RISCHIO CHIMICO

PERCHÉ RISCHIARE ?

AiFOS (Associazione Italiana Formatori ed Operatori della Sicurezza sul lavoro) e Fondazione AiFOS, tramite un bando rivolto agli studenti dell’Accademia di belle arti SantaGiulia di Brescia, hanno commissionato la realizzazione di una serie di manifesti con l’obiettivo di promuovere la salute e la sicurezza negli ambienti lavorativi.

Perché rischiare è il manifesto di  Francesco Turco che pubblichiamo qui di seguito:

Per avere i file in alta definizione per la stampa, contattare la Fondazione AiFOS all’indirizzo info@fondazioneaifos.org.

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EFSA : “RIVEDERE LA DOSE TOLLERABILE DEI PFAS NEI CIBI”

L’Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare,  ha proposto di rivedere le assunzioni tollerabili di due contaminanti chimici, Pfoa e Pfos i per- e polifluoroalchilici più conosciuti come Pfas, a cui i consumatori sono esposti attraverso la catena alimentare a causa dell’inquinamento ambientale. La contaminazione è particolarmente acuta in diverse province del Veneto dove, a causa dello sversamento delle lavorazione della Miteni oggi chiusa, ha esposto la popolazione e la catena alimentare a un rischio prolungato

L’Authority, spiega in una altra nota ha acquisito la prima delle due valutazioni su queste sostanze e pertanto le conclusioni sono  provvisorie: “Questo primo parere scientifico riguarda i principali Pfas, noti come perfluoroottano sulfonato (Pfos) e acido perfluoroottanoico (Pfoa), due prodotti chimici artificiali, ampiamente utilizzati nelle applicazioni industriali e di consumo dalla metà del 20° secolo. Persistono nell’ambiente perché si degradano lentamente. Inoltre, possono accumularsi nel corpo umano, il che significa che possono essere necessari molti anni per eliminarli“.

La Commissione europea ha chiesto all’Efsa di riesaminare i rischi che i Pfas pongono alla salute umana utilizzando i dati resi disponibili dalla sua valutazione iniziale nel 2008. La produzione, l’immissione sul mercato e l’uso di Pfos sono regolati dalle leggi della Ue sugli inquinanti organici persistenti (Regolamento CE 850/2004). Le restrizioni relative alla fabbricazione e all’inserimento sul mercato di Pfoa entreranno in vigore il 4 luglio 2020, a seguito di valutazioni scientifiche dell’Agenzia europea per le sostanze chimiche (Echa).

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INAIL NUOVI BENEFICIARI PATOLOGIE AMIANTO

Da il sole24ore

Si amplia la platea dei beneficiari della speciale pensione di inabilità che era stata riconosciuta dalla legge di bilancio 2017 ai lavoratori affetti da malattie correlate all’amianto, a prescindere dalla condizione di assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa. Il merito è di un emendamento dei relatori approvato dalla Camera al decreto crescita, fortemente voluto dal M5S, che stanzia 103 milioni di euro ad hoc fino al 2028, di cui 7,7 per quest’anno e 13,1 per l’anno prossimo.

A chi viene esteso il diritto
Se finora avevano potuto far richiesta della pensione soltanto i dipendenti con sei tipi di malattie di origine professionale (mesotelioma pleurico, pericardico, peritoneale, della tunica vaginale del testicolo, carcinoma polmonare e asbestosi), adesso il diritto viene esteso anche a chi è affetto da altre patologie, purché derivanti da esposizione all’amianto documentata e riconosciuta e fermo restano il requisito di possedere almeno cinque anni di contribuzione nell’arco dell’intera vita lavorativa. Non solo. Potranno accedervi anche i dipendenti che, in seguito alla cessazione del rapporto di lavoro, siano transitati in una gestione di previdenza diversa da quella dell’Inps e i titolari del sussidio per l’accompagnamento alla pensione entro il 2020 che optino per la pensione di inabilità.

Le coperture? Dai “risparmi” per il reddito di cittadinanza
L’estensione prevista dal Dl crescita avrà effetto dalla data di entrata in vigore della legge di conversione, con decorrenza della pensione dal mese successivo a quello di presentazione della domanda. Anche se si demanda la definizione delle modalità attuative a un decreto del ministro del Lavoro, da emanare entro 60 giorni di concerto con il titolare dell’Economia. Curiosità: le coperture per il 2019 e il 2020 (20,8 milioni in tutto) arrivano dalla riduzione delle risorse che erano state stanziate nel decreto su reddito di cittadinanza e quota 100 per assumere personale all’Inps in vista della «piena attuazione amministrativa» delle misure. E per i restanti 82,9 milioni dal 2021 fino al 2028? Si attingerà direttamente dal Fondo per il reddito istituito con la manovra 2019, in virtù di quelle minori spese (pari a circa 3 miliardi di euro nel 2019, secondo il presidente Inps) che il ministro dell’Economia Giovanni Tria vorrebbe destinare quest’anno alla riduzione del deficit per evitare la procedura d’infrazione della Commissione Ue.

