INQUINAMENTO

LE SOSTANZE PERICOLOSE CHE POSSIAMO BERE DALLE BOTTIGLIE DI PET

da ilfattoquotidiano

Tra le varie tipologie di plastiche usate nella nostra quotidianità, quella impiegata per fabbricare bottiglie per acqua minerale, bevande analcoliche, succhi di frutta e latte – il polietilene tereftalato o PET – è da sempre considerata la più nobile. L’elevata trasparenza, la facilità di lavorazione nei cicli industriali, unite alla sua economicità, l’hanno reso il terzo tipo di polimero più impiegato al mondo per gli imballaggi monouso.

Eppure anche il PET, come tutte le altre plastiche, può essere fonte di sostanze chimiche pericolose per la salute umana che dalla bottiglia possono finire nel liquido alimentare che beviamo. Lo ha messo in evidenza, in uno studio pubblicato nelle scorse settimane sul Journal of Hazordous Materials, un gruppo di ricercatrici e ricercatori inglesi, statunitensi e italiani.

Passando in rassegna la letteratura scientifica specializzata, gli esperti hanno evidenziato che centocinquanta sostanze possono essere rilasciate dal contenitore nelle bevande. E, in diciotto casi, per alcune di esse sono stati rilevati livelli di contaminazione che eccedevano le soglie di sicurezza per la salute umana fissate a livello europeo.

Ci sono numerose variabili che aumentano il rischio di contaminazione: le condizioni di conservazione, l’esposizione alle alte temperature e alla luce solare (e ai raggi UV), il ricorso a bottiglie piccole e meno spesse. Anche la lodevole azione di riempire più volte la stessa bottiglia, che molti di noi possono aver fatto per ridurre lo spreco di plastica, può rivelarsi una scelta non sempre sicura.

Tra le sostanze indesiderate compaiono aldeide e formaldeide, entrambe secondo la IARC (l’Agenzia internazionale delle Nazioni Unite per la Ricerca sul Cancro) correlate ad alcune forme di tumore. A cui si aggiungono alcuni interferenti endocrini, la cui presenza è accidentale visto che non vengono impiegati nel processo di fabbricazione del PET. Tra questi i più tristemente famosi sono gli ftalati e il bisfenolo A, che causano serie conseguenze sul metabolismo, la fertilità, lo sviluppo sessuale e cerebrale. Anche l’antimonio, un metallo utilizzato nella produzione della plastica per le bottiglie e collegato a diverse patologie per l’essere umano, può essere ceduto dal contenitore alla bevanda. E, come evidenziano alcuni studi, i livelli di contaminazione di questo metallo possono essere maggiori in presenza di materiale riciclato: una soluzione a cui bisognerà ricorrere sempre di più nei prossimi anni in base a quanto stabilito nella direttiva europea SUP.

Per ridurre i rischi, gli studiosi raccomandano di intervenire sul design, prestando particolare attenzione a etichette e inchiostri, che sono spesso fonte di sostanze chimiche; accertarsi che le condizioni di conservazione siano ottimali; introdurre sistemi di “super pulizia” per la plastica proveniente dal riciclo. Bisognerebbe infine adottare sistemi di raccolta specifici per queste tipologie di contenitori, come i sistemi di deposito cauzionale adottati già da diversi anni in molte nazioni europee. Un sistema che dovrebbe vedere la luce anche in Italia, dando seguito a un emendamento approvato nel Decreto Semplificazioni e che ancora non è stato tradotto in realtà dai ministeri competenti.

È tuttavia evidente che per ridurre al minimo il rischio derivante da questa roulette chimica possiamo sempre scegliere di bere l’acqua di rubinetto: un’alternativa alla portata di tutti e quasi ovunque sicura nel nostro Paese.

LIMITI EMISSIONI DI AMMONIACA NEGLI ALLEVAMENTI: FA DISCUTERE UNA PROPOSTA DELLA COMMISSIONE EUROPEA

da il fatto quotidiano

Fa discutere la proposta della Commissione europea di rivedere la direttiva sulle emissioni industriali, includendo per la prima volta gli allevamenti intensivi di bovini tra gli impianti che devono ottenere specifiche autorizzazioni ambientali e che devono rispettare limiti ben precisi sulle emissioni. Al pari di centrali elettriche, impianti di trattamento dei rifiuti e aziende chimiche.Si chiede, inoltre, di rendere più stringenti anche le regole per gli allevamenti di suini e pollame. Di questi, infatti, solo quelli di maggiori dimensioni sono soggetti alla direttiva varata nel 2010 e attualmente in vigore. La norma così modificata, invece, si applicherebbe non solo agli impianti con 150 ‘unità di bovino adulto’ (Uba), ma anche a quelli con spazi per 375 vitelli, 500 suini o 300 scrofe e 10mila galline ovaiole.

Immediata la reazione di Confagricoltura. “La Commissione europea continua a manifestare un orientamento punitivo nei confronti degli allevamenti – ha commentato il presidente Massimiliano Giansanti – mentre i capi di Stato e di governo hanno chiesto di aumentare la sicurezza alimentare”.

