Un’esperienza immersiva, che sfrutta le enormi potenzialità mutuate dalle simulazioni aerospaziali e militari. È la formazione in realtà virtuale proposta da SAEF, primo ente formativo in Italia ad applicare sistematicamente questa tipologia di erogazione ad un corso “obbligatorio”, ovvero la prova di evacuazione legata al corso antincendio previsto dal decreto 81/2008 in materia di sicurezza sul luogo di lavoro. Basata sull’utilizzo della realtà virtuale, fa leva su tecnologie che permettono soluzioni di simulazione e training, in passato riservate esclusivamente agli astronauti e ai piloti. Ora non più. Grazie a un semplice visore e alla costruzione di un background virtuale, c’è la possibilità di immergersi letteralmente in un ambiente a rischio e decidere cosa fare, come agire, che scelte intraprendere. E da un visore alla realtà il passo è breve.
Come funziona la realtà aumentata? La tecnologia al servizio della formazione
La soluzione tecnologica adottata da SAEF per questa tipologia di corsi si basa sulle esperienze più moderne e innovative: lo strumento sono visori di realtà virtuale(Samsung GEAR VR) nei quali viene installata una applicazione di formazione immersiva. Non solo: per aumentare l’aderenza a una situazione reale di rischio, grazie all’utilizzo di semplici cuffie, viene ricreato anche l’ambiente sonoro di un incendio e di un accadimento di emergenza, perché proprio il grande disturbo legato alla confusione è spesso l’elemento che può condizionare la scelta di un’azione anziché un’altra. E per poter esplorare l’ambiente a 360 gradi gli utenti dei corsi vengono fatti sedere su seggiole girevoli a base fissa, così da potersi destreggiare, con pochi e semplici movimenti del corpo.
Come avviene una simulazione immersiva in realtà virtuale
Per simulazione immersiva si intende il modulo che compone il corso erogato in realtà virtuale. La realtà virtuale, quindi, rappresenta la tecnologia con la quale i moduli vengono realizzati, ovvero lo strumento di erogazione. Alla base di questa tecnologia ci sono video, fotografie a 360 gradi, modelli ed effetti in tre dimensioni. Ma la simulazione è composta non soltanto dalla proiezione in un mondo virtuale (molto vicino ad un incendio vero e proprio), ma anche dalla possibilità di interagire per mettere in atto azioni adeguate alla gestione della situazione. Si tratta di un elemento molto importante: non si subisce da spettatori come in un cinema, ma si ricopre un ruolo attivo, a scopo didattico, formativo e esercitativo. Tale interazione avviene grazie ad un’interfaccia a controllo oculare: basta fissare con lo sguardo sui punti attivi che appaiono nel visore per far scattare le relative azioni. Il tutto in forma molto semplice e intuitiva. Per approcciare il sistema e la tecnologia, all’utente è richiesto di svolgere un mini test di navigazione prima di avviare la simulazione vera e propria.
Il valore della realtà virtuale applicata alla formazione dei lavoratori
Tutto ruota attorno ad un principio. Gli anglosassoni lo chiamano il “learning by doing” traduzione di “imparare facendo“. Soprattutto nel caso di situazioni limite come quelle di un’emergenza in un luogo (di lavoro o altro), di un incendio, di uno scoppio o di una esplosione, la teoria sul cosa fare potrebbe non essere sufficiente. Proprio perché nelle scelte della persona intervengono moltissime variabili legate alla confusione, all’emozione, alla paura, alla non famigliarità con una situazione di rischio. Ecco perché il provare materialmente con un simulatore che proietta in un ambiente molto simile a quello reale, può essere utile per imparare come agire in una simile situazione. E non è finita: la multi sensorialità dell’esperienza che permette di coinvolgere vista, udito, movimento corporeo fa in modo che l’esperienza vissuta dal fruitore rimanga fortemente e a lungo impressa, così da avere un’elevata efficacia dal punto di vista dell’apprendimento. La curva dell’attenzione viene sollecitata al punto di essere innalzata come nel caso di un gioco, anche se si tratta di un “gioco serio”.
La rosa di applicazione della realtà virtuale in ambito formativo
La simulazione di un incendio in realtà virtuale di SAEF, introdotta da maggio 2017, è il primo caso in assoluto in Italia di applicazione di questa tecnologia innovativa non solo a livello sperimentale o di comunicazione, ma sistematicamente all’interno di corsi strutturati. SAEF offre oggi questa modalità in realtà virtuale non solo ai partecipanti ai suoi corsi, ma anche su richiesta ad aziende ed enti di formazione, con forme di personalizzazione del format e, se necessario, del contenuto.
Integrando il programma AI for Good, Microsoft ha annunciato il lancio di AI for Health.
Questo nuovo progetto avrà durata quinquennale e sarà dotato di un budget di 40 milioni di dollari. Lo scopo è aiutare ricercatori ed organizzazioni a sfruttare l’intelligenza artificialead affrontare le sfide più impegnative poste dall’healthcare.
Come ha sottolineato il presidente di Microsoft, Brad Smith, l’IA ha il potenziale di risolvere alcune delle problematiche più impegnative per gli uomini.
Un esempio? migliorare la salute delle popolazioni in tutto il mondo: è per questo scopi che Microsoft ha creato Ai for Health.
Infatti, fornire tecnologie alla avanguardia ai ricercatori e agli esperti può accelerare la scoperta di nuove soluzioni e migliorare la qualità di vita delle popolazioni meno fortunate.
In un periodo storico ad alta intensità tecnologica, la trasformazione digitale continua a cambiare il nostro modo di vivere e le nostre possibilità.
L’intelligenza artificiale rappresenta una delle più importanti tecnologie abilitanti, e il settore sanitario è forse quello che maggiormente ne sfrutterà le potenzialità.
Tuttavia, anche la migliore delle tecnologie non può prescindere dalla presenza di persone dotate di talento e da adeguate risorse disponibili. Purtroppo, oggi meno del 5% dei professionisti della IA lavorano nel settore sanitario o in associazioni nonprofit.
Per questa ragione è di primaria importanza dotate questi pochi ricercatori dei migliori strumenti, consentendo loro di accelerare e sviluppare il proprio lavoro.
Attraverso AI for Health, Microsoft farò in modo che enti nonprofit, il mondo accademico e le organizzazioni dedite alla ricerca in campo sanitario possano accedere alle più recenti tecnologie, risorse e supporto da parte di persone qualificate per implementare la IA.
Tre i principali focus su cui si concentrerà Ai for Health:
Accelerare la ricerca medica per migliorare prevenzione, diagnosi e terapia delle varie patologie
Migliorare la conoscenza condivisa su mortalità e longevitò, al fine di contrastare crisi sanitarie globali
Ridurre le iniquità sanitarie e migliorare l’accesso alle cure alle popolazioni meno fortunate
Gli sforzi di Microsoft si baseranno sulle collaborazioni già in essere, al fine di affrontare emergenze e problemi urgenti: trovare la causa della sindrome della morte improvvisa infantile, debellare la lebbra, diagnosticare la retinopatia diabetica per prevenire la cecità, e costruire un ecosistema che permetta una condivisione sicura dei dati biomedicali.
Le realtà partecipanti a questo primo step del progetto sono BRAC, Fred Hutchinson Cancer Research Center, Intelligent Retinal Imaging Systems (IRIS), Novartis Foundation, PATH, e Seattle Children’s Research Institute
“La questione non sta nel sapere se si verrà hackerati, ma quando”. Sono le parole del CEO di Verizon, Lowell C. Macadam, e nessuno lo sa meglio di lui. Soltanto quattro mesi dopo avere acquistato Yahoo!, la sua società ha scoperto che la sicurezza di tutti i suoi clienti, e parliamo di tre miliardi di account, era stata violata con un singolo attacco nel 2013.