Il M5S: «Una questione di giustizia»
Per la modifica si batte da inizio legislatura la deputata avellinese M5S Maria Pallini, che ora raccoglie i frutti del suo impegno, sostenuta dal vicepresidente della commissione Lavoro Davide Tripiedi e dagli altri parlamentari campani del Movimento: «Finalmente possiamo dare una risposta a 40-50 operai dell’ex Isochimica di Avellino e permettere loro di accedere alla pensione di inabilità al 100%. Ma stimiamo una platea potenziale complessiva in tutta Italia di circa 600 lavoratori, esposti all’amianto negli anni 80». Lo stabilimento di Borgo Ferrovia, fabbrica di scoibentazione di vagoni-treno, ha visto morire finora 27 lavoratori. Il processo è ancora in corso: 27 gli imputati accusati di omicidio colposo, disastro ambientale e omissione in atti d’ufficio, 200 le parti civili. «Una questione di giustizia», commenta il sottosegretario all’Interno Carlo Sibilia, anche lui avellinese: «Con l’emendamento si scrive una nuova pagina per i lavoratori esposti in passato all’amianto».

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PRODOTTI CHIMICI E SICUREZZA SUL LAVORO: IL PIANO NAZIONALE

Da informazionefiscale.it

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Sicurezza sul lavoro e prodotti chimici: anche per il 2019 il Ministero della Salute ha approvato il piano nazionale delle attività di controllo, una tutela per i lavoratori, per l’ambiente e per i consumatori finali. Un gran numero di aziende è potenzialmente interessato.

Si tratta di un appuntamento annualeper il Ministero della Salute con gli obblighi imposti dal regolamento europeo sulla classificazione, l’etichettatura e l’imballaggio numero 1272/2008 (CLP) e dal cosiddetto REACH (numero 1907 del 2006), una normativa integrata per la registrazione, valutazione e autorizzazione delle sostanze chimiche, finalizzata ad assicurare la protezione della salute umana e dell’ambiente.

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Sicurezza sul lavoro e prodotti chimici: il piano nazionale delle attività di controllo del Ministero della Salute

Il Piano nazionale delle attività di controllo sui prodotti chimici 2019 mette nero su bianco, per l’anno in corso, gli standard tecnici per le attività di controllo su tutti i soggetti che si occupano di fabbricazione, importazione, immissione sul mercato e uso di tutte le sostanze chimiche in quanto tali e in quanto componenti di miscele e articoli.

I controlli non interessano solo le aziende che li adoperano nei processi industriali, ma anche quelle che li utilizzano per la produzione di detergenti, vernici, abiti, mobili. Un’ampia platea di imprese, dunque, è potenzialmente sotto osservazione.

La tutela dei lavoratori, dell’ambiente e dei consumatori finali, e l’attività di sorveglianza sulle aziende che operano con sostanze chimiche, vede lavorare fianco a fianco sia autorità statali che locali.

Uffici di sanità marittima, aerea e di frontiera (Usmaf), e dei servizi di assistenza sanitaria al personale navigante (SANS), Nuclei antisofisticazioni e sanità dell’Arma dei Carabinieri (NAS), Istituto nazionale assicurazione Infortuni sul lavoro (INAIL), Agenzia delle dogane e dei monopoli, Nuclei operativi ecologici dell’Arma dei Carabinieri (NOE) e il Corpo della Guardia di finanza: sono tutti coinvolti nell’attuazione del piano nazionale delle attività di controllo sui prodotti chimici ed entro il 31 marzo di ogni anno devono inviare i risultati del lavoro sul campo.

Il Ministero della Salute, che coordina l’attività per verificare la completa attuazione delle prescrizioni da parte di tutti i soggetti della catena di distribuzione delle sostanze, dalla fabbricazione/importazione, all’uso, all’immissione sul mercato delle stesse, stabilisce che gli accertamentipossono essere eseguiti in qualunque momento con o senza preavviso.

Sicurezza sul lavoro e prodotti chimici: quali informazioni contiene il piano annuale

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Il Piano nazionale delle attività di controllo sui prodotti chimici 2019, approvato a febbraio, come ogni anno è stato redatto tenendo conto di una serie di fattori locali, nazionali e internazionali, tra le altre:

  • le indicazioni provenienti dall’Agenzia europea per le sostanze chimiche (ECHA), dalla Commissione europea o da altri organismi europei competenti come il Chemical legislation european enforcement (CLEEN)
  • i risultati delle attività di controllo degli anni precedenti, anche in termini di settori produttivi ritenuti prioritari in ragione dell’utilizzo di specifiche sostanze in quanto tali o in quanto contenute in miscele o in articoli
  • conoscenze epidemiologiche e analisi del contesto territoriale ed ambientale sulla base del sistema informativo regionale;
  • programmi di visite ispettive congiunte tra due o più Stati membri dell’Unione europea;
  • indicazioni provenienti dai Centri antiveleni (CAV).

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Sulla base dei dati acquisiti, ogni anno, il piano stabilisce alcuni elementi fondamentali per le attività di controllo:

  • i settori potenzialmente interessati, che vanno dalla fabbricazione di prodotti chimici alla produzione di giocattoli, passando per l’abbigliamento;
  • il periodo di tempo nel quale vanno effettuati i controlli e le scadenze per inviare i dati al Ministero della Salute;
  • le priorità per l’attuazione del regolamento REACH e del regolamento CLP;
  • il numero minimo degli accertamenti, che per il 2019 deve essere stabilito a livello locale;
  • la metodologia da seguire nei controlli che sono sia di tipo documentale che analitico.

Il piano, quindi, passa a rassegna gli standard tecnici delle attività di accertamento ma fissa anche alcuni punti fermi di cui tener conto nell’operatività.