La proposta della Commissione Ue – Oggi sono soggette ai vincoli della direttiva, tra gli allevamenti intensivi, solo le aziende con spazio per più di 40mila polli, 2mila maiali o 750 scrofe che, già oggi, devono ottenere permessi, monitorare e ridurre le emissioni di tutte le sostanze inquinanti emesse, compresi i gas serra. In una bozza del piano circolata nei giorni scorsi, si prevedeva di andare anche oltre, fissando la soglia a 100 unità di bovino adulto, poi aumentata in seguito alle pressioni delle lobby del settore agricolo. La stessa Commissione ha calcolato che fissare la soglia a 100 Uba avrebbe portato a benefici per la salute per oltre 7,3 miliardi di euro all’anno, grazie alla riduzione delle emissioni di metano e ammoniaca. Benefici che, stando alla nuova proposta, sono stimati in 5,5 miliardi di euro, ossia 1,8 miliardi di euro all’anno in meno. In seguito alla presentazione di questa proposta i Paesi membri e il Parlamento Ue dovrebbero iniziare i negoziati sul dossier prima dell’estate, guidati dalla Commissione Ambiente e salute al Parlamento europeo e dai ministri dell’Ambiente al Consiglio.

Greenpeace: “È il minimo indispensabile” – ”Ridurre l’inquinamento degli allevamenti intensivi è essenziale per affrontare gli impatti su clima e biodiversità, per risparmiare miliardi di soldi pubblici riducendo i costi sanitari e ambientali ad essi connessi e per iniziare una transizione verso sistemi alimentari più sostenibili”, spiega Federica Ferrario, responsabile della campagna Agricoltura di Greenpeace Italia. “È ora di rispettare il principio ‘chi inquina paga’ invece di scaricare i costi sulla collettività”, aggiunge Ferrario, secondo cui “sottoporre a idonee autorizzazioni attività inquinanti come gli allevamenti intensivi è il minimo indispensabile”. Non si tratta solo di clima e perdita di biodiversità, ma anche di impatti negativi su qualità dell’acqua, dell’aria e del suolo, oltre a incidere pesantemente sul clima e sulla perdita di biodiversità. Secondo il Centro comune di ricerca della Commissione europea (JRC), il settore zootecnico è responsabile dell’80% delle emissioni di ammoniaca nell’aria e di azoto nell’acqua, mentre l’European Nitrogen Assessment stima che l’inquinamento da azoto costi, ogni anno, all’Unione europea fino a 320 miliardi di euro.

Confagricoltura: “Allevamenti a rischio” – A fare i conti sugli effetti che tale modifica della direttiva potrebbe avere sugli allevamenti è Confagricoltura. “Attualmente solo il 5% degli allevamenti avicoli e suinicoli delle strutture attive negli Stati membri rientra nella sfera di applicazione della direttiva in questione”, ricorda Giansanti, calcolando che sulla base delle proposte della Commissione “si salirebbe al 50%”, senza considerare l’estensione agli allevamenti di bovini. “Rischiamo un taglio di produzione a livello europeo – commenta – aprendo così la strada a maggiori importazioni da Paesi terzi dove le regole sono meno rigorose di quelle valide nell’Ue, anche ai fini della sostenibilità ambientale”.

Il decreto sul benessere animale – Tutto questo avviene mentre in Italia fa discutere l’iter per l’approvazione di un sistema di etichettatura nazionale sul benessere animale che, secondo gli ambientalisti è “privo degli standard che permettano di garantire un maggiore rispetto degli animali allevati a scopo alimentare e fraudolento per i consumatori”. Quattordici le associazioni che aderiscono alla coalizione #BugieInEtichetta e che sono in prima linea contro la proposta portata avanti dai ministeri delle Politiche Agricole e della Salute con Accredia. Il decreto prevede la certificazione con il claim in etichetta ‘benessere animale’ anche per prodotti, denunciano le associazioni, provenienti da animali allevati secondo standard al ribasso, tipici delle forme di allevamento intensivo. Tra le modifiche principali che si chiede di apportare al decreto l’introduzione di più livelli (di cui almeno due al coperto) diversificati per ogni specie chiaramente visibili in etichetta, la cancellazione di riferimenti non attinenti al benessere animale e la considerazione dei bisogni etologici di specie, della densità di animali (incompatibili con i sistemi di allevamento intensivo) e delle condizioni di trasporto tra i criteri atti a determinare il benessere animale. “Mai come in questo momento – scrive la coalizione – in cui la grande richiesta di cereali da parte degli allevamenti intensivi rischia di compromettere ulteriormente il sistema agroalimentare europeo già minacciato dalla guerra e dai cambiamenti climatici, servirebbero misure che spingano gli allevatori ad abbandonare i sistemi intensivi, per scegliere metodi più rispettosi degli animali e dell’ambiente”.

