MEDICINA DEL LAVORO

GUIDA ALLA MASCHERINA CERTIFICATA CE GIUSTA

Da Dottnet.it

Continua la polemica sulle mascherine con il costante apporto da parte degli esperti per identificare i prodotti “irregolari”. Nel mirino sono finite quelle con la marchiatura CE 2163, certificate dal laboratorio turco Universalcert e vendute anche in alcune farmacie italiane, su cui sono ancora in corso indagini. Al momento sono ancora nel database UE: l’obiettivo è ora capire se i dispositivi fossero non a norma già dopo aver ottenuto il “bollino” CE oppure se le modalità di produzione siano cambiate successivamente.  Ci sono però altri codici che sono considerati certamente non sicuri, a cui gli acquirenti devono fare attenzione. Queste le sigle “sospette”, come riporta Il Giorno:

ICR Polska (Polonia) – CE 2703

CELAB (Italia) – CE 2037

ECM (Italia) – CE 1282

ISET (Italia) – CE 0865

TSU Slovakia (Slovacchia) – CE 1299

Chiunque sia in possesso di mascherine Ffp2 con questo marchio, quindi, fa meglio a liberarsene. Intanto la Comunità Europea ha realizzato un database in cui si può inserire il codice della propria mascherina e verificare se questa è in regola o meno e se la società che l’ha venduta abbia o meno i requisiti per farlo.

Mascherine Ffp2: la guida

Ma come si è arrivati a questa confusione su uno strumento giudicato fra le protezioni fondamentali dal contagio? Il sito altroconsumo.it ha fatto chiarezza sulla natura delle Ffp2 e su come verificare la loro correttezza. Le mascherine Ffp2 (come le sorelle Ffp3) sono mascherine filtranti facciali. Per essere messe in commercio devono essere prima analizzate da un organismo terzo che ne certifichi l’aderenza ai requisiti della norma tecnica EN 149:2001 sulla protezione delle vie respiratorie. Ottenuto il via libera il produttore potrà “fregiarsi” del marchio CE. Come riconoscere le mascherine a norma? Sulla confezione e sul prodotto deve essere riportato il marchio CE accompagnato da un codice di quattro numeri. Questo identifica il laboratorio o un altro soggetto che ha dato il via libera al prodotto perché questo è in linea con la norma EN 149:2001. Il marchio CE, per altro, deve avere proporzioni precise. Se è diverso o ha dimensioni differenti può essere contraffatto e quindi non rispettare gli standard di sicurezza europei.

Come valutare se le mascherine Ffp2 acquistate sono regolari

Le informazioni che servono sono due: il codice di 4 lettere che si abbina al marchio CE e il certificato che accompagna il dispositivo di protezione. L’elenco completo di tutti gli enti certificatori compare sul database “Nando” della Commissione Europea. In questa lista possiamo controllare se il numero che accompagna il marchio CE della nostra mascherina Ffp2 corrisponde a un laboratorio autorizzato a valutare i dispositivi di protezione e a certificarli. Basta cercare il codice di 4 numeri e aprire la scheda dell’organismo. Qui troveremo quali prodotti può certificare. Nel caso delle Ffp2 devono essere citati il “personal protective equipment” e il Regolamento EU 2016/425. E tra i prodotti valutati deve essere presente il riferimento a “Equipment providing respiratory system protection”. Se non compare in questo elenco, il certificato che accompagna le nostre mascherine è quasi sicuramente un falso.

Le informazioni obbligatorie del certificatore

Il certificato di conformità emesso da un laboratorio autorizzato deve contenere informazioni obbligatorie. Se non ci sono è molto probabile che il certificato sia contraffatto. Queste le informazioni indispensabili:

  • nome e codice numerico dell’organismo notificato che certifica;
  • nome e indirizzo del fabbricante o del mandatario;
  • tipologia di DPI;
  • riferimento alle norme tecniche considerate per la certificazione della conformità
  • data di rilascio.

Sempre nel database Nando sono presenti gli indirizzi dei siti web degli enti certificatori. Qui, solitamente, si può verificare se i certificati sono autentici e si può anche individuare il produttore della mascherina per cui è stata chiesta la certificazione, a cui poi si può scrivere un’email. Attenzione anche al QR Code di cui sono dotate alcune confezioni o imballaggi di dispositivi di protezione individuale. Questi QR Code rimandano direttamente al sito dell’ente su cui verificare la validità della certificazione.