Si stabilisce, ad esempio, che la valutazione dei dati quantitativi di fabbricazione e importazione può tenere conto delle autodichiarazioni del rappresentante legale dell’impresa; in alternativa è possibile eseguire un controllo a campione sull’attendibilità del sistema di gestione che riguarda la registrazione dei quantitativi fabbricati e/o importati.

E si ribadisce la necessità di una collaborazione di più attori sul controllo della sicurezza sul lavoro nei contesti che operano utilizzando sostanze chimiche: in fase di ispezione, si evidenzia l’utilità di un’azione integrata tra Servizio sanitario regionale e laboratori di controllo menzionati nell’accordo Stato-Regioni del 7 maggio 2015.

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Tutti i dettagli nel documento integrale del Piano nazionale delle attività di controllo sui prodotti chimici 2019.

PDF - 338.6 Kb
Piano Nazionale delle Attività di Controllo sui Prodotti Chimici Anno 2019
Scarica il Piano Nazionale delle Attività di Controllo sui Prodotti Chimici Anno 2019 elaborato dal Ministero della Salute.
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QUANTA PLASTICA CI BEVIAMO. INTERVISTA A SHARRI MASON

Intervista pubblicata su La stampa a SHERRI MASON ricercatrice americana pioniera sulle microplastiche

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Non si conoscono ancora i possibili effetti sulla salute, né si è del tutto sicuri dei percorsi che compiono per arrivare nell’acqua e nel suolo. Una cosa però è ormai certa: le microplastiche sono dappertutto. E Sherri Mason, ricercatrice americana della Penn State University, pioniera negli studi su questa subdola forma di inquinamento, non ha dubbi: “Ci sono aree del Pianeta in cui la concentrazione è maggiore che in altre, ma nessun luogo può dirsi libero dal problema”.

Ospite dell’ultima edizione del Festival del Giornalismo Alimentare di Torino , Mason ha fatto il punto sullo stato della ricerca in materia, sfatando anche alcune convinzioni comuni sulle microplastiche che ingeriamo. Come il credere più sicure le acque in bottiglia rispetto a quella del rubinetto di casa.

Dall’oceano ai Grandi Laghi

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Se il problema dell’inquinamento da plastica di mari e oceani è tragicamente visibile ed è al centro dell’attenzione mediatica, lo stesso non si può dire delle microplastiche nell’acqua dolce. Di minuscoli frammenti rinvenuti nei pesci che poi finiscono sulle nostre tavole si parla ormai da tempo, mentre – forse per effetto di una rimozione collettiva – è solo da qualche anno che le indagini hanno cominciato a concentrarsi sull’elemento base di qualunque dieta: l’acqua da bere.

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Una delle pioniere in questo campo è stata, già dal 2012, Sherri Mason, la cui terra d’origine ha giocato un ruolo fondamentale nella scelta della sua materia di ricerca. “Sono della Pennsylvania, vivo nella regione dei Grandi Laghi – racconta a Tuttogreen – Il Lago Superiore, il Michigan, l’Huron, l’Eire e l’Ontario, tutti connessi fra loro, costituiscono il più vasto sistema d’acqua dolce del mond o. Un bacino su cui una popolazione di 35 milioni di persone fa affidamento per il proprio sostentamento. Mi sono chiesta quanta plastica e soprattutto quanta microplastica ci fosse in queste acque. Ho scoperto che gli ultimi due laghi della catena, l’Eire e soprattutto l’Ontario, con 230mila particelle per km quadrato, hanno una concentrazione di microplastiche pari ai mari più inquinati del Pianeta. Un dato che ha ovviamente attirato le preoccupazioni dell’opinione pubblica”.

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Il team di ricerca ha quindi cominciato ad indagare le vie attraverso cui la plastica arriva in fiumi e laghi: packaging, materiali per la pesca, lavaggio di tessuti in fibre sintetiche.

“Ci siamo anche spostati altrove, in zone remote del mondo, intrecciando collaborazioni con altri istituti di ricerca. Ad esempio siamo andati ad analizzare i laghi della Mongolia. È stato interessante paragonare i risultati qualitativi di aree così diverse e lontane. Se nella regione dei Grandi Laghi negli Stati Uniti abbiamo trovato molte microplastiche provenienti dal lavaggio di capi sintetici, nei laghi mongoli, invece, ciò che abbiamo rinvenuto più di frequente erano residui blu di materiale espanso usato dai pescatori come galleggiante per le esche. Se spesso la portata dell’inquinamento da plastica causa una sensazione di impotenza, questi dati possono invece aiutare a capire un concetto importante: ciò che usiamo ogni giorno è ciò che poi finisce nell’acqua. Perciò sta a noi riuscire a cambiare le nostre abitudini e l’organizzazione delle nostre società per avere un effetto diretto sull’acqua che beviamo”.

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percentuali di micro plastiche nei rubinetti di acqua

La via delle microplastiche verso la catena alimentare

Dallo scaffale del supermercato alle acque di un lago, di un fiume, del mare, e poi di nuovo su, verso il frigorifero o la tavola. Quello delle plastiche è un viaggio andata e ritorno. Così Sherri Mason, dopo essere andata alla ricerca del percorso che le porta all’acqua, si è messa a indagare la strada contraria, che da lì le introduce nella catena alimentare.