AMIANTO : UN KILLER ANCORA SILENZIOSO

All’esposizione all’amianto sono attribuibili, in media, 4.410 decessi l’anno, 4.410 decessi l’anno. Rispetto al totale, 1.515 sono stati i decessi per mesotelioma maligno, 58 per asbestosi, 2.830 per tumore polmonare e 16 per tumore ovarico. Questi i principali dati Istat, illustrati da Lucia Fazzo, del dipartimento Ambiente e salute dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss), nel convegno “Amianto e Salute: priorità e prospettive nel trentennale del bando in Italia”, organizzato dal ministero della Salute. Per affrontare il tema, ha detto il ministro della Salute Roberto Speranza, «serve sintonia inter-istituzionale, non basta il governo nazionale, abbiamo bisogno di una rete con le regioni, con i comuni e le istituzioni della ricerca». La pandemia e anche la questione dell’amianto confermano che «la strategia di fondo che deve accompagnare le politiche sanitarie future è One health, ovvero deve considerare la salute dell’uomo, degli animali e dell’ambiente come un’unica cosa, sono imprescindibilmente connesse».

Le stime, elaborate a partire dai dati Istat, mostrano che nel periodo 2010-16 «ci sono stati in Italia 7.670 decessi per mesotelioma, dei quali 2.947 tra le donne, con un tasso pari a 3,8 per 100.000 tra gli uomini e 1,1 per 100.000 tra le donne: tassi abbastanza elevati a livello mondiale. Le regioni con un tasso più elevato di quello nazionale si confermano Liguria, Piemonte, Lombardia e Friuli-Venezia Giulia». Rispetto all’andamento temporale dei decessi per mesotelioma, ha proseguito Fazzo, «nel 2012 si è osservato un picco rispetto agli anni precedenti, che continua a mantenersi elevato, anche se con oscillazioni». Su questi numeri «ci può essere una sottostima, ma c’è concordanza con quelli del Registro Nazionale Mesoteliomi (Renam)». Dal 2010 al 2016, «per asbestosi, sono stati registrati complessivamente 361 decessi tra gli uomini e 44 tra le donne». Nello stesso arco di tempo, per tumore al polmone dovuto ad amianto, «sono stati registrati circa 2.700 decessi l’anno per gli uomini e 112 per le donne (pari a circa l’8% dei tumori al polmone). Per tumori dell’ovaio la stima parla di circa 16 casi all’anno». Sono numeri, ha concluso Fazzo, evidenziano un «rilevante carico di malattia a distanza di 17-25 anni dalla legge, tale da richiedere interventi adeguati in sanità pubblica, anche per i soggetti ancora a rischio di esposizione».

Nel 1992, anno di entrata in vigore della legge 257/92, che mise al bando l’uso dell’amianto in Italia, «si partiva da oltre 31 milioni di tonnellate di amianto da rimuovere in Italia. Da allora ne sono state rimosse 8 milioni e rimangono 23 milioni di tonnellate da rimuovere, soprattutto rappresentate dal compatto». Lo ha detto Mariano Alessi, dirigente presso la direzione generale della Prevenzione sanitaria del ministero della Salute. Tale normativa «ha aperto la strada rispetto a un terreno in larga parte del globo inesplorato.

Noi siamo ancora una sparuta minoranza: tre quarti dei paesi del mondo non ha una legislazione simile a quella di cui ci siamo dotati 30 anni fa; quindi, dovremo ancora lavorare con Oms e Nazioni Unite affinché iniziative simili possano essere estese a luoghi e posti distanti da noi», ha dichiarato Speranza. Per il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss) Silvio Brusaferro, «Quella dell’amianto è una storia di sanità pubblica importante, da cui possiamo imparare. Una storia che non è finita deve proseguire e arrivare a contaminare anche altri Paesi, in cui questa problematica non è stata affrontata in modo sistematico». «Per rimuovere 23 tonnellate di amianto in 10 anni servirebbero 173.000 bonificatori; in 30 anni 57.000 bonificatori. Attualmente – ha rilevato Alessi – i bonificatori sono 29.000. È importante anche fare questo tipo di stime». Numeri che mostrano come evidenziano le slide mostrate, una «carenza di risorse umane e finanziarie». In questo contesto, ha concluso Alessi, è importante sollecitare l’Inail ad avere un ruolo operativo, riallacciare una serie di azioni che veda partecipi tutti i soggetti interessati e «recuperare il confronto del tavolo inter istituzionale presso la Presidenza del Consiglio e conseguire così i risultati attesi».

Da doctor33.it

GLI FTALATI NEGLI AMBIENTI DI VITA E DI LAVORO

Gli ftalati rappresentano un gruppo di molecole strutturalmente simili, ampiamente utilizzate a partire dal 1930 a livello industriale come agenti plastificanti, solventi in cosmetici e numerosi manufatti di uso quotidiano.

Proprio l’utilizzo così diffuso ne ha mostrato, con maggiore chiarezza, le caratteristiche di pericolosità legate al sistema endocrino. Viene proposto un inquadramento della gestione normativa, la caratterizzazione del rischio per la salute e l’identificazione dei contesti lavorativi potenzialmente coinvolti da questa esposizione.