Nonostante incidenti sconcertanti come questo avvengano sempre più spesso, la ricerca mostra che molte aziende sono sempre tristemente impreparate agli attacchi informatici. Un’indagine governativa condotta nel Regno Unito ha rilevato che il 68% dei consigli di amministrazione societari non ha ricevuto alcuna formazione per affrontare una violazione della sicurezza.
Un problema potrebbe essere rappresentato dal fatto che i dirigenti sono riluttanti a investire in tecnologie costose, senza sapere che proprio queste rappresentano una difesa efficace. Dopo tutto, se i giganti della tecnologia come Yahoo! non sono in grado di tenere lontani gli hacker, che possibilità hanno le medie imprese?
Certo è che alcuni tipi di difesa non sono economici. Abbonamenti annuali a sofisticati sistemi di monitoraggio come ProtectWise, che registra tutto il traffico di rete e consente di riavvolgerlo e riprodurlo per un’analisi di sicurezza proprio come un sistema TVCC virtuale, possono partire da un prezzo base di decine di migliaia di euro.
Tuttavia, la buona notizia è che molti attacchi informatici sono facilmente prevenibili con semplici contromisure. Il prolifico attacco ransomware WannaCry di quest’anno, ad esempio, ha sfruttato una debolezza del vecchio software Microsoft, per il quale la società aveva già fornito una patch di sicurezza.
Il mercato offre comunque numerose altre soluzioni economiche. Eccone cinque che ogni azienda dovrebbe prendere in considerazione:
1. Software antivirus
Un software di rilevamento e gestione delle minacce può essere indubbiamente costoso, ma sono comunque molte le opzioni disponibili per le piccole imprese con scarse risorse. Grandi aziende come Kaspersky, McAfee e Symantec forniscono soluzioni per piccole aziende che coprono da 20 a 25 dispositivi, con una quota di abbonamento annuale a partire da 130 euro. I servizi disponibili includono prevenzione della perdita di dati e backup automatici, antivirus e spyware, firewall e protezione della privacy.
Il prodotto offerto è pari al prezzo pagato, per cui è importante considerare il costo dei propri sistemi di difesa rispetto al potenziale prezzo da pagare in caso di attacco. Ad esempio, il prodotto Endpoint Advanced basato su cloud di Kaspersky costa 850 euro all’anno per 10 utenti. Tuttavia, se si considerano i risultati di un recente sondaggio del Ministero britannico per i mezzi di informazione digitali, la cultura, i media e lo sport, che ha mostrato che il costo medio degli attacchi informatici è stato di circa 1.800 euro per tutte le società, fino a raggiungere i 22.000 euro per quelle di grandi dimensioni, 850 euro potrebbero non sembrare una cifra così elevata.
2. Formazione del personale e servizi di informazione gratuiti
Prima ancora di pensare di investire in un software di rilevamento delle minacce, è bene ricordare che la maggior parte dei rischi per la sicurezza non viene da bande di criminali o governi stranieri ostili, bensì dall’interno. La negligenza di un dipendente, come quella di dimenticarsi un laptop sul treno, o atti dolosi compiuti da membri del personale, hanno causato due terzi delle violazioni informatiche di dati analizzate quest’anno da Willis Tower Watson. Solo il 18% è stato causato direttamente da una minaccia esterna, mentre i casi di corruzione hanno rappresentato solo il 2%.
StaySafeOnline.org è una risorsa online gratuita che offre alle aziende informazioni su come tutelarsi, incluse alcune tecniche di formazione del personale. Anche Social-Engineer.com offre ai manager alcuni consigli gratuiti, spesso tramite podcast di discussioni tra panel di esperti in materia di sicurezza, oltre a vendere sofisticati moduli di formazione del personale che simulano attacchi reali.
3. Performance Web e servizi di sicurezza
Qualsiasi azienda con un sito Web che non abbia installato un booster delle performance come Cloudflare o Incapsula dovrebbe probabilmente pensare di farlo subito. Questi servizi “freemium”, ossia gratuiti con upgrade a pagamento, formano una sorta di scudo del sito Web e bloccano i malintenzionati che potrebbero manometterne i contenuti o paralizzarlo.
Cloudflare offre tre livelli oltre alla versione gratuita: pro, business ed enterprise. Tuttavia, l’installazione della versione gratuita è già un ottimo punto di partenza, soprattutto da quando il mese scorso l’azienda ha celebrato il suo settimo anniversario offrendo la protezione gratuita dagli attacchi DDoS (Distributed Denial of Service), in cui gli hacker bloccano i siti Web inondandoli di traffico.
Altre funzionalità offerte da questi servizi includono la possibilità per gli utenti di bloccare indirizzi IP o bot ostili specifici tramite un CAPTCHA, ossia un prompt che consente al visitatore di digitare le lettere contenute in immagini distorte, illeggibili dalle macchine, prima di accedere a un sito Web.
4. Servizi di protezione contro il furto d’identità
Un malintenzionato finge di essere un funzionario di una società di alto livello e inganna l’utente, convincendolo a depositare del denaro sul proprio conto. Eventi simili, tecnicamente noti come BEC (business e-mail compromise), stanno aumentando a un tasso allarmante. Secondo l’FBI, le perdite causate da truffe simili sono aumentate del 1.300% tra il 2015 e il 2017.
Anche gli attacchi stanno diventando sempre più sofisticati, man mano che i criminali si spingono oltre la semplice creazione di account contraffatti per hackerare le reti di e-mail aziendali. Un metodo economico per affrontare il problema consiste nell’introdurre protocolli di messaggistica rigidi, ad esempio imponendo al personale di rispondere al CEO in una nuova e-mail, piuttosto che limitarsi a rispondere direttamente.
Tuttavia, per le aziende che vogliono difese più rigorose, società come Experian e Lifelock offrono servizi di monitoraggio del credito e servizi di allerta per circa 130 euro all’anno, oltre a piani di intervento d’emergenza in caso di furto dei dati del cliente.
5. Applicazioni per smartphone convenienti e intelligenti
Con così tanti dati cruciali archiviati oggi su dispositivi mobili è fondamentale tenerli al sicuro. Fortunatamente, l’universo delle app ora è pieno di nuove soluzioni.
I gestori di password come 1Password possono migliorare notevolmente la sicurezza ricordando password impossibili da indovinare, per cui non vi è alcun rischio di creare una catena di violazioni della sicurezza riutilizzando le stesse per più accessi. 1Password consente anche di generare password per l’utente.
Poi ci sono soluzioni come Signal, che possono fornire una crittografia end-to-end per tutte le comunicazioni, in modo da poter proteggere le conversazioni più delicate da occhi e orecchie indiscreti.
Ultimo ma non meno importante è Keeply, che consente ai dipendenti di memorizzare le proprie informazioni sensibili come password e foto in una sezione separata del proprio smartphone, Offre anche una funzionalità “face lock-down”, per cui l’app si chiude quando il telefono viene posizionato a faccia in giù, e una funzione “falso PIN”, che fa apparire le app vuote agli utenti indesiderati.
Il profilo di due figure professionali in ascesa: il Risk Manager e l’Insurance Manager
Il Risk Manager è una figura professionale dedicata alla gestione integrata dei rischi aziendali, quelli che possono avere un’influenza sugli obiettivi strategici prefissati dalla direzione. Parliamo di rischi finanziari, operativi, strategici, di legal & compliance.