Il primo passo è stato il sale marino. Ispirandosi a un analogo studio condotto in Cina, Mason e il suo team hanno analizzato diverse tipologie di confezioni, dalla busta in plastica alla scatola in cartone, scoprendo che, in media, ogni kg di sale contiene 212 particelle di microplastiche. Poi è stato il turno della birra: quella prodotta nel distretto dei Grandi Laghi contiene 4,05 particelle per litro ed è paradossalmente più “salutare” dell’acqua.

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All’acqua potabile, quella del rubinetto di casa, è stata infine dedicata una ricerca molto più vasta e ambiziosa. In collaborazione con Orb Media , Mason ha infatti passato in rassegna campioni di acqua presi in 159 paesi di tutto il mondo, trovando particelle di microplastiche con un’incidenza dell’83% dei casi (in USA il 94%, in Europa il 72%). “In media – spiega – abbiamo rinvenuto 5,45 particelle per litro. Facendo una stima sulla base dei dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sul consumo di acqua potabile, questo significa che beviamo 5100 particele di microplastiche all’anno. Insieme al sale, invece, ne ingeriamo 180 all’anno”.

Acqua del rubinetto o in bottiglia?

“Dopo aver divulgato i risultati della ricerca, mi sarei aspettata che la gente scendesse in piazza e chiedesse l’intervento del Governo. Invece le persone hanno cominciato a comprare più acqua in bottiglia, pensando fosse più sicura”. Mason non si è però lasciata prendere dallo sconforto, e ha intrapreso una seconda indagine. Con la Fredonia University e Orb Media si è dunque concentrata sulle acque in bottiglia, passando in rassegna un’ampia scelta di marchi da tutto il mondo: tra gli altri, Danone, PepsiCo, Evian, Nestlè, Coca-Cola, San Pellegrino e la cinese Wahaha.

“Le microplastiche erano presenti nel 93% dei campioni, quindi con un’incidenza maggiore rispetto all’acqua corrente. La quantità di particelle per litro è addirittura doppia rispetto all’acqua del rubinetto: 10,4 particelle/litrocontro 5,45”. Oltre alle microplastiche classiche, quelle con diametro dell’ordine di grandezza di un capello, il team ha trovato in ogni litro analizzato più di 300 particelle con dimensioni inferiori ai 100 micron. “Più piccole sono, e più sono insidiose – spiega Mason – Perché hanno maggiore probabilità di essere assorbite dal sistema gastro-intestinale e arrivare al sistema circolatorio e linfatico, fino al cervello”.

Interessante è poi la morfologia delle plastiche trovate: il 54% è polipropilene (il moplen), con cui sono fatti la maggior parte dei tappi delle bottiglie. E c’è poi un buon 10% di polietilene (PE o PET), cioè il materiale di cui sono fatte le stesse bottiglie. Insomma, una grossa percentuale di particelle proviene proprio dagli imballaggi che dovrebbero preservare la purezza dell’acqua…

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Paure e prese di coscienza

Se gli effettivi impatti sulla salute delle microplastiche che ingeriamo non sono ancora chiari (“è questa la nuova frontiera della ricerca”, precisa Mason), ipotesi e preoccupazioni stanno però già prendendo forma. “Io sono una chimica e la mia preoccupazione riguarda gli elementi chimici che possono essere presenti nelle o sopra le plastiche. Le microplastiche possono fare da piattaforma per trasportare vari agenti chimici potenzialmente pericolosi all’interno del nostro organismo. Le plastiche stesse contengono poi vari composti che hanno funzione di stabilizzanti UV, antiossidanti o ignifughi, e di questi in realtà conosciamo già i possibili effetti. Sappiamo ad esempio che sono correlati a certi tumori o che possono agire da perturbatori endocrini, cioè alterare l’equilibrio ormonale. Per alcuni di questi composti si stanno addirittura studiando delle correlazioni con l’autismo”.

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Se la maggior parte degli studiosi evita di scatenare allarmismi (“l’assorbimento di microplastiche da parte dell’organismo è al massimo di un grammo all’anno”, ricorda ad esempio Giorgio Gilli dell’Università di Torino), è vero tuttavia che saranno sempre più necessarie regole ferree circa la composizione dei polimeri della plastica.

E dopotutto, se anche la paura delle microplastiche si diffondesse, potrebbe forse essere un bene: sarebbe la spinta necessaria per cambiare finalmente la rotta di una società insostenibilmente “plastivora”.

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“Siamo andati avanti usando questo materiale ormai per decenni, ma avevamo una società anche prima della plastica. Dobbiamo fare un passo indietro – conclude Sherri Mason – La plastica è nata per essere un materiale indistruttibile, perciò dobbiamo smetterla di utilizzarla per prodotti usa e getta. Ormai la usiamo più per comodità che per vera necessità ed è ora di uscire da questo sistema. Si può, cominciando dalla quotidianità. Ad esempio evitando di bere acqua in bottiglia e scegliendo quella del rubinetto. A proposito, l’acqua italiano è molto pulita, si può bere tranquillamente!”.