Prodotto: Fact sheet
Edizioni: Inail – 2021
Disponibilità: Consultabile solo in rete
Info: dcpianificazione-comunicazione@inail.it

Da Inail.it

LA PROGETTAZIONE ACUSTICA DEGLI AMBIENTI DI LAVORO

Nel presente manuale si vogliono dare elementi per la progettazione dei nuovi ambienti di lavoro e delle modifiche agli ambienti esistenti con un approccio innovativo al controllo del rumore negli ambienti di lavoro, che vada oltre il mero rispetto dei limiti acustici e consideri i contesti culturali e funzionali degli spazi

regolamentati.

Immagine Corretta progettazione acustica di ambienti di lavoro industriali e non. Manuale operativo

Con particolare riferimento all’esposizione al rumore dei lavoratori, l’evoluzione che ha subito il luogo di lavoro, in termini di nuove attività di lavoro e conseguente modifica del contesto lavorativo, in aggiunta a una diversa e maggiore sensibilità verso le tematiche del benessere psicofisico, ha reso necessario procedere all’evoluzione e l’aggiornamento delle procedure di analisi e progettazione acustica dei luoghi di lavoro. Ne deriva che negli ambienti di lavoro, così definiti, la progettazione degli elementi di funzionalità e di sicurezza può essere contemporanea e integrata con la progettazione delle fonti di benessere percepito.


Prodotto: Volume
Edizioni: Inail – 2021
Disponibilità: Consultabile solo in rete
Info: dcpianificazione-comunicazione@inail.it

Da Inail it

NUOVE TECNOLOGIE PER RIDURRE L’INQUINAMENTO

Combustione ‘a zero diossine e NOx termici’, bioplastica avanzata da reflui industriali e super assorbente completamente biodegradabile.

Tre soluzioni tecnologiche avanzate per ridurre l’impatto ambientale di materiali e processi sono state presentate al Forum internazionale sull’economia dei rifiuti, promosso dal consorzio PolieCo, dal professor Alessandro Sannino, docente di Scienze e tecnologie dei materiali all’Unisalento e al Mit – Boston.

Sannino è intervenuto al panel su ‘Ricerca e innovazione tecnologica per lo sviluppo sostenibile’ coordinato dal presidente Anvur Antonio Felice Uricchio. Ad aprire i lavori, la sottosegretaria all’Innovazione tecnologica e alla Transizione digitale Assuntela Messina: “Siamo in una fase di grandi cambiamenti ed in questo momento di trasformazione, l’atto di responsabilità deve proiettarsi in scelte informate e consapevoli. E’ giusto lavorare sul cambio di paradigma di comportamento a livello produttivo e non solo con sostenibilità, equità e di eticità. Transizione ecologica vuol dire un’idea di sviluppo che può essere sorretta anche dall’innovazione tecnologica e digitale”. Inoltre, ha aggiunto ha aggiunto Luigi Nicolais, professore emerito di Scienza e tecnologia dei materiali presso l’Università Federico II di Napoli e presidente Materias che “La rivoluzione verde richiede tutto un altro approccio della ricerca anche nella progettazione bisogna pensare al riciclo del prodotto nell’ottica di una biocompatibilità non più rinviabile, ripensando le strategie di produzione, di consumo e di fine vita”. Infine, Alessandro Manzardo, assistant professor presso il Dipartimento di Ingegneria industriale dell’Università di Padova e fondatore di Spinlife, che ha supportato il Polieco nel percorso per l’ottenimento del Marchio made green in Italy per le borse multiuso in polietilene, ha sottolineato: “Sostenibilità ambientale significa competitività di impresa ed innovazione tecnologica e per farlo bisogna misurare le performance ambientali attraverso alla riconsiderazione della vita del prodotto”.

La tecnologia di Ossicombustione

ITEA, società del Gruppo Sofinter, ha sviluppato l’innovativa tecnologia FPO, la “Ossi-combustione Pressurizzata senza fiamma”, che innova i fondamentali della combustione, sviluppando un combustore completamente “iso-termo” ad alta temperatura, uniforme e senza zone fredde. La combustione non è più una fiamma, intrinsecamente caotica, ma volumetrica, in condizioni localmente controllate. L’assenza di zone “fredde” impedisce (letteralmente) la formazione di diossine da un lato, e l’assenza di picchi azzera gli NOx termici. I residui parzialmente combusti (soot e IPA) sono azzerati, il CO appena presente in quantità trascurabile nell’ordine di 1 – 2 ppm. La conversione delle sostanze combustibili risulta così quantitativa in CO2 e H2O. L’alta ed uniforme temperatura fonde le ceneri (incombustibili), soggette a coalescenza e separazione quantitativa nel combustore, che inglobano i metalli pesanti volatili. Diventano perle vetrificate, senza residui di incombusti e con i metalli pesanti sotto forma di ossidi misti, a zero leaching, totalmente inerti, e che hanno già ricevuto la qualifica di “End of Waste” (D.Lgs 152/06).


Dal combustore esce un gas già largamente al di sotto dei limiti di legge, composto da vapor d’acqua e CO2, quest’ultima recuperabile pura con costi molto bassi. Tale tecnologia costituisce un “unicum” nel panorama tecnologico, dimostrando validità per qualsiasi tipo di combustibile gas, liquido, solido. E’ stata protetta con 10 brevetti, sui quali la Presidenza del Consiglio ha esercitato la ‘Golden Power’ nel 2020, e sono in corso collaborazioni con i più importanti player di settore.
Ha diverse applicazioni (e.g. Bonifiche Siti di interesse Nazionale, chiusura ciclo dei Rifiuti di Origine Urbana, fine linea per Rifiuti Industriali, per le quali ha ottenuto il riconoscimento europeo di BAT (Best Available Technology).