Compito del Risk Manager è individuare e analizzare i potenziali rischi in cui può incorrere l’azienda, valutarli in base alla loro possibile gravità e frequenza, quindi individuare la politica migliore per ottimizzare la loro gestione, in linea con la linea scelta dal top management e con le capacità finanziarie dell’azienda.
Una volta definite le misure di trattamento del rischio, in coordinamento eventuale con i tecnici di settore, il Risk Manager si accerta dei risultati e li controlla nel tempo. E’ suo compito anche definire le coperture assicurative ritenute necessarie e i rischi che possono invece essere assunti in proprio dell’azienda come forma di “autoassicurazione”.
Il ruolo del Risk Manager si esplica anche nella valutazione di possibili rischi e responsabilità per l’azienda insiti nei contratti con terzi. In tal senso assiste tutte le funzioni aziendali fornendo le proprie competenze per l’individuazione delle potenziali criticità insite in ogni operazione.
Nelle realtà aziendali più articolate, il Risk Manager opera insieme al suo team per supportare il management nell’individuazione e analisi dei rischi, nella scelta delle metodologie e degli strumenti più idonei a gestirli, nonché nella responsabilizzazione del personale riguardo a specifiche politiche di presidio del rischio, contribuendo così alla creazione di una vera e propria cultura del rischio all’interno dell’organizzazione.
L’Insurance Manager è invece una figura aziendale deputata alla gestione del programma assicurativo. A tale scopo egli raccoglie costantemente informazioni e dati sui rischi delle misure di prevenzione e sinistri dell’azienda al fine di assicurarla. In conseguenza di questa attività imposta le polizze e definisce le coperture assicurative idonee.
È compito dell’Insurance Manager gestire i contatti con le compagnie assicurative o con i broker e negoziare le polizze con le migliori condizioni di copertura e costo. Una volta stipulate le polizze, rientra nei suoi compiti la loro gestione amministrativa e contrattuale, nonché la verifica della loro validità nel tempo al variare dei rischi. In tal senso, l’Insurance Manager assiste tutte le funzioni aziendali nella corretta applicazione delle norme e delle procedure previste dalle polizze.
In caso di accidente, l’Insurance Manager gestisce i sinistri, in qualità di “perito di parte” dell’azienda, confrontandosi con il perito nominato dagli assicuratori e con gli assicuratori stessi, al fine di tutelare gli interessi dell’impresa e di ottenere un rapido e corretto risarcimento dei danni subiti o causati dall’azienda a terzi.
Sono in corso numerose ricerche per monitorare gli aspetti di usabilità (efficacia, efficienza e soddisfazione d’uso) e accettabilità dei nuovi ausili tecnologici. «Esoscheletri, cobote pedane adattative possono rappresentare una risorsa per gestire l’invecchiamento della popolazione lavorativa. Si rende tuttavia necessario un approccio integrato alla valutazione del carico biomeccanico (con l’obiettivo di riduzione dello sforzo muscolare e della fatica) e al possibile impatto psico-sociale di questi ausili. Abbiamo bisogno di ingegneri che, in fase di progettazione sia di linee produttive, sia degli ausili stessi, tengano conto del fattore umano, e non solo degli aspetti meramente tecnici delle nuove tecnologie.
Per questo al Politecnico di Torino, dal 2008, vengono erogati corsi di ergonomia dei sistemi di produzione, con l’obiettivo di sensibilizzare gli studenti alla centralità dello “human centered design” e dell’interazione uomo-macchina. Gli indispensabili requisiti tecnici di sicurezza delle nuove tecnologie non possono prescindere dalle peculiarità fisiche, sensoriali e psicologiche dell’uomo e da aspetti quali l’usabilità e l’accettabilità delle stesse nello svolgimento del proprio lavoro», spiega Maria Pia Cavatorta, professore associato del Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale del Politecnico di Torino, referente per i corsi di ergonomia. A iniziare dal 2017 proprio con un approccio integrato, insieme con l’ergonomo cognitivo Silvia Gilotta, presidente della sezione Piemonte della Società italiana di Ergonomia (SIE), il Politecnico di Torino ha partecipato a una campagna di prove che ha coinvolto una trentina di operatori di Fca, e una decina di suoi team leader. I soggetti volontari hanno provato alcune tipologie di esoscheletri passivi per arti superiori, tra cui l’esoscheletro Mate, progettato e sviluppato da Comau, società del Gruppo automobilistico, rispetto ad attività sottoscocca che richiedono di lavorare a braccia alzate. Dai primi prototipi gli esoscheletri sono stati sottoposti a continue migliorie per renderli sempre più leggeri e per meglio gestire l’attivazione dei meccanismi di supporto e la loro disattivazione, quando le braccia scendono al di sotto delle spalle.
«Si tratta tuttavia di una prima fase nella valutazione dell’applicabilità a un contesto industriale. Occorreranno studi in grado di valutare l’usabilità e l’accettabilità dei lavoratori anche nel lungo termine. L’introduzione in produzione può rilevare ostacoli all’usabilità e all’accettazione del lavoratore, che possono non emergere in un contesto controllato di laboratorio. Risulterà poi necessario – precisa Cavatorta – capire come valutare il carico di lavoro biomeccanico durante attività di lavoro assistite dall’esoscheletro, nonché l’impatto di tali strutture sul lavoro fisico e mentale del lavoratore.»
La mission dell’ergonomia nella fabbrica 4.0 vuole essere quella di favorire la capacità di adattamento, efficienza e sostenibilità, da declinare innanzitutto rispetto alle abilità dell’uomo. «Per questo – raccomanda Cavatorta – nell’introduzione di nuove tecnologie quali esoscheletri o robot collaborativi (cobot) il coinvolgimento attivo e l’approccio partecipativo dei lavoratori risultano essenziali.» E già la ricerca internazionale si interroga su come rendere i cobot dei “veri” compagni di lavoro (“robot workmates”) e non degli intrusi, come talvolta vengono percepiti, che dettano all’uomo tempi e ritmi, anziché tener conto della variabilità del comportamento umano. A questo scopo è in corso il progetto europeo Andy (Advancing Anticipatory Behaviors in Dyadic Human-Robot Collaboration), con capofila l’Istituto Italiano di Tecnologie(IIT), che attraverso big data, machine learning e AI sta studiando un robot sempre più adattabile alle esigenze del collega uomo, esigenze che via via possono cambiare. Sfruttando delle tutine sensorizzate, infatti, i ricercatori stanno raccogliendo tali quantità di dati sul comportamento umano che l’obiettivo sarà, attraverso il machine learning, che i nuovi robot imparino a rispondere in modo adattivo all’uomo e non solo, come ora, a svolgere i compiti più ripetitivi o pericolosi in un contesto di predeterminata suddivisione dei compiti. «A una recente conferenza mondiale in Australia si è già iniziato a parlare di Industria 5.0, dove i nuovi robot collaborativi possano divenire dei “veri” compagni di lavoro, in grado di avvertire situazioni anomale, anche uno sbadiglio o una distrazione oculare, perché no, e intervenire a supporto, anticipando il rischio di errore nel collega e alleviandogli la fatica», racconta Cavatorta. Che non esclude però il rischio di nuove problematiche etiche, oltre che ergonomiche: l’accettazione o meno di essere continuamente monitorati, in ogni gesto, o piccola distrazione, da una macchina.