Mascherine commercializzate in deroga

Data la “fame” di mascherine nei mesi scorsi il governo, con il decreto Cura Italia, ha consentito la vendita in deroga – solo per quanto riguarda le tempistiche di autorizzazione – di alcuni dispositivi di protezione individuale privi di marchio CE. Detto che gli standard della norma EN 149:2001 devono essere comunque rispettati anche da queste mascherine, i produttori devono inviare all’Inail la documentazione riguardo l’aderenza dei loro dispositivi a tutte le specifiche tecniche e di qualità previste attraverso l’autocertificazione. Sarà l’Inail, a questo punto, una volta analizzata la documentazione, ad autorizzarne la vendita. Sul sito dell’Inail c’è una pagina dove si può trovare l’elenco dei dispositivi di protezione individuali che hanno ricevuto il via libera.

NUOVO VADEMECUM DELLE AUTORITÀ SANITARIE PER LE MISURE ANTI COVID

Il documento, redatto dal gruppo di lavoro Iss, Ministero della Salute, Aifa e Inail, risponde a diversi quesiti sulle misure farmacologiche, di prevenzione e controllo delle infezioni da Coronavirus sorti con il progredire della campagna vaccinale contro il contagio e la comparsa delle diverse varianti del virus

Rapporto ISS Covid-19

La circolazione prolungata del virus Sars-CoV-2 e la comparsa di varianti virali, di cui solo alcune destano preoccupazione per la salute pubblica (Variant Of Concern, Voc), sono al centro di indagini per accertarne la presenza e la diffusione. Mentre la campagna vaccinale anti-Covid-19 è attualmente in corso, sono sorti diversi quesiti sulle misure di prevenzione e di controllo delle infezioni sostenute da varianti di Sars-CoV-2 sia di tipo non farmacologico sia di tipo farmacologico. Nonostante le conoscenze sulle nuove varianti virali siano ancora in via di consolidamento, vengono fornite specifiche indicazioni, basate sulle evidenze ad oggi disponibili, che possano essere di riferimento per l’implementazione delle strategie di prevenzione e controllo dei casi di Covid-19 sostenuti da queste varianti virali.





Prodotto: Volume
Edizioni Inail – 2021
Disponibilità: Consultabile solo in rete
Info: dcpianificazione-comunicazione@inail.it 

Il commento de IL SOLE 24ORE sul documento :

https://www.ilsole24ore.com/art/le-indicazioni-iss-inail-dura-cinque-mesi-l-effetto-protettivo-covid-pranzo-due-metri-distanza-ADRcTkQB

VACCINAZIONI COVID E MEDICO COMPETENTE :IL PARERE DELLA ANMA

ANMA sta analizzando la problematica della vaccinazione anti SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro, il GdL ad hoc istituito, dopo aver avuto contatti diretti con gli Assessorati alla Salute di Regione Veneto e Regione Lombardia, ha approntato le prime indicazioni sul tema, che pubblichiamo in allegato.

Come sempre chiediamo la collaborazione di tutti gli Associati nell’informarci delle iniziative territoriali delle quali sono a conoscenza o nelle quali sono coinvolti.

File Allegati:

VACCINAZIONE COVID E MEDICO COMPETENTE :IL PARERE DELLA SIML

Vaccinazione anti-COVID-19 nei luoghi di lavoro: il contributo del Medico Competente

Nel nostro Paese, trascorsi due mesi dall’avvio della campagna vaccinale anti-COVID-19, sono attualmente in discussione diverse strategie e ipotesi organizzative per l’implementazione dell’offerta, strategie che riguardano anche luoghi di lavoro diversi da quelli sanitari, in modo da consentire la più rapida somministrazione dei vaccini disponibili, con le priorità indicate dal Ministero della Salute, al fine di contrastare la diffusione del virus e, auspicabilmente, porre fine all’attuale fase di emergenza sanitaria quanto prima.

In questo contesto, tra i principali attori individuabili come partecipanti attivi al processo di informazione, programmazione e controllo dell’effettuazione dei piani di vaccinazione rientrano, a pieno titolo, i Medici Competenti (MC), come peraltro esplicitamente previsto nel Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale 2017-2019.

Testo completo a seguito, in allegato.

Vaccinazione anti-COVID-19 nei luoghi di lavoro: il contributo del Medico Competente

POLVERI SOTTILI E SCLEROSI MULTIPLA

I ricercatori del NICO – Università di Torino hanno dimostrato per la prima volta gli effetti negativi dell’esposizione al PM sulle capacità rigenerative del tessuto nervoso
Secondo l’OMS causa la morte prematura di circa 4 milioni di persone nel mondo ogni anno. Ma l’esposizione cronica ad alti livelli di polveri sottili – il famoso PM (particulate matter) – è anche associata a una prevalenza della Sclerosi Multipla in alcune popolazioni.

