendere meglio i meccanismi di trasmissione del virus.  Delle ultime settimane la notizia che  è partita la sperimentazione su giovani adulti perfettamente sani infettati col virus in ambiente protetto.

MEDICO COMPETENTE JOURNAL – ARCHIVIO 2020

La società Anma da molti anni promuove importanti incontri scientifici sulla medicina del lavoro e sulla professione di medico competente anche attraverso consigli operativi pratici . la rivista Medico Competente Journal è un valido strumento di aggiornamento professionale

Segnalo particolarmente nel n4/2020 la circolare del ministero della salute sulla gestione del primo soccorso in tempi di epidemia Covid

Il primo soccorso al lavoro durante la pandemia da COVID-19

La pandemia ha reso necessario di cambiare anche il modo di fare il Primo Soccorso nei luoghi di lavoro, un’attività che deve ora sempre svolgersi nel rispetto delle necessarie misure di sicurezza anticontagio.

Le società scientifiche internazionali (Ilcor, ERC, American Heart Association) hanno prodotto specifiche linee guida su come organizzare il Primo Soccorso nella pandemia, ed anche il nostro Ministero della Salute ha dato indicazioni in proposito con la Circolare n. 21859 datata 23 giugno 2020.

Noi abbiamo voluto contribuire, predisponendo questo breve materiale informativo illustrato, realizzato con la collaborazione dell’Ente Bilaterale del Turismo e dell’Ente Bilaterale del settore Terziario della Provincia di Venezia.

File Allegati:

Archivio notiziari anno 2020

zoom

N. 4 – 2020

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N. 2_3 – 2020

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N. 1 – 2020

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FFP2 SI… MA TAROCCHE

Da huffpost.it

Non tutte le mascherine Ffp2 in commercio funzionano come dovrebbero. Lo sostiene sul Corriere della Sera una società internazionale di import-export dell’Alto Adige, che ha commissionato una serie di test sui dispositivi di protezione individuale importati dall’Asia.

La verifica è stata effettuata su circa una ventina di modelli certificati con il marchio CE2163, codice rilasciato dalla Universalcert, un laboratorio di Istanbul, in Turchia.

Secondi i dati riportati dall’azienda, la maggior parte delle mascherine non avrebbe superato la prova del cloruro di sodio e dell’olio paraffina, per verificarne la capacità di filtraggio, mentre alcune non sono state nemmeno in grado di contenere il respiro.

I due legali rappresentanti della società altoatesina sottolineano che dall’inizio della pandemia sono stati sempre di più i clienti che hanno richiesto di importare mascherine dall’Asia, prodotti che però non sempre forniscono le garanzie richieste:

“Il punto è che la maggior parte del materiale in commercio non corrisponde alle certificazioni“.

Ancora sulle pagine del Corriere, Pierangelo Clerici, presidente dell’Associazione Microbiologi Clinici italiani, spiega il percorso che deve essere fatto dai prodotti sanitari per poter essere immessi sul mercato europeo, sottolineando che “purtroppo non esiste un percorso di controllo a livello centrale” e che invece sarebbero opportuni enti di certificazione per le mascherine come l’Ema in Europa e all’Aifa in Italia per vaccini e farmaci.

“L’epidemia ha mostrato tutti i limiti del marchio CE. Sarebbe opportuno che il marchio CE non fosse solo l’acquisizione di un’autocertificazione, ma fosse una valutazione reale a monte di quanto dichiarato dalle aziende”.