I COMPOSTI PERCLORATI( Pfas) PERICOLOSI PER LA FERTILITA’ DELLE DONNE

Studio-choc del gruppo di ricerca del professor Carlo Foresta,  dell’Università di Padova, sulle ventenni residenti nell’area rossa ad alto inquinamento Pfas. Emerge che i Pfas bloccano i meccanismi che regolano il ciclo mestruale, l’annidamento dell’embrione e il decorso della gravidanza. I risultati dello studio saranno presentati al convegno di Medicina della Riproduzione dal 28 febbraio al 2 marzo

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Quattro mesi fa era stata diffusa la prima scoperta del gruppo del professor Carlo Foresta dell’Università di Padova, quella che definiva il meccanismo attraverso il quale i Pfas alterano lo sviluppo del sistema uro-genitale del maschio e la fertilità interferendo con l’attività del testosterone. Sostanzialmente, l’organismo li scambia per ormoni: inevitabilmente mutano l’azione delle ghiandole endocrine, causando una serie di malattie. Dopo quella pubblicazione nel “Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism”, rivista di endocrinologia clinica sperimentale di fama mondiale, adesso il gruppo di ricerca dell’Università di Padova propone alla comunità scientifica una nuova evidenza: le patologie riproduttive femminili (ad esempio alterazioni del ciclo mestruale, endometriosi e aborti, nati pre-termine e sottopeso) possono essere correlate all’azione dei Pfas sulla funzione ormonale del progesterone, ormone femminile che regola la funzione dell’utero.

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A questo risultato è giunto dopo due anni di lavoro il gruppo di ricerca dell’Università di Padova, coordinato dal professor Carlo Foresta e dal dottor Andrea Di Nisio, che ha valutato l’effetto dei Pfas sul progesterone analizzando, in cellule endometriali in vitro, come i Pfas interferiscano vistosamente sulla attivazione dei geni endometriali attivati dal progesterone.

«In particolare è stato dimostrato che, su più di 20.000 geni analizzati, il progesterone normalmente ne attiva quasi 300, ma in presenza di Pfas 127 vengono alterati e tra questi quelli che preparano l’utero all’attecchimento dell’embrione e quindi alla fertilità – spiega il professor Foresta – La mancata attivazione di questi geni da parte del progesterone altera le importanti funzioni coinvolte nella regolazione del ciclo mestruale e nella capacità dell’endometrio di accogliere l’embrione e quindi giustificano il ritardo nella gravidanza, la poliabortività e la nascita pre-termine. Nella donna il progesterone svolge un ruolo fondamentale nel regolare finemente lo stato maturativo dell’endometrio attraverso lo stimolo di diverse cascate di geni. La riduzione nell’espressione di questi geni da parte dei Pfas è dunque indicativa di una possibile alterazione della funzione endometriale».

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Le conseguenze cliniche di questi risultati sono state peraltro confermate da un recente studio della Regione Veneto sugli esiti materni e neonatali, che ha riportato un incremento di pre-eclampsia (edemi o ipertensioni nelle donne gravide), diabete gravidico, di nati con basso peso alla nascita, di anomalie congenite al sistema nervoso e di difetti congeniti al cuore nelle aree a maggiore esposizione a Pfas. La svolta dello studio del team di Padova è appunto quella di aver individuato un meccanismo che è alla base dello sviluppo di questi fenomeni.

«A questo punto la comprensione di una interferenza importante dei Pfas sul sistema endocrino-riproduttivo sia maschile che femminile e sullo sviluppo dell’embrione, del feto e dei nati – spiega il professor Foresta – suggerisce l’urgenza di ricerche che favoriscano la eliminazione di queste sostanze dall’organismo, soprattutto in soggetti che rientrano nelle categorie a rischio. Allo stato attuale a livello internazionale non ci sono ancora segnalazioni, pertanto è preoccupante pensare che la lunga emivita di queste sostanze possa influenzare negativamente a lungo tutti questi processi, forse anche nelle generazioni future».

La conferma deriva anche dalla analisi dei questionari sulla salute riproduttiva ai quali sono state sottoposte 115 ragazze ventenni residenti nell’area rossa veneta, confrontando le risposte con un gruppo di 1.504 giovani donne di pari età non esposte a questo inquinamento.

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«Dall’analisi su questo campione di ragazze esposte a Pfas probabilmente già in fase embrionale – conclude il professor Foresta – è emerso un significativo ritardo della prima mestruazione di almeno sei mesi e una maggior frequenza di alterazioni del ciclo mestruale (ritardi del 30% nelle esposte rispetto al 20% della media). Tutti questi segni depongono per una interferenza da parte di questi inquinanti ambientali sull’attività degli ormoni sessuali nella donna. Pertanto la comprensione del meccanismo d’azione dei Pfas sulla funzione endometriale è importante dal punto di vista clinico e sperimentale».

C’è dunque molta attesa nella comunità scientifica per conoscere i dettagli di questo nuovo lavoro del gruppo del professor Foresta. Lo studio sarà presentato all’interno del trentaquattresimo convegno di Medicina della Riproduzione che inizia oggi ad Abano Terme e si concluderà sabato 2 marzo. In particolare, la scoperta sarà oggetto della tavola rotonda “Interferenze ambientali sullo sviluppo del sistema endocrino-riproduttivo: evidenze cliniche e sperimentali” che si terrà alle ore 15.30 di venerdì 1 marzo al centro congressi Pietro D’Abano. Tra i relatori, oltre al professor Foresta, anche il professor Carlo Alberto Redi di Pavia, noto accademico dei Lincei.