In particolare nei grandi centri urbani, dove i picchi di PM precedono sistematicamente i ricoveri ospedalieri dovuti all’esordio o alla recidiva di patologie croniche autoimmuni, tra cui la Sclerosi Multipla, come dimostrano numerosi studi epidemiologici. A oggi restano tuttavia da chiarire i meccanismi con cui l’esposizione al PM eserciti un effetto sul sistema nervoso centrale.

Grazie a un progetto pilota finanziato da AISM e la sua Fondazione FISM – Fondazione Italiana Sclerosi Multipla, le ricercatrici del NICO – Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi dell’Università di Torino hanno chiarito per la prima volta che l’esposizione al PM ha effetti negativi sulle capacità rigenerative del tessuto nervoso, e in particolare della mielina, il rivestimento degli assoni che – se danneggiato, come avviene nella SM – compromette la trasmissione delle informazioni fra i neuroni.
Lo studio è nato grazie alla collaborazione tra i ricercatori del NICO Enrica Boda, Roberta Parolisi, Annalisa Buffo (Gruppo Fisiopatologia delle Cellule Staminali Cerebrali), Francesca Montarolo e Antonio Bertolotto (Gruppo Neurobiologia Clinica – CRESM, Centro di Riferimento Regionale SM dell’Ospedale San Luigi Gonzaga di Orbassano, TO) con il gruppo di ricerca di Valentina Bollati dell’Università di Milano e Andrea Cattaneo dell’Università dell’Insubria.

I risultati della ricerca – pubblicati sulla rivista Neurochemistry International – dimostrano in un modello animale che l’esposizione al PM2.5 ostacola la riparazione della mielina, inibisce il differenziamento degli oligodendrociti e promuove l’attivazione degli astrociti e della microglia, cellule che di norma svolgono funzioni di sostegno per i neuroni ma che – quando attivate dal sistema immunitario come accade nella Sclerosi Multipla – contribuiscono alla neuroinfiammazione.

“Nelle prime fasi di malattia, la mielina può comunque essere riparata da cellule gliali presenti nel tessuto nervoso, chiamate oligodendrociti, il che contribuisce alla remissione – purtroppo spesso solo temporanea – dei sintomi. Le ricerche in corso nei nostri laboratori sono importanti perché permettono di capire quali fattori possono ostacolarne la riparazione – sottolinea la prof.ssa Enrica Boda del NICO, Università di Torino –  aggiungendo un tassello nella comprensione dei meccanismi di neurotossicità del PM. I nostri studi – continua – ora si focalizzano nell’identificare i meccanismi cellulari e molecolari che mediano il trasferimento del ‘danno’ dovuto all’inalazione del PM2.5 dai polmoni al sistema nervoso centrale. Riconoscere fattori di rischio ambientali modificabili – come l’inquinamento dell’aria – e i meccanismi che mediano le loro azioni può fornire informazioni importanti per prevenire le recidive della Sclerosi Multipla agendo su politiche ambientali, stile di vita e possibilmente, progettazione di nuovi strumenti di prevenzione e interventi terapeutici”. (Da università di Torino eLe scienze)

VACCINAZIONE COVID NELLE AZIENDE. SULLA CARTA CI SAREBBE L ‘ACCORDO.

Da il corriere.it

INTESA IN LOMBARDIA, VENETO E FRIULI VENEZIA GIULIA

La Lombardia getta il cuore oltre l’ostacolo e approva un protocollo d’intesa insieme con Confindustria, Confapi e l’Anma, l’associazione dei medici competenti. Altre Regioni stanno lavorando nella stessa direzione, in particolare Friuli Venezia Giulia e Veneto. Ma anche Puglie a Trentino Alto Adige. La Confindustria nazionale ha presentato un piano al governo per il coordinamento nazionale delle vaccinazioni in azienda. Inoltre, «in attesa delle determinazioni e dei protocolli specifici che la gestione commissariale straordinaria ha annunciato alle parti sociali», Confindustria ha avviato una ricognizione sull’intero sistema associativo. Le associazioni di tutto il territorio nazionale hanno ricevuto un questionario volto a identificare le imprese concretamente disponibili alla funzione di «fabbriche di comunità», quindi idonee per essere configurate come siti vaccinali e moltiplicare così quelli già attivi nel Paese.