«È importante che i lavoratori percepiscano i vantaggi che la tecnologia può offrire per la sicurezza e l’ergonomia della nuova fabbrica. La progettazione di un ambiente di lavoro sicuro, confortevole e produttivo, che garantisca benessere e possibilità di valutazione attenta degli operatori da assegnare alle differenti postazioni di lavoro, deve rappresentare un punto saldo della fabbrica 4.0. È questo l’obiettivo del progetto regionale Humans, a cui ha partecipato il Politecnico insieme all’Università di Torino, Fca e Comau, in cui si lavora a una fabbrica a misura d’uomo, non soltanto nel rispetto delle caratteristiche medie della popolazione lavorativa, ma del singolo lavoratore. È il caso ad esempio delle pedane adattative che grazie al riconoscimento delle caratteristiche antropometriche di ciascun operatore, attraverso il suo badge, possono adattare l’altimetria della postazione di lavoro al singolo lavoratore, come già avviene su alcune linee nello stabilimento Fca di Cassino», prosegue Cavatorta. Sembra tutto molto avveniristico e invece è già realtà. Le normative sono ancora indietro rispetto a queste innovazioni in fabbrica, che pongono molte domande, per esempio se considerare gli esoscheletri strumenti di supporto facoltativo o presidi obbligatori per la sicurezza. Intanto, nel 2017 Iso ha lanciato una Call4experts per stilare delle linee guida sulle tecnologie 4.0 in fabbrica da un punto di vista ergonomico.
Neuroergonomia e lavoro digitale
Non solo la normativa, ma anche la ricerca scientifica fa fatica a star dietro alla velocissima innovazione tecnologica che apre nuovi fronti anche alla valutazione ergonomica stessa. «L’evoluzione tecnologica è molto veloce rispetto ai tempi più lenti della ricerca scientifica, ma non mancano gli strumenti come questionari validati e sensori per la neuro e psicofisiologia per misurare e valutare l’impatto che queste tecnologie pervasive stanno avendo sulla nostra mente e sul nostro cervello», racconta Nicola De Pisapia, ricercatore dell’Università degli Studi di Trento, che ha un corso di laurea triennale e una specialistica di Interfacce e Tecnologie della Comunicazione al dipartimento Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento – «Per ora vedo le aziende più interessate ad applicare lo studio neuropsicologico (degli effetti di comportamenti e azioni del lavoro sul sistema cerebrale) al marketing, a prodotti da vendere e alle app digitali, che non alle nuove condizioni di lavoro in cui siamo immersi. Penso per esempio ai possibili effetti sull’attenzione dell’eccesso di informazioni, o alla perdita della propria scrivania o all’essere sempre connessi e reperibili, come nella modalità di lavoro smart. E ancora, quali saranno gli effetti sulle funzioni neuropsicologiche di attività in cui siamo sostituiti da app, da bracci robotici, da realtà virtuale o aumentata?
Alcuni studi, per esempio, hanno già dimostrato come l’uso costante di navigatori Gps per orientarsi riduca l’efficienza dell’area del cervello chiamata ippocampo, preposta all’orientamento spaziale. Quella parte si atrofizza, come un muscolo che non venga più usato.» Come useremo dunque il tempo, lo spazio liberato per fare altro, per quelle attività a valore aggiunto auspicate e promesse dalle organizzazioni? «È sempre questione di che uso fare delle tecnologie che oggi abbiamo a disposizione e avere consapevolezza che possono agire in modo “invisibile” sul nostro cervello» – raccomanda Michela Balconi, professore di Psicofisiologia e Neuroscienze cognitive all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano – «Come nel marketing c’è un modo “invisibile” di creare attenzione, agganciare e indurre all’acquisto, così nell’utilizzo di software e macchine intelligentiche possono lavorare al nostro posto e alleviarci la fatica, istruendoci passo dopo passo, ovviamente allo scopo di rendere più efficace ed efficiente la prestazione, bisogna chiedersi che parte resti all’uomo a valore aggiunto, se non è previsto o se non è pianificato nell’organizzazione. Queste sono domande a cui dovremo darci sempre più delle risposte, con l’avanzare di queste tecnologie a supporto dei lavori tradizionali. Nelle fabbriche cinesi misurano già il calo di attenzione e produttività dell’operaio, che viene prontamente sollecitato a ristabilire il ritmo richiesto. Bisogna però capire quale livello di performance venga imposto e se non sia incompatibile con l’equilibrio psico-fisico del lavoratore. Anche noi stiamo misurando il livello di attenzione del cervello in determinate condizioni di stress, ma con la finalità di prenderne consapevolezza per disperdere meno energie, per avere una concentrazione più alta con un senso di benessere e di autocontrollo maggiore e ridurre, per esempio, gli incidenti in automobile. Come sempre, dipende dall’uso che si fa degli strumenti a disposizione.» Negli ultimi tre anni Balconi, che è responsabile dell’Unità di Ricerca in Neuroscienze Sociali e delle Emozioni del Dipartimento di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano ha svolto una ricerca, presentata a ottobre, che ha misurato il livello di stress e di attenzione del cervello di alcuni cluster di soggetti, attraverso l’uso di smart glasses. Si tratta degli occhiali “Lowdown Focus”, sviluppati e distribuiti da Safilo, che registrano l’attività elettrica del cervello e forniscono istruzioni su come abbassare il livello di stress con effetti migliorativi sulla performance (meno incidenti stradali, meno frenate brusche e comportamenti impulsivi in auto, per esempio, per il cluster dei driver). Il primo gruppo pilota sono stati studenti universitari presso il laboratorio interno dell’ateneo milanese per validare il metodo. Quindi il dispositivo, che inizialmente era un cerchietto (“headband”) sviluppato da una società di ricerca canadese, trasformato da Safilo in occhiali dal design sportivo per offrire un maggior comfort e una maggiore vestibilità, è stato applicato a manager di Atm, di Microsoft e della società di consulenza Prospecta. Quindi il terzo e ultimo gruppo, su richiesta di Cattolica Assicurazioni con il progetto “Drivefit”, è stato quello di una sessantina di driver impegnati al volante in città caotiche del Nord Italia. L’esperimento è durato 7 giorni su 7, dai 10 ai 20 minuti per volta, per quattro settimane di fila. In tutti i casi l’occhiale, dotato di elettrodi sulle stanghette e i naselli che permettono di rilevare l’elettroencefalogramma, fornisce un feedback immediato tramite un’applicazione per smartphone. Il soggetto viene così informato quando il suo stato di attività cerebrale supera certi livelli di stress. Il feedback avviene attraverso segnali acustici, come il canto di uccellini e il rumore di un’onda del mare, che aumentano di intensità e velocità fino al frastuono, quando il livello di stress supera i parametri normali. «Questo dispositivo ha anche una funzione di training, perché prima con i segnali acustici, poi con un riepilogo della propria performance sullo smartphone, vengono suggeriti comportamenti diversi e vengono dati rinforzi positivi.
Gli effetti positivi sono durati nel tempo, come hanno dimostrato follow-up successivi, a dimostrazione del fatto che il cervello, essendo plastico, può acquisire nuovi comportamenti e nuove abitudini anche in condizioni di pressione», commenta Balconi. Di fatto vengono misurate le funzioni attentive, i meccanismi di controllo attivi e inibitori e le funzioni esecutive, cioè la memoria a breve termine (la working memory) e il loro impatto sulla performance a seconda del livello di stress. Di conseguenza, l’aspetto interessante di questo dispositivo è che, collegato a un software e a un device mobile, si potrebbe estendere ad altre popolazioni aziendali per misurare per esempio l’ergonomia cognitivadell’utilizzo delle tecnologie nel mondo del lavoro, in ufficio e in fabbrica, e anche l’impatto neurofisiologico degli ausili tecnologici impiegati per migliorare l’ergonomia stessa.