La tecnologia ‘Eggplant’

Lo smaltimento di reflui industriali e l’inquinamento di materie plastiche a base idrocarburi sono problemi cruciali ed attuali. Allo stesso tempo, le attuali plastiche biodegradabili sono prodotte a partire da materie prime food-related (e.g. mais, vegetali, zucchero di canna), entrando in competizione con la catena alimentare. La tecnologia di Eggplant, start up specializzata nel settore, trasforma entrambi i problemi in un’opportunità, producendo una avanzata bioplastica (PHA, poliidrossialcanoati) da reflui industriali, con elevate performances meccaniche e termiche, ispirandosi ai principi di biomimetica e di blue economy, mediante un processo di filtrazione tangenziale seguita da una fermentazione batterica che metabolizza le frazioni zuccherine producendo PHA. Si ottengono poi sottoprodotti ad alto valore aggiunto (acqua pura, proteine, polifenoli, ecc.); una resa superiore rispetto allo stato dell’arte, ridotti (-75%) volumi di fermentazione; riproduciblità. Tutto ciò ottenendo un prodotto che può essere processato sugli attuali impianti di produzione delle plastiche fossili, e con caratteristiche ad essi equivalenti. La proprietà intellettuale è protetta in oltre 50 Paesi e sono state avviate collaborazione con importanti industrie alimentari per il trattamento dei rifiuti e la produzione di bioplastiche.

I polimeri superassorbenti biodegradabili

I polimeri superassorbenti, principalmente ottenuti da poliacrilati di sodio, hanno ampia applicazione industriali come prodotti assorbenti per l’igiene personale (e.g. pannolini), rilevante percentuale dei rifiuti solidi urbani. Una ricerca, avviata al Dipartimento di Ingegneria dei Materiali dell’Università di Napoli ‘Federico II’, poi confluita in una start up biotecnologica (Gelesis, Inc.) per altri fini, ha consentito di ottenere un superassorbente completamente biodegradabile, a base di derivati della cellulosa, in tutto equivalente ai prodotti acrilici attuali. Ulteriori applicazioni sono nel trattamento dei rifiuti sanitari ed industriali, in campo agricolo, per il rilascio continuo di umidità e/o sostanze nutritive. In generale possono essere usati anche per l’azione di soil remediation additivandoli con sostanze e/o batteri in grado di utilizzare determinati inquinanti trasformandoli in composti innocui. Fra gli altri usi vi è anche quello della separazione/rimozione di oli o altri inquinanti da acqua che possono rimuovere o se hanno caratteristiche oleofile o tramite la rimozione dell’acqua per assorbimento. (Articolo originale di Maria Teresa Perrotta da cronachedi)

DOSAGGIO PSA NELLE DONNE ED INQUINAMENTO

Il dosaggio del Psa, indicatore di una patologia prostatica del maschio, nella donna può invece indicare un rischio da inquinamento ambientale. 

L’antigene prostatico specifico, meglio conosciuto con appunto con l’acronimo Psa, proteina (callicreina 3, KLK3) sintetizzata dalle cellule della prostata e misurato nel sangue del maschio per valutare patologie prostatiche ed in particolare il rischio di cancro alla prostata, secondo uno studio appena pubblicato (Int. J. of Environmental Research and Public Health – Pubmed) può rappresentare un indicatore precoce di danno ambientale. La scoperta è il frutto di un lavoro tutto campano nell’ambito del progetto di ricerca EcoFoodFertility (www.ecofoodfertility.it) coordinato da Luigi Montano, UroAndrologo dell’Asl di Salerno e presidente della Società italiana di Riproduzione umana. 

Un progetto che da anni studia nei territori inquinati e in Terra dei Fuochi, indicatori precoci e predittivi di danno alla salute non solo riproduttiva. Finora era stato il seme maschile il principale sensore sentinella della qualità ambientale e generale. Ora è stato scoperto come il Psa dosato nel sangue delle donne, possa rappresentare invece un marcatore di danno ambientale. 

Fino a pochi anni fa – avverte – dichiara Salvatore Raimondo – primo autore dello studio, responsabile del Laboratorio di ricerca Gentile di Gragnano  – si riteneva che il Psa nel sangue delle donne fosse assente ma con l’avvento di Kit diagnostici più sensibili si è dimostrata la sua presenza in determinate malattie (tumore seno, colon ecc.) ed è stata individuata la sede della sua produzione nelle ghiandole di Skene (omologhe della prostata), ghiandole parauretrali dell’apparato genitale femminile esterno, capaci di secernere tale marcatore». 
Nello studio, secondo il disegno del progetto EcoFoodFertility, sono state reclutate 119 ragazze omogenee per età e stili di vita provenienti dall’area della Terra dei Fuochi ad alto inquinamento ambientale e dall’area sud di Salerno “Valle del Sele e parco del Cilento” a basso tasso di inquinanti. Il Psa è stato dosato in tre periodi ben precisi del ciclo mestruale (fase follicolare, fase ovarica e fase luteinica) ed è emersa una variabilità significativa, tra i due gruppi di ragazze. In sintesi, nelle ragazze residenti nell’area inquinata è stata evidenziata una scarsa oscillazione del Psa nelle tre fasi del ciclo mestruale, con valori in assoluto più alti e con un picco opposto in fase ovulatoria rispetto alle ragazze residenti nell’area del salernitano». 