Oltre 300-400 vaccinazioni potenziali

Tornando al protocollo lombardo, diventerà operativo quando comincerà la vaccinazione di massa. «È un allargamento ci consente di avere minore tensione sugli ospedali perché il vaccino potrebbe essere somministrato in altre strutture», dice la vicepresidente della Regione Lombardia, Letizia Moratti, ricordando che l’iniziativa non modifica la lista delle categorie che hanno la priorità, a partire dagli anziani. La delibera lombarda è stata inviata al commissario per l’emergenza Covid, il generale Francesco Figliuolo, che definirà le modalità con cui può essere applicata. «Apriamo le porte delle fabbriche per uscire più in fretta da questa emergenza — dice il presidente di Confindustria Lombardia, Marco Bonometti —. Basta chiacchiere, dobbiamo fare azioni, intervenire. I vincoli sono due: gli spazi dove fare le vaccinazioni e la disponibilità dei vaccini». E il sindacato? «Andremo nelle prossime settimane a condividere il protocollo e le modalità applicative con il sindacato come abbiamo fatto con i protocolli per la sicurezza in azienda — spiega Bonometti —. In poco tempo potremmo arrivare a vaccinare 300-400 mila lavoratori. Potremmo fare 150 mila vaccinazioni alla settimana, coinvolgendo anche i familiari dei dipendenti. Mi auguro che l’iniziativa parta subito». Per Maurizio Casasco, presidente di Confapi «coniugare salute e attività produttive è fondamentale». «Da medico cercherò di portare la mia esperienza e il mio contributo — continua Casasco — prima vacciniamo tutti meno contagi avremo e meno varianti avremo».

Tra le criticità, la conservazione dei vaccini

In realtà l’operazione “vaccinazione in azienda” ha alcune criticità da superare. Per cominciare non tutti i vaccini possono essere somministrati in fabbrica: quelli che devono essere conservati a -70 -80 gradi difficilmente possono essere utilizzati nei luoghi di lavoro. Inoltre le piccole aziende non hanno un medico competente e andrebbe quindi definita una modalità per intervenire in aree industriali con presidi logistici ad hoc. Tra i lavoratori dipendenti esistono poi categorie che aspettano con più ansia il vaccino. Tra questi i dipendenti della grande distribuzione che però non sono coinvolti da questo protocollo. «Anche Confcommercio ha manifestato l’interesse a essere coinvolta in questa sfida — ha detto l’assessore lombardo alle attività produttive Guidesi. Rassicurando i sindacati, che nei giorni scorsi avevano diffidato da fughe in avanti senza essere coinvolti: «Ci accompagneranno nella applicazione del protocollo».

Le richieste dei medici competenti

L’intesa coinvolge i cosiddetti medici competenti, quelli che si occupano della tutela della salute all’interno delle imprese. In Lombardia sono circa un migliaio. L’associazione della categoria, l’Anma, ha posto alcuni vincoli. Primo fra tutti: la volontarietà. A vaccinare, quindi, sarebbero solo i medici che si rendono disponibili. Il secondo: i medici avrebbero bisogno di una assicurazione aggiuntiva per la coperture dei rischi che possono derivare dallo svolgimento di un’attività che non è tra quelle comprese di solito tra le loro mansioni. In altre parole, i medici competenti sarebbero disponibili perché non ci sia un aggravio di spese a loro carico.

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IL NOSTRO COMMENTO

Come ho scritto nel titolo sulla carta tutto bello. A tutti noi viene la voglia di contribuire allo sforzo “bellico” nel debellare il covid. Peró analizziamo anche le criticità : È impensabile utilizzare vaccini diversi da quelli tipo Johnson e Johnson per questioni legate alla conservazione.

Altra criticità sarebbe legata alla possibilità di reperire i vaccini, avere a disposizione degli idonei locali, avere tempi sufficienti a controllare l assenza di effetti collaterali, avere a disposizione personale in grado di eseguire tutte quelle attività di registrazione digitale ed informatica della avvenuta vaccinazione. Cito il commento di un mio autorevole collega che mi ha insegnato la medicina del lavoro.. ” Guardiamo negliallegati i requisiti  e principi generali per consentire in sicurezza le operazioni vaccinali. Ben difficilmente le aziende possano sobbarcarsi tutti gli oneri previsti e i medici tutte le responsabilità previste. Una per tutte: “Il medico competente che presiede la somministrazione vaccinale assume la responsabilità di tutto il percorso vaccinale e in particolare:
– della verifica sulla corretta conduzione dell’operatività (adesione ai protocolli, applicazione
delle regole di buona pratica vaccinale, ecc.);
– della garanzia in merito all’approfondimento informativo per una consapevole adesione
all’offerta vaccinale
– del pronto intervento in caso di emergenza ed esercita ogni altra funzione che contribuisca ad
assicurare il regolare svolgimento dell’attività”.