Di fatto l’ergonomia si sta sempre più spostando da scienza del lavoro a scienza dell’uomo e degli “Human factors”, anche perché il confine tra vita professionale e vita privata è sempre più permeabile, complici le nuove tecnologie digitali e il nuovo modo di lavorare. «Oltre a dover riprogettare il lavoro che sta già cambiando e cambierà sempre di più con la sempre maggiore presenza di robotica e AI, e con il lavoro il sistema formativo, dobbiamo fare i conti con un mondo dove il profitto dipenderà sempre più da una risorsa nuova, l’informazione che noi stessi produciamo e che viene raccolta attraverso la sorveglianza continua del nostro comportamento e il monitoraggio del nostro corpo ed elaborata in modo non trasparente da parte di chi sa su di noi cose che neppure sappiamo e che permette di prevedere i nostri comportamenti», avverte provocatoriamente Sebastiano Bagnara, uno dei padri dell’economia cognitiva in Italia, già segretario generale della International Ergonomics Association e presidente di BSDesign.
Da industria italiana.it articolo di Gaia Fiertler
La tecnologia a supporto della tutela della salute dei lavoratori isolati
La tecnologia a supporto della tutela della salute dei lavoratori isolati
Trento, 3 ottobre 2013. Un giovane idraulico di 27 anni viene trovato senza vita in una cella frigo di un capannone del Consorzio frutticoltori di Cles. La Procura iscrive sul registro degli indagati il direttore dello stabilimento, il datore di lavoro dell’idraulico e il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP). La Procura ipotizza il reato di omicidio colposo. Il Consorzio rischia una multa da 256.000 a 1.000.000 di euro, oltre all’interdizione dall’attività per un periodo da 6 mesi a 2 anni.
A distanza di quasi 4 anni la famiglia dell’uomo è stata risarcita con € 750.000, il Consorzio è stato condannato a pagare una sanzione di € 50.000 per la mancata predisposizione del modello organizzativo gestionale per la prevenzione dei rischi sul lavoro, mentre resta ancora aperto il processo a carico degli altri imputati.
Il lavoratore operava in una cella frigo in condizione di isolamento, senza nessun collega vicino. Nel caso della cella frigo, alla condizione di lavoro isolato si aggiungono anche i rischi dell’ambiente, normalmente con temperature prossime ai -20 °C e ridotta percentuale di ossigeno; in tale condizioni un infortunio con la perdita di conoscenza, ed un ritardo nei soccorsi, possono facilmente avere delle conseguenze fatali.
Il fatto di cronaca sopra riportato mi incoraggia a fare il punto circa il problema dei lavoratori isolati e lo stato dell’arte della tecnologia disponibile per la tutela della salute degli stessi.
Chi sono i lavoratori isolati?
Si definiscono “lavoratori isolati” le persone che sono tenute a lavorare da sole, senza una sorveglianza diretta e senza la presenza di altri soggetti vicini che possano prestare soccorso immediato in caso di infortunio o incidente. Un lavoratore o lavoratrice che svolge la propria attività in solitudine, opera senza un contatto visivo o vocale diretto con gli altri dipendenti dell’azienda e tale condizione potrebbe interessare tutte le categorie di lavoratori (anche gli impiegati in ufficio) che, ad esempio, hanno necessità di continuare a lavorare oltre l’orario normale, oppure nei casi in cui sia richiesta la loro presenza durante i giorni festivi, la sera o la notte.
Sono considerati lavoratori isolati anche coloro che non operano realmente in solitudine, ma che si trovano in un contesto che presenti difficoltà nella comunicazione, nel movimento o di impedimento fisico, oltre alle persone che lavorano in luoghi remoti, di difficile accesso, in condizioni ambientali sconosciute o avverse.
Esempi di categorie di lavoratori isolati sono: benzinai, addetti alla manutenzione, addetti alle pulizie, tecnici di laboratorio, agricoltori, autisti, tassisti, trasportatori, commesse, farmacisti, forestali, giardinieri, guardie mediche, infermieri, guardie giurate, magazzinieri, medici, infermieri, operai edili, portieri.
Normativa del lavoratore isolato
Relativamente ai lavoratori isolati sia diurni che notturni, è necessario ricordare che l’articolo 17, comma 1, lettera a) del D. Lgs. 81/08 e s.m. di cui al D. Lgs. 106/09, pone a carico del Datore di Lavoro l’obbligo di valutare tutti i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori, compresi quindi anche quelli derivanti da particolari condizioni lavorative, come appunto quelli dei lavoratori isolati. A seguito di tale valutazione il Datore di Lavoro deve adottare le necessarie misure di prevenzione e protezione e le relative procedure per eliminare o ridurre le conseguenze dei rischi individuati.
I Fattori di rischio del lavoratore isolato
Nel caso di lavoratori isolati il fattore di rischio principale (da valutare e per il quale adottare misure e procedure di prevenzione e protezione) è relativo all’organizzazione dei soccorsi in caso di malore o infortunio del lavoratore.
In tale circostanza i fattori addizionali di rischio sono i seguenti:
impossibilità o limitata capacità, da parte del lavoratore stesso, di allertare i soccorsi all’esterno del luogo di lavoro;
difficoltà o impossibilità dei soccorritori, se e quando allertati, di accedere all’interno del luogo, dove è necessario l’intervento;
ulteriore difficoltà ad individuare esattamente, una volta all’interno, il punto intervento in caso di situazioni complesse.
Tali fattori addizionali di rischio comportano inevitabilmente il ritardo dell’intervento con effetti a volte fatali.
Pertanto, il Datore di Lavoro deve (in virtù degli obblighi di cui al già citato articolo 17, comma 1, lettera a) del D. Lgs. 81/08) prevedere sistemi per monitorare in tempo reale lo stato di salute del lavoratore attraverso il controllo del suo stato di coscienza.
Inoltre va ricordato che l’art. 2, comma 5, del D.M. 15/7/2003 N° 388 sancisce quanto riportato qui di seguito:
“Nelle aziende o unità produttive che hanno lavoratori che prestano la propria attività in luoghi isolati, diversi dalla sede aziendale o unità produttiva, il Datore di Lavoro è tenuto a fornire loro il pacchetto di medicazione di cui all’allegato 2, che fa parte del presente decreto, ed un mezzo di comunicazione idoneo per raccordarsi con l’azienda al fine di attivare rapidamente il sistema di emergenza del Servizio Sanitario Nazionale.”
Tale sistema di comunicazione deve essere mantenuto in buone condizioni di funzionamento e manutenzione. I telefoni cellulari privati dei lavoratori non possono essere verificati dal datore di lavoro, e quindi non costituiscono un mezzo idoneo, ed inoltre la quasi totalità non posseggono la funzione uomo a terra, e quindi inadeguati in caso di malore e/o infortunio con perdita di coscienza.
Quali dispositivi scegliere per i lavoratori isolati?
Uno dei primi passi per tutelare i lavoratori isolati è quello di dotarli di un dispositivo “uomo a terra” in grado di allertare il personale di soccorso in caso di malore o di una situazione di emergenza.
L’attuale tecnologia propone dispositivi operanti su rete GSM, DECT, Wi-Fi o radio. Tali strumenti sono dotati di pulsante di emergenza nonché sensori capaci di rilevare il non movimento e la posizione orizzontale dell’operatore (funzione mandown) e di allertare in autonomia il personale di soccorso.