Toxic pollutants inside the human body and eating pollutants as an open mouth ingesting industrial toxins with 3D illustration elements.

«I cambiamenti da noi riscontrati, durante le fasi del ciclo mestruale – spiega Montano – in donne residenti in aree a diverso impatto ambientale, suggeriscono che il Psa possa avere un ruolo oltre le funzioni descritte da altri autori nei processi antimicrobici, desquamazione epiteliale genitale e cervicale, e trasporto degli spermatozoi». «Il nostro lavoro è quindi destinato ad aprire uno scenario per uno studio più allargato – commenta Marina Piscopo, biologa molecolare dell’Università Federico II di Napoli, coautrice dello studio». 


«Come il seme maschile – conclude Luigi Montano – con il progetto EcoFoodFertility sul fronte maschile sta fornendo sempre più conferme come precoce indicatore di danno alla salute da inquinamento ambientale, scoprire un possibile indicatore al “femminile” con tale potenzialità, da confermare ora con campionamenti più estesi, rappresenta il completamento del progetto che punta proprio a suggerire i biomarcatori riproduttivi come nuovi strumenti di valutazione di impatto ambientale utili ai policy makers per avviare modelli innovativi per la sorveglianza sanitaria, la prevenzione primaria, integrando le politiche di sanità pubblica in particolare nelle aree a maggiore inquinamento».  Da il Mattino

PURIFICATORI D’ARIA EFFICACI CONTRO IL COVID

Da dottnet.it

Ricercatori australiani hanno dimostrato che purificatori d’aria economici e portatili sono uno strumento efficace e pratico per limitare la diffusione di Covid-19 tramite aerosol negli ospedali, potrebbe essere considerato per gli hotel di quarantena e altri ambienti sanitari. Pubblicato sulla rivista ‘Infection Control and Hospital Epidemiology’, lo studio ha tracciato il flusso d’aria e il movimento delle particelle aerosolizzate in un reparto Covid-19 del Royal Melbourne Hospital.

Purificatore d'aria, i migliori sul mercato per eliminare germi, virus e  odori

Usando due piccoli purificatori d’aria in una singola stanza di un paziente di un reparto dell’ospedale, lo studio ha rilevato che del 99% di aerosol può essere neutralizzato entro cinque minuti e mezzo. L’aria che circolava fuori dalla stanza del paziente portava molto meno aerosol e si riduceva quindi anche il rischio di infezione per il personale nelle aree cliniche circostanti. Lo studio è stato motivato dall’elevato numero di personale sanitario che si era contagiato in quell’ospedale durante la seconda ondata di pandemia a Melbourne a metà del 2020. Un totale di 271 operatori sanitari avevano contratto l’infezione di Covid-19 con inchieste che suggeriscono che la maggior parte di questi contagi erano avvenuti in strutture sanitarie.

Scientific research shows customised innovations can reduce the risk

La responsabile dello studio Kristy Buising, responsabile del servizio malattie infettive nell’ospedale stesso, scrive che i purificatori d’aria rimuovono gli aerosol prima che possano uscire dalla stanza del paziente, ma sono stati testati per vedere se proteggevano il personale sia all’interno che all’esterno. Utilizzando solo due piccoli purificatori d’aria portatili in una singola stanza di paziente, lo studio indica che il 99% dell’aerosol può essere rimosso entro 5 minuti e mezzo. Per lo studio è stato utilizzato un aerosol a base di glicerina come surrogato per gli aerosol respiratori, ed è stata misurata la trasmissione da un’unica stanza di paziente ai corridoi ed a una postazione infermieri nel reparto.

SANIFICAZIONE DEGLI AMBIENTI DA SARS-2-COV GLI ULTIMI AGGIORNAMENTI

Nuove raccomandazioni sulla sanificazione di strutture non sanitarie nell’emergenza COVID-19

Nuove raccomandazioni sulla sanificazione di strutture non sanitarie nell’emergenza COVID-1

Le nuove “Raccomandazioni ad interim sulla sanificazione di strutture non sanitarie nell’attuale emergenza COVID-19: ambienti/superfici” aggiornano le precedenti indicazioni dell’Istituto Superiore di Sanità, fornendo nuove indicazioni sulla base delle più recenti che del virus

Una nuova versione delle “Raccomandazioni ad interim sulla sanificazione di strutture non sanitarie nell’attuale emergenza COVID-19: ambienti/superfici” ha aggiornato il Rapporto ISS COVID-19 n. 25/2020 del 15 maggio 2020.