In Lombardia ci sono 817.999 imprese a vario titolo per  4.120.113 addetti. Diviso per i 1200 circa  medici competenti vuol dire che ogni medico dovrebbe occuparsi di 680 aziende per un totale di 3433 lavoratori”

Dott. Alessandro Guerri specialista in Medicina del Lavoro

Segnalo inoltre il seguente link su “quotidiano sanità

https://www.quotidianosanita.it/regioni-e-asl/articolo.php?approfondimento_id=15869

COVID E MANIFESTAZIONI DERMATOLIGICHE

Da fondazione Veronesi

Dall’orticaria all’eritema (simile a quello del morbillo). Fino alla vasculite. Sono diversi i possibili segni della malattia da coronavirus rilevabili sulla pelle.

Non soltanto tossefebbrebronchite o polmonite. L’infezione da Sars-CoV-2, al di là dei sintomi classici, può essere la causa anche di manifestazioni a livello cutaneo. Segni che difficilmente siamo portati ad associare alla Covid-19, la malattia provocata dal coronavirus. Ma che invece possono esserne una diretta conseguenza: con manifestazioni variabili anche in base ai diversi stadi della malattia. Soltanto un’ipotesi, fino a pochi mesi fa, adesso confermata da uno studio italiano pubblicato sul Journal of the American Academy of Dermatology. Sei le possibili «spie» della malattia rilevabili sulla superficie del nostro corpo.

SE COVID-19 SI SCOPRE ATTRAVERSO LA PELLE

Si tratta dell’orticaria, di un’eruzione simile a quella che si rileva nel morbillo, di una reazione pressoché analoga a quella rilevabile nei casi di varicella, della comparsa di lesioni accostabili ai geloni, di una ecchimosi da trauma (livedo reticularis) caratterizzata dalla presenza di sangue sotto la cute e di una vasculite, con la possibile comparsa di ulcere sugli arti inferiori. Queste le manifestazioni che gli specialisti hanno registrato osservato 200 pazienti che, nella prima ondata della pandemia, sono stati curati in 21 ospedali sparsi lungo la Penisola. Registrando anche altri parametri (età, sesso, presenza di altre malattie, momento e durata dei segni cutanei) e andando a incrociare le informazioni relative all’infezione con la comparsa dei sintomi (tutti i pazienti osservati erano risultati positivi al tampone molecolare) sullo strato più esterno del corpo, i dermatologi sono giunti alla conclusione che i rilievi sulla pelle erano una diretta conseguenza della malattia.

NEI GIOVANI SOPRATTUTTO I GELONI

La durata media delle manifestazioni cutanee osservata è stata di 12 giorni. Nel caso dei geloni, però, si è arrivati a superare le tre settimane. «Inoltre, abbiamo rilevato che i geloni erano il sintomo prevalente tra i giovani ed erano associati a una manifestazione quasi sempre asintomatica del virus – afferma Angelo Valerio Marzano, dermatologo dell’ospedale Maggiore Policlinico di Milano e prima firma dello studio -. Mentre tutte le altre manifestazioni erano collegate a una forma più o meno severa». A questo proposito, altri due studi avevano dato come assunto il fatto che le lesioni della pelle più gravi fossero correlate a una forma più grave di Covid-19. Stabilendo quindi una proporzione diretta tra sintomi cutanei aggressivi e gravità della polmonite interstiziale. Una corrispondenza che invece non è emersa dalla ricerca italiana. «Non sembra esserci alcuna correlazione diretta tra la gravità della manifestazione cutanea e quella della malattia da Sars-CoV-2 – prosegue il direttore della scuola di specializzazione in dermatologia e venereologia dell’Università degli Studi di Milano -. Piuttosto, una correlazione esiste tra aumento dell’età e aumento della gravità della malattia».