I dispositivi più avanzati posseggono anche le funzioni di localizzazione (tramite GPS per ambienti esterni, tramite radio beacon/RFID per ambienti interni), Amber Alert (timer programmabile in assenza di copertura GSM), rilevamento della posizione evoluto multi costellazione GNSS (ricevitore a 48 canali, GPS, Glonass, Galileo e BeiDou), Mandown++ evoluto (allarme uomo a terra, non movimento e caduta violenta), geofencing (perimetro virtuale), ALS (Automatic Location System), sistema viva-voce, certificazione per ambienti Atex.
I moderni dispositivi consentono la massima personalizzazione di tutti i parametri di configurazione, come ad esempio la possibilità di impostare l’angolo di inclinazione e i tempi di attivazione del mandown, per adattarsi alle diverse tipologie di attività dell’operatore.
Particolare attenzione va posta alla scelta dello strumento. Esistono infatti sul mercato dispositivi (per lo più di fabbricazione non europea) non supervisionati (cioè non in grado di verificare continuamente lo stato dei suoi componenti segnalando qualsiasi malfunzionamento, assenza rete, assenza GPS, anomalia sensori, ecc.), dotati di software/sensori non proprietari e quindi poco affidabili perché soggetti ad interruzioni di servizio, oppure privi delle certificazioni richieste dai Sistemi di Gestione Qualità e Sicurezza.
Infine è utile ricordare che l’adozione di dispositivi per la tutela dei lavoratori isolati permette all’azienda di ottenere una riduzione del premio INAIL (OT24).
Il termine Tecnostress venne coniato dallo psicologo americano Craig Broad nel suo libro edito nel 1984 da Addison Wesley: “Technostress: the human cost of computer revolution” (“Il costo umano della rivoluzione dei computer”). Lo psicologo faceva riferimento per la prima volta allo stress legato all’uso delle tecnologie e al loro impatto a livello psicologico. Nella definizione di Broad, il Tecnostress era il disturbo causato dall’incapacità di gestire le moderne tecnologie informatiche (computer e software). Nel 1997 questo concetto fu ripreso e ampliato da due psicologi americani, Larry Rosen e Michelle M. Weil, nel libro “TechnoStress: coping With Technology @Work @Home @Play”, frutto di una ricerca durata 16 anni. Nella loro analisi il significato di Tecnostress diventa più ampio indicando “ogni impatto o attitudine negativa, pensieri, comportamenti o disagi fisici e psicologici causati direttamente o indirettamente dalla tecnologia”.
I tempi indotti dalla tecnologia che evolve troppo rapidamente non si adattano al percorso degli individui, per questo si sviluppa una pressione psicologica caratterizzata da disagio e frustrazione. Già nella definizione di Broad veniva fatto riferimento a determinati sintomi da ricondurre alla sindrome del Tecnostress come ansia, affaticamento mentale, depressione, incubi notturni; in particolare, molte persone erano soggette a frequenti attacchi di rabbia causati dalle difficoltà di utilizzo di computer e software e dalla gestione di guasti o blocchi che interrompevano l’attività lavorativa.
Lo studio di Broad, e in seguito quello di Rosen e Wail, è vincolato al periodo in cui è stato concepito. In seguito si sono susseguiti moltissimi cambiamenti, sia nella tecnologia che nella comunicazione; la Rete Internet si è trasformata nello strumento universale d’informazione e la tecnologia digitale è diventata di uso comune grazie all’avvento di smartphone, tablet, connessioni Wi-Fi e tv digitale. Il termine Tecnostress acquisisce un nuovo significato con il passaggio all’era delle connessioni, dove le informazioni sono ovunque. Nella nuova accezione, questa sindrome fa riferimento alla quantità enorme di informazioni in cui gli individui sono immersi e che viene assorbita e gestita quotidianamente comportando un sovraccarico cognitivo: in psicologia tale fenomeno viene chiamato “information overload”. Quando il cervello riceve l’informazione, essa corrisponde a livello psichico ad un input mentale: questo richiede una risposta che si traduce in attivazioni di connessioni neuronali. Quando gli input sono molti e costanti, come avviene nel sovraccarico informativo e nella gestione di più device digitali, si verifica uno stato di allarme e stress, ovvero una risposta anomala (psichica e fisica) del corpo che si manifesta con un’intensa produzione di adrenalina. In questa condizione si attivano disturbi a livello cardiocircolatorio, psichico e neurologico.
Un altro elemento che ha favorito l’insorgere del Tecnostress, sia nell’ambito lavorativo che in quello personale e relazionale, è il ruolo della tecnologia mobile che ha permesso un uso costante dei flussi informativi senza vincoli di spazio e di luogo. Questo elemento mette in luce una sostanziale differenza con la prima, embrionale definizione di Broad che prendeva in analisi le reazioni psicofisiche di soggetti che lavoravano seduti alla propria scrivania.
I meccanismi complessi generati dall’innovazione tecnologica hanno comportato dei cambiamenti che aiutano a tracciare dei segni che identificano il rischio Tecnostress:
Utilizzo costante dello smartphone anche negli incontri sociali
Il soggetto non spegne mai il telefono
Sono molto frequenti i risvegli notturni per connettersi alle piattaforme Social
Si avverte l’istinto di telefonare anche in luoghi riservati (cinema, biblioteche ecc.)
Si scrivono messaggi mentre si è in movimento
La tv viene utilizzata principalmente sul tablet o sul cellulare
Accanto a questi comportamenti “a rischio”, si possono delineare una serie di sintomi che caratterizzano la sindrome da Tecnostress che spesso, per scarsa informazione, non vengono correttamente individuati:
Disturbi della pelle causati dallo stress (psoriasi, dermatiti)
SINTOMI PSICHICI (COMPORTAMENTALI E COGNITIVI)
Irritabilità
Depressione
Alterazioni comportamentali
Calo del desiderio sessuale
Crisi di pianto
Apatia
La sintomatologia ha una componente soggettiva ed ogni persona può sviluppare o meno determinati sintomi. Inoltre, essi sono riconducibili a quelli causati dal cosiddetto “elettrosmog”, ovvero dall’esposizione eccessiva, diurna e notturna, a campi elettromagnetici emessi da apparecchi elettrici, router e modem Wi-Fi, smartphone, tablet e pc.
Il Tecnostress in uno stadio già avanzato procura molte ripercussioni, sia livello lavorativo che relazionale. Sul lavoro si verificano amnesie e disturbi della memoria, condizioni che generano assenteismo, mancanza di motivazione e perdita di efficacia professionale. Anche sul piano relazionale il Tecnostress ha una forte incidenza: il soggetto tecnostressato reagisce con l’isolamento e la chiusura emotiva, ha attacchi di rabbia, entra in conflitto con colleghi e famigliari. Queste condizioni sfociano spesso in una sindrome da dipendenza da Internet (IAD – Internet Addiction Disorder), disturbo che si intreccia con il Tecnostress.
Nel 2007 il Tecnostress è stato riconosciuto come malattia professionale in seguito ad una sentenza del procuratore aggiunto del Tribunale di Torino, Raffaele Guariniello. Il passaggio alla definizione di malattia professionale si verificò dopo numerosi esposti e denunce di lavoratori. La prima inchiesta si svolse in un call center, luoghi ad alto rischio Tecnostress. Ma come è accaduto per l’evoluzione del termine, molte indagini sono state effettuate in passato, quando la tecnologia non era ancora sviluppata e l’informazione digitale non era presente in modo massiccio. Per questo motivo, il Tecnostress può registrare nuovi casi, differenti nella sintomatologia e nel grado di gravità; inoltre il rischio professionale può aumentare anche per la nascita e la crescita di nuove categorie professionali. Allo stato attuale, ogni settore lavorativo dove si usano frequentemente le tecnologie digitali, (ICT, editoria ecc.), deve obbligatoriamente includere nel documento della valutazione del rischio stress lavoro correlato, il rischio Tecnostress.