PFAS, LA SCHEDA

I composti perfluorurati (Pfas) sono sostanze chimiche di sintesi che vengono utilizzate per rendere resistenti ai grassi e all’acqua tessuti, carta, rivestimenti per contenitori di alimenti, ma anche per la produzione di pellicole fotografiche, schiume antincendio, detergenti per la casa; possono essere presenti in pitture e vernici, farmaci e presidi medici. I Pfas sono ritenuti contaminanti emergenti dell’ecosistema data la loro elevata resistenza termica e chimica, che ne impedisce qualsiasi forma di eliminazione favorendone l’accumulo negli organismi. In alcune regioni del mondo (Mid-Ohio valley negli USA, Dordrecht in Olanda, e Shandong in Cina) ed in particolare in alcune zone della Regione Veneto, soprattutto nelle falde acquifere delle Province di Vicenza, Padova e Verona, è stato rilevato un importante inquinamento da Pfas nel territorio.

da http://www.ilcambiamento.it

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NEL SALENTO CONTAMINAZIONE DEL SUOLO CON METALLI PESANTI

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Arsenico e Berillio nei terreni: la ricerca Geneo su inquinamento e tumori
„ Una curva rossa nel grafico presentato dalla Lilt dimostra ciò che si sapeva, e si temeva, da anni: la Provincia di Lecce, da isola felice, ha fatto un salto in alto sulla linea delle patologie tumorali. La crescita in 14 anni, a partire dai ridenti ’90, è stata tale da allineare il territorio alla media nazionale. E, di fatto, si è esaurita quella differenza virtuosa nei confronti del Nord del Paese.

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I dati hanno spinto la Lega per lotta contro i tumori ad approfondire cause e concause del fenomeno per puntare sulla prevenzione primaria, attraverso il progetto di ricerca Geneo, condotto in partenariato con Università del Salento, Provincia di Lecce e Asl di Lecce. Al progetto hanno collaborato anche i responsabili del Registro tumori di Lecce e del Laboratorio Alfa di Poggiardo.

Lo studio mirava a trovare una correlazione tra le matrici ambientali e la grave situazione epidemiologia. In altre parole, gli enti coinvolti hanno messo in piedi una squadra di esperti chiamata a scovare i fattori dell’inquinamento dei suoli che agiscono nello sviluppo di patologie tumorali, di tipo immunitario e genetiche.

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I risultati, per quanto ancora parziali, sono stati resi noti nel corso di una conferenza stampa che si è tenuta presso Palazzo Adorno a Lecce alla presenza, tra gli altri, del presidente della Provincia, Antonio Gabellone, del direttore del dipartimento di Prevenzione della Asl di Lecce, Giovanni De Filippis, del docente dell’Università del Salento, Angelo Corallo, del responsabile dello sviluppo Dss, Antonio Calisi, del responsabile di Ecotossicologia, Antonio Calisi, dell’oncologo Giuseppe Serravezza.

Lo studio Geneo si è basato sull’analisi dei campioni di terra prelevati dai suoli di 32 Comuni del Salento: è stato sondato un terzo del territorio, ma la ricerca è suscettibile di estendersi agli altri territori che ne hanno fatto richiesta.I primi risultati non lasciano sereni, per quanto dalla Lilt non abbiano lanciato un vero e proprio allarme. I testi di biotossicità hanno rivelato in alcune aree verdi (come Cutrofiano, Giuggianello e Botrugno) una possibile correlazione tra inquinamento ambientale e situazione epidemiologica della popolazione.

In più, nei suoli presi a campione, è stata trovata una presenza significativa di alcuni contaminanti (Arsenico e Berillio) e, in misura minore, del Vanadio.

Arsenico e Berillio nei terreni: la ricerca Geneo su inquinamento e tumori
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Metalli pesanti, quindi, che rivelano uno stato di contaminazione che non è compatibile con le aree verdi prese a campione. Neppure scontato. Per quanto riguarda l’Arsenico e le sue possibili sorgenti, i ricercatori spiegano che la ricerca dei pesticidi è risultata negativa.

L’analisi delle diossine, furani e Pcb (i cui livelli sono nei limiti di legge), suggerisce possibili sorgenti di contaminazione che dovranno essere oggetto di ulteriori approfondimenti.

In altre parole l’inquinamento di alcune aree verdi è stato accertato e la circostanza non lascia sereni, come spiegato dal responsabile scientifico del progetto, Giuseppe Serravezza: “Lo studio Geneo ha rivelato un preoccupante stato di contaminazione del suolo in molte parti del Salento: ciò fa temere un peggioramento della situazione epidemiologica nel prossimo futuro. Pertanto, alla luce delle ben note emergenze ambientali gravanti sul nostro territorio, riteniamo non più rinviabile il monitoraggio ambientale a salvaguardia della salute della popolazione”.

Infine un appello rivolto alle istituzioni: “Devono attivarsi quanto prima per individuare le possibili sorgenti del grave inquinamento da noi riscontrato, e predisporre tutti gli interventi tecnici, amministrativi e politici necessari”.

Arsenico e Berillio nei terreni: la ricerca Geneo su inquinamento e tumori

La ricerca nel dettaglio

Il gruppo di esperti ha ricercato le caratteristiche pedologiche fondamentali (tessitura, pH, Carbonio organico, rH), i metalli pesanti e gli Ipa (idrocarburi policiclici aromatici), i pesticidi (insetticidi, fungicidi) e le diossine (Pcdd, Pcdf e Pcb). In seconda battuta sono stati effettuati dei test ecotossicologici, utilizzando un sistema sperimentale e innovativo, al fine di rilevare gli effetti dei contaminanti chimici negli ecosistemi. I test sono stati compiuti su “organismi sentinella”, cioè sui lombrichi, messi a contatto con i vari terreni.