TORNASOLE DELLA SALUTE 

Pur non avvertendo sintomi respiratori e ritenendosi al sicuro non avendo avuto contatti stretti con persone positive, in questa fase un’apparente orticaria, un eritema esteso, una improvvisa vasculite, ecchimosi e geloni vanno considerati possibili spie della malattia. E, secondo i ricercatori, devono indurre a fare un tampone«Lo studio conferma che la cute può essere spia di una infezione da Sars-CoV-2 – dichiara Ketty Peris, direttrice dell’unità operativa complessa di dermatologia del Policlinico Gemelli di Roma e presidente della Società Italiana di Dermatologia e Malattie Sessualmente Trasmesse (Sidemast), che ha sostenuto la ricerca -. Per questo motivo, è fondamentale controllare la nostra pelle, perché potrebbe metterci in guardia e avvisarci su quello che accade nel nostro organismo, dandoci la possibilità di muoverci in anticipo e aiutarci a fare una diagnosi precoce della malattia ed anche evitare possibili ulteriori contagi».  Articolo di Fabio Di Todaro.

MONITORAGGIO INAIL DEI SANITARI COVID POSITIVI

La pubblicazione, frutto di un lavoro tecnico di ricerca condotto dall’Inail, in collaborazione con l’ISS, è stata realizzata grazie al prezioso contributo delle regioni nella raccolta dei dati relativi al personale sanitario contagiato, consentendo di realizzare lo studio retrospettivo descritto nel volume.

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ll documento affronta il tema del contagio tra il personale sanitario che, fin dalle primissime fasi, ha svolto un ruolo cruciale nella gegtione dell’epidemia sia per la cura in prima linea dei pazienti infetti, con il conseguente maggior rischio di esposizione, sia nell’assicurare la piena implementazione delle misure di prevenzione e controllo per il contenimento del contagio. Questo ha determinato un’elevata diffusione di contagi tra gli operatori sanitari con percentuali molto elevate rispetto ai casi registrati nella popolazione generale.


Prodotto: Vomune
Edizioni Inail – 2021
Disponibilità: Consultabile solo in rete
Info: dcpianificazione-comunicazione@inail.it

PERCHÉ NON CONVIENE FARE GLI SCHIZZINOSI SUI VACCINI COVID

Da il post.it

Nonostante i vaccini contro il coronavirus finora autorizzati in Europa e negli Stati Uniti si siano rivelati tutti sicuri ed efficaci nel prevenire la COVID-19, c’è chi mostra una certa diffidenza nei confronti di alcune soluzioni rispetto ad altre. I dubbi nell’ultimo periodo hanno riguardato soprattutto il vaccino di AstraZeneca, a causa di qualche imprevisto organizzativo nella gestione dei test clinici lo scorso anno e per i dati sulla sua efficacia, che a prima vista può apparire inferiore rispetto a quella di altri vaccini come quelli di Pfizer-BioNTech e Moderna.

Gli esperti invitano a non mettere a diretto confronto vaccini che sono stati sperimentati in condizioni molto diverse tra loro, proprio perché nel farlo si rischia di farsi un’idea sbagliata. Inoltre, a prescindere dall’efficacia rilevata, in questa fase è essenziale che il maggior numero possibile di persone si vaccini e in fretta, in modo da tutelare l’intera comunità sia per quanto riguarda la riduzione del carico dei sistemi sanitari sia per prevenire la circolazione del coronavirus (non è ancora chiaro se e quanto i vaccini riducano il rischio di contagio, ma i primi dati sono incoraggianti)

Efficacia
Per valutare l’efficacia di un vaccino sperimentale, i ricercatori di solito dividono i partecipanti alla sperimentazione in due gruppi: il primo riceve il vaccino, mentre il secondo riceve una sostanza che non fa nulla (placebo). I volontari conducono normalmente la loro vita, come qualsiasi altro individuo, e realisticamente alcuni di loro entrano in contatto con l’agente che causa la malattia contro la quale si sta sperimentando il vaccino. Dopo un po’ di tempo i ricercatori raccolgono i dati su quanti volontari si siano ammalati tra i vaccinati e quanti tra quelli con il placebo.

I ricercatori calcolano poi il rapporto tra malati e sani in ciascun gruppo. Se il vaccino funziona, la percentuale di malati nel gruppo dei vaccinati è di solito inferiore rispetto a quella nel gruppo dei non vaccinati. L’efficacia indica quindi in percentuale la differenza relativa tra le due percentuali nei rispettivi gruppi (lo avevamo spiegato più estesamente qui). Se non c’è differenza tra i due gruppi, il vaccino ha un’efficacia dello 0 per cento, se nessuno dei volontari vaccinati si ammala, l’efficacia è del 100 per cento.