Tale percorso viene applicato in conformità con il Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro 81/2008. Considerata la recente diffusione del Tecnostress, la valutazione del rischio negli ambiti professionali è essenziale per individuare adeguate misure di protezione e prevenzione che riguardano l’organizzazione del lavoro, le procedure, l’informazione e la formazione dei lavoratori.
Nell’indagine sulla valutazione del rischio nei luoghi di lavoro, è molto importante inquadrare la tipologia dell’azienda per stabilire il tipo di rapporto esistente con il carico informativo e la gestione simultanea di più dispositivi digitali (multitasking). Questo avviene spesso nelle aziende che si occupano di editoria dove i lavoratori utilizzano la creatività, contemporaneamente gestiscono programmi e interagiscono con il social network (multimedialità, inserimento di recensioni online, utilizzo di forum di discussione).
I contesti lavorativi dove il rischio Tecnostress è elevato sono molti: tuttavia, i lavoratori più a rischio sono i networkers (chi lavora in rete), le professioni dell’ICT (Information and Communications Technology), gli operatori call center, i giornalisti, i community manager e i web content editor, i commercialisti, gli avvocati, i pubblicitari, gli analisti finanziari, gli imprenditori e i programmatori.
I parametri che aiutano a definire l’entità del rischio Tecnostress sono il tempo trascorso per gestire le informazioni digitali, la quantità di carico informativo e i sintomi che segnalano una marcata tendenza allo scivolamento nella sindrome. Per poter tracciare i confini del disturbo da Tecnostress è importante la presenza di due elementi peculiari: la radicale accelerazione dei ritmi, di vita e lavorativi e la fusione tra vita personale e professionale causata dalla pervasività delle tecnologie digitali. Ogni persona può lavorare o essere contattata in qualsiasi momento e in ogni luogo. La rivoluzione digitale e i social media hanno stravolto il concetto abituale di separazione tra la vita online e quella offline. Gli individui dell’era attuale sono proiettati in un tempo sferico che non ha inizio né fine, dove gli aspetti della vita professionale e personale si fondono in un flusso unico di rappresentazioni e contenuti digitali. Il Tecnostress mostra con estrema chiarezza il suo volto nel mondo imprenditoriale, soprattutto quello in cui si fa un uso massiccio delle piattaforme social in azienda anche quando esse non vengono utilizzate per scopi legati alla produttività o all’attività professionale. Il controllo, spesso ossessivo, delle mail fuori dal contesto e dagli orari di lavoro (al risveglio, a letto, a tavola, in vacanza ecc.) induce a non separare i contesti e a continuare a gestire il carico informativo con la stessa intensità. Non si può certamente negare che l’avvento dello smartphone abbia comportato innumerevoli vantaggi e opportunità di lavoro, permettendo di gestire progetti e attività a distanza, migliorando la produttività personale e creando nuove connessioni con aziende e imprenditori anche se attivi a grandi distanze. Il nodo centrale è la gestione di questi strumenti che deve essere consapevole e professionale, per evitare di arrivare al dominio di un ininterrotto flusso digitale. La continua disponibilità concessa dall’always on (sempre connesso) è funzionale alle aziende che vogliono mantenere una costante pressione sulle risorse anche fuori dal posto di lavoro, fenomeno che genera un aumento di produttività che, tuttavia, non viene riconosciuto nella retribuzione. Dall’altra parte, pur in assenza di un effettivo accordo contrattuale, il lavoratore tende a tollerare queste intrusioni, considerandole parte integrante e inevitabile dell’attività e del proprio ruolo, e ad acconsentire ad inviare feedback in tempi brevi anche quando le richieste tramite mail o messaggi vengono fatte in orari serali, notturni o nel week-end. La connessione continua e senza confini può incidere in modo negativo sulla salute mentale e fisica, sulle relazioni sociali, affettive e professionali e sullo stesso rendimento lavorativo.
La gestione delle conseguenze prevede l’attuazione di strategie di prevenzione, formazione e di misure per la gestione del carico sintomatologico. Rimedi validi per il Tecnostress sono quelli che inducono al rilassamento mentale e fisico e all’interruzione, per alcuni porzioni di tempo, del flusso digitale attraverso tecniche mentali (pnl, esercizi di concentrazione), tecniche olistiche (Yoga agopuntura, meditazione), tecniche sportive (sport e passeggiate a contatto con la natura), tecniche rigenerative (alimentazione naturale, uso di piante mediche e officinali, naturopatia). In ambito professionale è importante prevedere una riorganizzazione del lavoro e un’adeguata distribuzione del carico informativo nel rispetto degli orari e degli spazi extra-lavorativi. Una buona strategia dovrà includere anche l’attivazione della richiesta di una maggiore formazione dei lavoratori sulla valutazione del rischio Tecnostress e dei danni connessi ai campi elettromagnetici.
articolo di Marta Chiappetta da benessere.com
Bibliografia
– Brigo B., Stress positivo, stress negativo, Tecniche Nuove, Milano, 2007.
– Danon M, Stop allo stress, Urra- Apogeo, Milano, 2012.
– Di Frenna E., Tecnostress. Le 10 cose da sapere per affrontare il rischio nel lavoro digitale e imparare a valutarlo, Ebook, 2015.
– Perciavalle M., Prunesti A., Offline è bello, Franco Angeli, Milano, 2016.
Riportiamo un interessante articolo pubblicato sulla versione online del quotidianosanità.it . Il ruolo dei social e dell ‘ informazione sanitaria tramite il web è sotto gli occhi di tutti. Benché l’autore faccia riferimento alla medicina di base , le argomentazioni sono le medesime anche per la medicina del lavoro. Ricordiamo che il medico competente ha per obblighi legislativi e deontologici la promozione della salute a 360 gradi. Buona lettura
gennaio – Gentile direttore,
da qualche anno stiamo assistendo alla nascita di sempre nuove pagine facebook di informazione sanitaria create e gestite da medici e operatori sanitari. Tale fenomeno è sostenuto prevalentemente da medici di medicina generale neo specializzati e neo convenzionati che decidono di affiancare al tradizionale mezzo di informazione sanitaria, il dialogo front-office, un nuovo strumento di comunicazione nei confronti dei loro assistiti.
Queste pagine sono generalmente denominate “Dott Nome-cognome, medico di medicina generale” e alternano comunicazioni inerenti all’organizzazione dello studio con utilissime informazioni di carattere medico come i commenti alle nuove linee guida, evidenze sull’utilizzo appropriato degli antibiotici e degli IPP o consigli sulla gestione dell’influenza e sugli stili di vita.
Una caratteristica costante di queste pagine è la presenza in calce ai post di fonti autorevoli come società scientifiche e documenti OMS/Ministero Salute. I post sono generalmente tutti basati sulla EBM.
La diffusione di queste pagine fb, molto seguite e apprezzate dai pazienti giovani e meno giovani, è un fenomeno che sebbene ancora numericamente limitato andrebbe studiato e potenziato in una strategia globale di lotta alle fake news in ambito sanitario.
Proviamo a fare due conti:
In Italia ci sono circa 50.000 MMG e la popolazione italiana compresa fra 14 e 60 aa ammonta a 32 milioni circa (ISTAT 2019). Secondo l’analista di social media Vincenzo Cosenza in Italia 24 milioni di persone utilizzano fb ogni giorno, prevalentemente tramite cellulare o tablet.