In parole povere, contando il numero dei lombrichi morti entro 14 giorni, si è giunti alla conclusione che i terreni non hanno una tossicità acuta, cioè immediata. Per quanto riguarda la tossicità cronica, sul lungo periodo, alcuni terreni si sono avvicinati alla soglia limite: è il caso di Cutrofiano e Maglie.

I risultati nel complesso non sono allarmanti, ma “essere posizionati sotto la soglia non vuol dire sentirsi tranquilli”, commentano i responsabili Lilt che premono per proseguire nella ricerca scientifica così da monitorare la situazione.

Arsenico e Berillio nei terreni: la ricerca Geneo su inquinamento e tumori

La Provincia di Lecce, intanto, è stata suddivisa in tre aree che presentando, rispettivamente, un rischio epidemiologico alto, intermedio e basso. I Comuni in cui l’incidenza dei tumori è maggiore sono Zollino, Caprarica di Lecce, Calimera, Martignano, Castrì di Lecce, Sannicola, Tuglie, Sogliano Cavour, Cutrofiano, Melpignano, Maglie e Galatina. E ancora: Giuggianello, Minervino di Lecce, Sanarica, Nociglia, Botrugno, Diso, Santa Cesarea Terme, Ortelle, Morciano di Leuca, Patù, Salve, Castrignano del Capo e Gagliano del Capo.

Novoli, Campi Salentina, Squinzano si collocano nella fascia intermedia. Infine i Comuni che presentano un rischio basso sono Porto Cesareo, Leverano, Miggiano, Montesano Salentino.

Nelle 9 aree selezionate, gli esperti non hanno trovato una correlazione diretta e significativa tra situazione epidemiologica e contaminazione del suolo. La vera sorpresa è stata il rilevamento dei metalli pesanti già menzionato.

Arsenico e Berillio nei terreni: la ricerca Geneo su inquinamento e tumori
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l progetto Geneo

Geneo inaugura la linea di ricerca in Oncologia ambientale del nascente Centro Ilma Llt, l’Istituto Scientifico in via di ultimazione a Gallipoli interamente ed esclusivamente finanziato dalla comunità locale per dotare il territorio di una struttura sanitaria ispirata a criteri di sostenibilità e di sicurezza per la salute degli organismi viventi.

La presentazione del report finale, oltre che per la valenza scientifica di conoscere lo stato di salute dei suoli posti a studio e le sue implicazioni prospettiche, è occasione di condivisione sociale di rilievo per l’ufficializzazione del primo lavoro scientifico del Centro Ilma, opera di solidarietà comunitaria ed esempio di investimento dal basso.

articolo di marina Schirinzi su lecceprima

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note :

il berillio. Il berillio è un metallo alcalino terroso color grigio acciaio, rigido, leggero ma fragile. E’ usato principalmente come agente rafforzante nelle leghe (rame-berillio) ed è da considerarsi un carcinogeno per l’uomo. Il berillio e i suoi sali sono sostanze tossiche e cancerogene riconosciute. La berilliosi cronica è una malattia polmonare granulomatosa causata dall’esposizione al berillio. Il berillio è dannoso se inalato, gli effetti dipendono dai tempi e dalla quantità di esposizione. Se i livelli di berillio nell’aria sono sufficientemente alti, si può andare incontro a una condizione che ricorda la polmonite ed è chiamata berilliosi acuta. L’esposizione al berillio per lunghi periodi può incrementare i rischi di sviluppare il cancro ai polmoni. L’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) ha stabilito che il berillio è una sostanza cancerogena.

Il vanadio. Il vanadio è un elemento raro, duro e duttile, che si trova sotto forma di composto in certi minerali. Si usa soprattutto in metallurgia, per la produzione di leghe.Il vanadio in polvere è infiammabile e tutti i suoi composti sono considerati altamente tossici, causa di cancro alle vie respiratorie quando vengono inalati. Il più pericoloso è il pentossido di vanadio. L’OSHA (l’ente statunitense per la sicurezza sul lavoro) ha fissato un limite di esposizione per il pentossido di vanadio in polvere e di per i vapori del medesimo. Un limite di 35 mg/m³ di composti di vanadio è considerato critico; non va mai superato in quanto è alta la probabilità che causi danni permanenti o la morte.

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QUANDO SEI ALLA FRUTTA CON I PESTICIDI

Da ” il fatto quotidiano ”

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I residui di pesticidi sono su due alimenti su tre, tra quelli che poi risultano regolari, soprattutto sulla frutta. Nel rapporto annuale ‘Stop ai pesticidi’, Legambiente spiega come resti elevata la quantità di residui derivanti dall’impiego dei prodotti fitosanitari in agricoltura, che i laboratori pubblici regionali hanno rintracciato in campioni di ortofrutta e prodotti trasformati. A preoccupare non sono tanto i campioni fuorilegge, che non superano l’1,3% del totale, quanto quel 34% di campioni regolariche presentano uno o più residui di pesticidi. E il problema vero, infatti, è il multiresiduo, che la legislazione europea non considera ‘non conforme’ se ogni singolo livello di residuo non supera il limite massimo consentito. Il risultato? Boscalid, Chlorpyrifos, Fludioxonil, Metalaxil, Imidacloprid, Captan, Cyprodinil sono i pesticidi più diffusi negli alimenti campionati in Italia. Si tratta di fungicidi e insetticidi utilizzati in agricoltura. “Non si vedono e non si sentono – scrive Legambiente – ma troppo spesso sono lì, nonostante il nostro Paese abbia adottato un Piano d’Azione Nazionale che mira a una sensibile riduzione del rischio associato ai pesticidi per la tutela della salute dell’uomo e dell’ambiente”.