Efficacia nella comunità
I volontari che partecipano alle sperimentazioni sono di solito persone giovani e in salute e i test clinici sono svolti in condizioni controllate, cercando di ridurre il più possibile le variabili che potrebbero incidere sulla qualità dei risultati. Questo fa sì che l’efficacia rilevata sia spesso diversa da quella che viene poi riscontrata nella comunità, cioè nel mondo reale, una volta che il vaccino viene autorizzato e somministrato a milioni di persone.

Differenze
Le procedure seguite per organizzare i test clinici sono più o meno sempre le stesse, ma questo non significa che si possano mettere a confronto diretto test clinici diversi e per specifici vaccini: ogni sperimentazione è per molti aspetti un mondo a sé. Gli individui che partecipano al test clinico per il vaccino A sono diversi da quelli che partecipano alla sperimentazione per il vaccino B, le quantità stesse dei volontari possono cambiare, così come la loro distribuzione geografica, l’ambiente e le condizioni in cui vivono.

I vaccini di Pfizer-BioNTech e Moderna, per esempio, sono stati sperimentati per lo più negli Stati Uniti lo scorso anno, in un periodo in cui non erano ancora emerse le varianti del coronavirus di cui si è parlato molto negli ultimi mesi, e che possono rendere più contagioso il virus. Il vaccino di Johnson & Johnson è stato sperimentato più di recente negli Stati Uniti, in Sudamerica e in Sudafrica, quindi in contesti molto diversi e soprattutto in una fase in cui avevano iniziato a diffondersi alcune varianti. Per questo il vaccino ha fatto riscontrare un’efficacia del 57 per cento in Sudafrica dove stava circolando una variante, mentre negli Stati Uniti ha fatto rilevare un’efficacia del 72 per cento.

Il vaccino di AstraZeneca è stato sperimentato lo scorso anno in diversi paesi come il Regno Unito, il Brasile e il Sudafrica, anche in questo caso in condizioni diverse tra loro. I ricercatori hanno inoltre ritenuto utile provare vari scenari, per valutare tempi e dosaggi per ottenere migliori risultati dal punto di vista dell’efficacia. Questa strategia ha comportato qualche imprevisto, legato per esempio a un iniziale errore nei dosaggi per i volontari, e non ha permesso di avere dati affidabili sull’efficacia del vaccino negli individui con più di 65 anni. I dati raccolti nella comunità sono comunque incoraggianti e indicano una marcata protezione anche per i più anziani, secondo alcune analisi preliminari.

Oltre a essere stati sperimentati in modo diverso, i vaccini finora autorizzati utilizzano principi diversi di funzionamento. Quelli di Pfizer-BioNTech e di Moderna sono a base di RNA messaggero, un sistema relativamente nuovo e che fino alla pandemia non era stato sperimentato su così larga scala, mentre quello di AstraZeneca utilizza un virus sostanzialmente innocuo (adenovirus) che viene modificato per insegnare al sistema immunitario a riconoscere il coronavirus, in modo da bloccarlo nel caso in cui si venisse contagiati.

Percentuali
I vaccini di Pfizer-BioNTech e di Moderna hanno fatto rilevare un’efficacia intorno al 95 per cento nei test clinici nel prevenire la COVID-19, mentre il vaccino di AstraZeneca ha raggiunto il 62 per cento.

Leggendo i due dati si può pensare che i due vaccini oltre il 90 per cento siano migliori rispetto a quello di AstraZeneca, ma non è necessariamente così. Tra gli scopi principali di un vaccino contro la COVID-19 c’è quello di evitare che si sviluppino sintomi gravi, che potrebbero rendere necessario un ricovero in ospedale o causare la morte. Insomma, non è tanto importante che il vaccino impedisca in assoluto di ammalarsi di COVID-19, ma che impedisca di avere una forma grave e altamente rischiosa della malattia.

Su questo ultimo punto, non c’è praticamente differenza tra i vaccini di Moderna, Pfizer-BioNTech, Johnson & Johnson, e AstraZeneca: proteggono tutti quasi al 100 per cento dalle forme gravi di COVID-19. Dai dati finora disponibili, il vaccino di AstraZeneca sembra essere inoltre in grado di farlo meglio di altri a tre settimane dalla somministrazione della prima dose (le differenze non sono comunque marcate, parliamo di pochi punti percentuali).

(JAMA)

Non quale, ma quando
Immunologi ed epidemiologi segnalano inoltre come in questa fase non sia importante quale vaccino ricevere, naturalmente tra quelli verificati e autorizzati, ma riceverne uno il prima possibile. Vaccinare il maggior numero di persone è ciò che può fare la differenza in questa fase, non una percentuale sull’efficacia diversa da un’altra.