Se la metà delle persone attive ogni giorno su fb potesse seguire la pagina aggiornata del proprio medico potremmo fornire ogni giorno una informazione sanitaria di qualità a circa 12 milioni di italiani.
Nel settembre 2019 2018 il Corriere della Sera ha avuto una diffusione complessiva (cartacea + digitale) di 268.950 copie quotidiane (dati ADS). Pur ipotizzando che ogni copia del Corriere della Sera venga letta da 5 persone siamo ancora ben lontani dai possibili utenti raggiungibili dalle pagine Fb.
Perché tale fenomeno, magari regolamentato, dovrebbe essere incentivato e sostenuto?
I motivi sono diversi:
a) Rappresenta una efficace arma di lotta alle fake news in quanto il pz riceverebbe informazioni non DA internet bensì DAL proprio medico TRAMITE internet utilizzando fonti autorevoli, affidabili e verificabili. Le informazioni non giungerebbero al paziente in seguito ad una ricerca mirata bensì apparirebbero sulla home di fb periodicamente, andando a costituire un flusso continuo di informazioni in ambito sanitario.
b) E’ uno strumento che non sostituisce bensì affianca il tradizionale dialogo medico/paziente front-office che viene ad essere potenziato con maggiore soddisfazione da parte del paziente e aumento della compliance. Una notizia letta sulla pagina può poi essere discussa direttamente col proprio medico durante la visita.
c) Contribuisce a porre un argine al preoccupante fenomeno di delegittimazione culturale del medico e in particolare del MMG in quanto principale rappresentante del SSN, il cui compito è offrire salute di qualità e non prestazioni sanitarie inutili e costose spesso incentivate da soggetti privati molto attivi sul piano dell’informazione online e dunque mediaticamente vincenti.
d) L’informazione sanitaria rientra tra i compiti istituzionali del MMG e andrebbe effettuata in maniera consona ai tempi che cambiano, alle nuove necessità dei pazienti e in risposta alle sempre più aggressive campagne di disinformazione attive su diversi strumenti di comunicazione.
L’importanza dell’aspetto comunicativo è stata colta anche dalla Fnomceo che da qualche anno ha avviato il validissimo progetto di “Dottore ma è vero che” proprio per migliorare i contenuti sanitari online.
Una collega neospecializzata in Medicina Generale mi ha fatto notare che non tutti i medici sono in grado di utilizzare questi strumenti e che sarebbe utile frequentare un corso di comunicazione social ad hoc.
L’osservazione è corretta e dunque perché non inserire un corso di comunicazione online all’interno del Corso di Formazione Specifico in Medicina Generale per formare i neo specializzati in Medicina Generale ad effettuare una informazione sanitaria social di qualità?
In attesa della tanto invocata riforma del CFSMG, che ha ormai assunto le connotazioni dell’araba fenice – “Cosa sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa” – il fenomeno delle pagine Fb continuerà ad espandersi sulla base della buona volontà del singolo professionista in accordo con la tacita consuetudine che in Italia le cose veramente innovative sono frutto di singole esperienze spontanee che pian piano prendono corpo e si diffondono.
Roberto Bellacicco
Medico in formazione spec. in Medicina Generale
Quali sono gli effetti della digitalizzazione sulla salute e sicurezza sul luogo di lavoro?
L’immenso potenziale delle tecnologie digitali sta cambiando il luogo di lavoro; ma quali sono le ripercussioni per la salute e la sicurezza dei lavoratori? La nostra nuova brochure fornisce una panoramica dei nostri lavori in corso sulla digitalizzazione – tra cui un recente progetto di previsione – e il suo impatto sulla salute e sicurezza sul lavoro (SSL).
L’opuscolo mette in evidenza come si potrebbe ridurre al minimo il potenziale negativo delle conseguenze della digitalizzazione in materia di SSL. Inoltre, mostra come si possono utilizzare le tecnologie digitali per migliorare la prevenzione sul luogo di lavoro.
TORINO. «Nuoce gravemente alla salute. A meno che non venga utilizzato correttamente». È questa l’etichetta che Roberto Romeo vorrebbe apporre sulle scatole dei cellulari. Dipendente di Telecom Italia, ha passato la sua vita con il telefonino appiccicato all’orecchio. Anche per 4 o 5 ore al giorno. Poi si è ammalato. Ha scoperto di avere un neurinoma dell’acustico, tumore benigno, ma invalidante.
Il nesso
Tra le giornate passate al cellulare e il tumore al cervello c’è un nesso. Ad affermarlo è la Corte d’Appello di Torino che ha confermato la sentenza di primo grado del Tribunale di Ivrea con cui, nell’aprile 2017, i giudici avevano condannato l’Inail a corrispondere a Romeo una rendita vitalizia da malattia professionale. «Una sentenza storica, come lo era stata quella di Ivrea, la prima al mondo a confermare il nesso causa-effetto tra il tumore al cervello e l’uso del cellulare – spiegano gli avvocati Stefano Bertone e Renato Ambrosio dello studio Ambrosio&Commodo di Torino, che hanno seguito la vicenda – La nostra è una battaglia di sensibilizzazione sul tema. Manca informazione, eppure è una questione che interessa la salute dei cittadini».
Il rischio
Basta usare il cellulare 30 minuti al giorno per otto anni per essere a rischio. «Le persone – aggiungono gli avvocati – devono conoscere le possibili conseguenze di un utilizzo prolungato del telefonino, così da poter analizzare con consapevolezza il loro rapporto, e quello dei loro figli, con i cellulari e altri strumenti dannosi per la salute».
La Codacons, che commenta la sentenza della Corte d’Appello, chiede di inserire sulle confezioni dei telefoni cellulari indicazioni sulla pericolosità per la salute umana, come viene fatto sui pacchetti di sigarette. «Ancora una volta – afferma il presidente Carlo Rienzi – viene confermata la pericolosità dei cellulari per la salute umana. Dallo Iarc all’Oms, passando per i recenti studi condotti dal National Toxicology Program degli Stati Uniti (NTP) e dall’Istituto Ramazzini, tutti gli enti di ricerca affermano senza ombra di dubbio come l’esposizione alle onde elettromagnetiche prodotte dai telefonini sia potenzialmente cancerogena». «I cittadini – conclude Rienzi – hanno ora il diritto di essere informati riguardo i rischi che corrono, e per tale motivo non basta avviare campagne informative: serve apporre sulle confezioni dei telefonini avvisi circa i rischi per la salute, al di pari di quanto già avviene con i pacchetti di sigarette».
Il parere dell’Istituto Superiore della Sanità L’uso prolungato dei telefoni cellulari, su un arco di 10 anni, non è associato all’incremento del rischio di tumori maligni (glioma) o benigni (meningioma, neuroma acustico, tumori delle ghiandole salivari). E’ quanto è emerso dall’ultimo Rapporto Istisan “Esposizione a radiofrequenze e tumori” curato da Istituto superiore di sanità, Arpa Piemonte, Enea e Cnr-Irea, pubblicato lo scorso agosto che arriva ad una conclusione differente rispetto a quello della Corte d’Appello di Torino secondo cui l’uso prolungato del telefono cellulare può causare tumori alla testa.
I dati attuali, tuttavia, si precisa nello studio, «non consentono valutazioni accurate del rischio dei tumori intracranici e mancano dati sugli effetti a lungo termine dell’uso del cellulare iniziato durante l’infanzia». Si tratta del più recente studio pubblicato sul tema, ma le ricerche in merito all’eventuale nesso tra telefonini e tumori sono in corso da oltre 20 anni.