Le principali novità rispetto alla precedente versione sono le seguenti: aggiornamento sulla base delle più recenti evidenze scientifiche relative alla trasmissione del SARSCoV-2 e alla luce delle disposizioni normative vigenti; aggiornamento sulle procedure e sui sistemi di sanificazione/disinfezione generati in situ e altre tecnologie utilizzabili per la sanificazione degli ambienti di strutture non sanitarie, compreso il miglioramento dell’aria degli ambienti; per i diversi sistemi di sanificazione/disinfezione sono descritti gli aspetti tecnico-scientifici, l’ambito normativo e il pertinente uso.

da Iss

I Rapporti COVID-19 sono indirizzati al personale sanitario per affrontare i diversi aspetti della pandemia. Forniscono indicazioni essenziali e urgenti per la gestione dell’emergenza e sono soggetti ad aggiornamenti. Sono prodotti dai Gruppi di lavoro COVID ISS composti da ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità, che possono anche operare in collaborazione con altre istituzioni.
Rapporto ISS COVID-19 n. 12/2021 – Raccomandazioni ad interim sulla sanificazione di strutture non sanitarie nell’attuale emergenza COVID-19: ambienti/superfici. Aggiornamento del Rapporto ISS COVID-19 n. 25/2020. Versione del 20 maggio 2021

Istituto Superiore di Sanità
Raccomandazioni ad interim sulla sanificazione di strutture non sanitarie nell’attuale emergenza COVID-19: ambienti/superfici. Aggiornamento del Rapporto ISS COVID-19 n. 25/2020. Versione del 20 maggio 2021.
Rosa Draisci, Leonello Attias, Lucilla Baldassarri, Tiziana Catone, Raffaella Cresti, Rosanna Maria Fidente, Ida Marcello, Giorgio Buonanno, Luigi Bertinato
2021, v, 33 p. Rapporto ISS COVID-19 n. 12/2021

Il rapporto presenta una panoramica relativa all’ambito della sanificazione di superfici e ambienti interni non sanitari per la prevenzione della diffusione dell’infezione COVID-19. Le indicazioni si basano sulle più recenti evidenze scientifiche relative alla trasmissione del SARS-CoV-2. Presenta procedure e sistemi di sanificazione/disinfezione generati in situ e altre tecnologie utilizzabili per la sanificazione degli ambienti di strutture non sanitarie, compreso il miglioramento dell’aria degli ambienti. Per i diversi sistemi di sanificazione/disinfezione sono descritti gli aspetti tecnico-scientifici, l’ambito normativo e il pertinente uso.

Istituto Superiore di Sanità
Interim recommendations on cleaning and disinfection of non-healthcare settings during COVID-19 health emergency: indoor environments/surfaces. Updating Rapporto ISS COVID-19 n. 25/2020. Version of May 20, 2021.
Rosa Draisci, Leonello Attias, Lucilla Baldassarri, Tiziana Catone, Raffaella Cresti, Rosanna Maria Fidente, Ida Marcello, Giorgio Buonanno, Luigi Bertinato
2021, v, 33 p. Rapporto ISS COVID-19 n. 12/2021 (in Italian)

The report presents an overview concerning “sanitization” intended as cleaning and disinfection in non-healthcare settings taking into account the latest scientific evidence related to the transmission of SARS-CoV-2. The report presents sanitization/disinfection procedures and systems generated in-situ and other technologies that can be used for the sanitization of non-sanitary facilities environments, including the improvement of ambient air. For the different sanitization/disinfection systems, the technical-scientific aspects, the regulatory scope and the relevant use are described.

 Pubblicato il 31/05/2021

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COME MISURARE IL CONFORT INDOOR

Il comfort indoor percepito dalle persone all’interno di un edificio dipende da diversi fattori fisici, misurabili secondo quanto previsto dalla normativa di riferimento. Un’indagine attenta sulle condizioni interne, è fondamentale per intervenire nel modo migliore.

Comfort indoor: normativa, soluzioni e strumenti per il monitoraggio

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Il comfort interno indica il livello di benessere delle persone all’interno di un ambiente chiuso e può essere misurato attraverso la valutazione di alcuni parametri, come la temperatura, l’umidità o il livello di illuminamento. Ogni volta che si progetta e realizza un edificio, tra gli obiettivi principali dovrebbe esserci proprio l’ottenimento del massimo comfort interno possibile.

Il comfort incide anche sull’operatività delle persone, oltre che sul benessere- . Ad esempio, se la qualità dell’aria interna non è ottimale, la concentrazione delle persone ne risente.

Non è un caso che, per ogni tipologia di funzione come scuole, uffici, case di riposo e così via, si eseguano precisi studi per definire quali siano le migliori condizioni ambientali da realizzare.

Comfort indoor: cosa dice la normativa?

La disciplina di riferimento è la fisica tecnica ambientale, chiamata anche Indoor Environmental Quality (IEQ), che consiste nel verificare i requisiti relativi principalmente a quattro aree: il microclima interno, la qualità dell’aria, l’illuminamento e le condizioni acustiche di uno spazio chiuso. Oggetto di studio sono soprattutto gli ambienti di lavoro, quelli pubblici e quelli dedicati alla salute e alla cura, nei quali il benessere delle persone assume un rilievo ancor maggiore.