Negli Stati Uniti, un gruppo di ricercatori ha sviluppato un sistema per simulare che cosa accadrebbe con vaccini dalla diversa efficacia, somministrata a velocità e tempi diversi. Nella maggior parte delle simulazioni, l’impiego di un vaccino “meno efficace” da subito disponibile consente di ridurre molti più casi di COVID-19, ricoveri e morti rispetto all’utilizzo di un vaccino con un’efficacia più alta, ma che rende necessari tempi di attesa più lunghi.

Bruce Y. Lee, uno degli autori della ricerca, lo ha spiegato chiaramente pochi giorni fa in un articolo sul New York Times:

Ipotizziamo che gli Stati Uniti siano in grado di vaccinare un milione di persone al giorno, con un vaccino efficace al 90 per cento (un po’ quello che è successo finora) e che continuino fino al raggiungimento del 60 per cento di popolazione vaccinata. A questo ritmo, occorrerebbero circa sei mesi e mezzo.
Ora consideriamo uno scenario dove le persone sono vaccinate a un ritmo più alto pari a 1,5 milioni di vaccinazioni al giorno con un vaccino meno efficace, intorno al 70 per cento, e fino al raggiungimento del 60 per cento della popolazione vaccinata. A questo ritmo più veloce, ci vorrebbero circa quattro mesi.
Abbiamo notato che quest’ultimo scenario potrebbe prevenire in media 1,38 milioni di nuovi casi positivi, oltre 51mila ricoveri e più di 6.000 morti rispetto allo scenario con una vaccinazione più lenta, ma con un vaccino più efficace.

Il vaccino di Johnson & Johnson potrebbe dare un contributo determinante nell’accelerare le vaccinazioni, perché richiede una sola somministrazione rispetto agli altri vaccini contro il coronavirus. La soluzione di Johnson & Johnson è stata autorizzata negli Stati Uniti lo scorso fine settimana e dovrebbe ricevere un’autorizzazione di emergenza nell’Unione Europea entro la metà di marzo.

Quindi?
Finora in tutto il mondo sono stati somministrati circa 250 milioni di dosi di vaccini, per lo più di Pfizer-BioNTech, Moderna e AstraZeneca, i vaccini autorizzati anche nell’Unione Europea e impiegati in Italia, che si stanno rivelando sicuri ed efficaci nel prevenire forme gravi e potenzialmente letali di COVID-19. La loro disponibilità è ancora limitata e per questo le autorità sanitarie invitano a non sprecare nemmeno una dose; i governi si sono dovuti impegnare, singolarmente o collettivamente come nell’Unione Europea, a gestire gli acquisti e le somministrazioni a seconda delle fasce di età e dei rischi che corrono.

In questa fase, considerare un ripiego l’utilizzo di un vaccino rispetto a un altro sarebbe un errore, che pagherebbe non solo chi rifiuta di vaccinarsi esponendosi a inutili rischi, ma anche le comunità che ormai da un anno fanno i conti con dolorosi lutti, sacrifici, forti limitazioni e difficoltà economiche.

Articolo di Emanuele Menietti

MEDICO COMPETENTE JOURNAL – ARCHIVIO 2020

La società Anma da molti anni promuove importanti incontri scientifici sulla medicina del lavoro e sulla professione di medico competente anche attraverso consigli operativi pratici . la rivista Medico Competente Journal è un valido strumento di aggiornamento professionale

Segnalo particolarmente nel n4/2020 la circolare del ministero della salute sulla gestione del primo soccorso in tempi di epidemia Covid

Il primo soccorso al lavoro durante la pandemia da COVID-19

La pandemia ha reso necessario di cambiare anche il modo di fare il Primo Soccorso nei luoghi di lavoro, un’attività che deve ora sempre svolgersi nel rispetto delle necessarie misure di sicurezza anticontagio.

Le società scientifiche internazionali (Ilcor, ERC, American Heart Association) hanno prodotto specifiche linee guida su come organizzare il Primo Soccorso nella pandemia, ed anche il nostro Ministero della Salute ha dato indicazioni in proposito con la Circolare n. 21859 datata 23 giugno 2020.

Noi abbiamo voluto contribuire, predisponendo questo breve materiale informativo illustrato, realizzato con la collaborazione dell’Ente Bilaterale del Turismo e dell’Ente Bilaterale del settore Terziario della Provincia di Venezia.

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