Comfort indoor: cosa dice la normativa

Per ciascuna delle 4 tematiche affrontate, la normativa definisce precisi requisiti e indicazioni per eliminare il più possibile rischi per la salute e sicurezza delle persone.

Le normative tecniche, infatti, individuano terminologie, parametri e modalità di calcolo, utili a valutare il comfort interno e a progettare ambienti adeguati alla permanenza delle persone.

Le norme e le leggi sono molte, ciascuna specifica per ogni ambito. Per fare degli esempi, nel caso degli ambienti di lavoro, è il Decreto Legislativo 81/08, nell’Allegato IV “Requisiti dei luoghi di lavoro” e nell’Allegato XXXIV “Videoterminali, requisiti minimi”, che affronta il tema. Più generali, la UNI EN 16798-1 e la UNI EN 16798, pubblicate recentemente (2019 e 2020) e ora riferimento per la qualità dell’aria, il comfort termico, l’illuminazione e l’acustica.

Per il comfort termoigrometrico, invece, ci sono ulteriori norme come la UNI EN ISO 7726:2002, sui parametri e la strumentazione necessaria a valutare il livello di comfort, o la UNI EN ISO 7730:2006, relativa al comfort percepito e al calcolo del PMV (Predicted Mean Vote) e del PPD (Predicted Percentage of Dissatisfied).

Per l’illuminazione si può fare riferimento alla UNI EN 12665:2018 o alla UNI EN 12464-1:2011 nel caso degli ambienti di lavoro. Anche per l’acustica l’elenco della normativa di riferimento non è breve e, tra i vari titoli- spiccano sicuramente il DPCM 5/12/97 Requisiti acustici passivi degli edifici, la Legge Quadro sull’inquinamento acustico (L. 447/1995) o norme tecniche come la UNI EN ISO 12354:2017 sulla valutazione delle prestazioni acustiche degli edifici e la UNI 11532, la cui seconda parte è specifica per il settore scolastico.

Come si misura il comfort?

Come anticipato, il comfort interno può essere misurato valutando differenti parametri fisici che concorrono al suo ottenimento.

Per farlo, si usano degli strumenti appositi, come termometri, centraline microclimatiche, sensori per la qualità dell’aria, anemometri, luxometri e fonometri.Testo 435 è lo strumento per la valutazione della qualità dell’aria ambiente Testo 435 è un anemometro, semplice da usare, per la valutazione della qualità dell’aria ambiente (IAQ) . Misura livello di CO2, umidità e temperatura dell’aria e valuta i parametri degli impianti di condizionamento e ventilazione.

Ciascuno di questi strumenti serve per misurare uno specifico parametro, come la temperatura dell’aria, l’umidità relativa, la CO2, la velocità dell’aria, l’illuminamento e la pressione sonora- . Per ottenere un buon livello di comfort è necessario che tutte le misure rilevate risultino entro certi range e risultati, secondo quanto indicato nelle specifiche normative di riferimento.

Questi parametri sono importanti perché non richiedono una stima indicativa, ma una vera e propria misura, ossia una valutazione oggettiva. Ciò non toglie che un’indagine accurata sul comfort interno di un ambiente, non possa comunque partire da un confronto con gli occupanti dello spazio stesso, che possono riferire percezioni e sensazioni utili.

Le soluzioni per migliorare il livello di comfort interno

Una volta effettuate tutte le misure, se necessario, si deve intervenire in modo puntuale per risolvere eventuali problematiche.

Generalmente, lo studio del comfort interno e dei relativi parametri fisici che lo determinano, si sovrappongono ad un’analisi dell’apparato impiantistico presente nell’edificio, perché ha un forte impatto sulle condizioni ambientali interne. Infatti, è sugli impianti che si dovrà intervenire per migliorare le performance rilevate. Quando si parla di impianti, si intendono i sistemi HVAC, ossia gli impianti per la climatizzazione dell’edificio, incluso anche il sistema di termoregolazione, per la ventilazione e per l’illuminazione.

Le soluzioni per migliorare il livello di comfort interno

Ad esempio, se la qualità dell’aria non è ottimale, è necessario verificare il funzionamento dell’impianto di ventilazione meccanica se presente o considerare l’installazione nel caso non lo sia. Potrebbe essere necessario sostituire il sistema di termoregolazione interno, ad esempio installando termostati smart in grado di offrire un controllo più puntuale e flessibile della temperatura. Un altro intervento importante è verificare la distribuzione e l’intensità dei punti luce, adeguandoli alle reali esigenze.

Agire sugli impianti, però, potrebbe non essere l’unica soluzione. Ad esempio, se un edificio non è adeguatamente isolato potrebbe vedere inficiato il comfort termoigrometrico e acustico al suo interno. In questo caso è bene provvedere con un intervento sulle strutture, valutando la posa di isolante termico e acustico o la sostituzione dei serramenti. Si tratta solo di esempi, in quanto i possibili interventi utili per migliorare il comfort interno degli edifici sono davvero molti.

Articolo dell’ arch. Gaia Mussi tratto dal sito:

infobuild.it