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IL RAPPORTO ‘STOP PESTICIDI’ – Nel 2017 i laboratori pubblici italiani, accreditati per il controllo ufficiale dei residui di prodotti fitosanitari negli alimenti, hanno inviato i risultati per 9.939 campioni analizzati. Il 61% sono regolari e senza residuo. “Un risultato che registriamo come positivo – spiega Legambinete – ma che da solo non basta a far abbassare l’attenzione su quanti e quali residui si possono rintracciare negli alimenti e permanere nell’ambiente”. In primis a causa del multiresiduo, spesso fatto passare per conforme “benché sia noto da anni che le interazionidi più e diversi principi attivi tra loro possano provocare effetti additivi o addirittura sinergici a scapito dell’organismo umano”. Il multiresiduo è più frequente del monoresiduo: è stato ritrovato nel 18% del totale dei campioni analizzati, rispetto al 15% dei campioni con un solo residuo

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QUEI CAMPIONI ‘REGOLARI’ DI FRUTTA – La frutta è la categoria dove si concentra la percentuale maggiore di campioni regolari multiresiduo. È privo infatti di residui di pesticidi solo il 36% dei campioni analizzati, mentre l’1,7% è irregolare e oltre il 60%, nonostante sia considerato regolare, presenta uno o più di un residuo chimico. Il 64% delle pere, il 61% dell’uva da tavola e il 57% delle pesche sono campioni regolari con multiresiduo. Le fragole spiccano per un 54% di campioni regolari con multiresiduo e anche per un 3% di irregolarità. Alcuni campioni di fragole, anche di provenienza italiana, hanno fino a nove residuicontemporaneamente. Situazione analoga per l’uva da tavola, che è risultata avere fino a sei residui. I campioni di papaya sono risultati tutti irregolari per il superamento del limite massimo consentito del fungicida carbendazim.

GLI ALTRI ALIMENTI – Per la verdura il quadro è contraddittorio. Da un lato, il 64% dei campioni risulta senza alcun residuo. Dall’altro, si riscontrano significative percentuali di irregolarità in alcuni prodotti, come l’8% di peperoni, il 5% degli ortaggi da fusto e oltre il 2% dei legumi, rispetto alla media degli irregolari per gli ortaggi (1,8%). Ad accomunare la gran parte dei casi di irregolarità è il superamento dei limiti massimi di residuo consentiti per i fungicidi, tra cui il più ricorrente è il boscalid. Inoltre, alcuni campioni di pomodoro provenienti da Sicilia e Lazio presentano fino a sei residui simultaneamente, e un campione di lattuga proveniente dal Lazio addirittura otto. Passando ai prodotti di origine animale, undici campioni di uovaitaliane (il 5% del totale campionato) risultano contaminate dall’insetticida fipronil. Sul fronte dell’agricoltura biologica, i 134 campioni analizzati risultano regolari e senza residui, ad eccezione di un solo campione di pere, di cui non si conosce l’origine, che risulta irregolare per la presenza di fluopicolide.

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I PRODOTTI IMPORTATI – In generale, nel confronto tra i campioni esteri e italiani, quelli a presentare più irregolarità e residui sono i primi: sono irregolari infatti il 3,9% dei campioni esteri rispetto allo 0,5% di quelli nazionali. Presentano inoltre almeno un residuo il 33% dei campioni, rispetto al 28% di quelli italiani. La frutta estera è la categoria in cui si osserva la percentuale più alta di residui: il 61% di tali campioni presenta almeno un residuo. Tra gli ortaggi, il 51% dei pomodori e il 70% dei peperoni esteri contengono almeno un residuo. Oltre alla percentuale più alta di multiresiduo, pomodori e peperoni presentano anche il maggior numero di irregolarità, rispettivamente il 7% e il 4% del totale analizzato. Quest’anno il record è di un campione di peperone di provenienza cinese, con 25 residui di pesticidi. Al secondo posto c’è un campione di pepe, proveniente dal Vietnam, con 12 residui, seguito da una pomacea prodotta in Colombia con 15 residui diversi. In particolare, 14 campioni presentano da 6 a 25 residui contemporaneamente. Di questi uno arriva dalla Grecia e 13 sono di provenienza extra-Ue.

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RISCHI CHIMICI ALLA GUIDA : GAS , POLVERI DI GOMME, ASFALTO E FRENI

 da dottnet.it

Esperti, rischi pure da polveri che si staccano da asfalto-freni

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Non solo gas di scarico dei veicoli, camini e caldaie: all’aria ‘cattiva’ delle nostre città contribuisce anche il consumo degli pneumatici, dell’asfalto e dei freni delle auto. Secondo una recente revisione di 99 studi internazionali, che a breve sarà pubblicata sul Bollettino dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e coordinata da Fulvio Amato, ricercatore del Consejo Superior de Investigaciones Cientificas di Barcellona, le micropolveri che si staccano dall’asfalto, dalle gomme e dai freni e si depositano sul fondo stradale, contribuiscono infatti a circa la metà dell’inquinamento da traffico automobilistico.

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A richiamare l’attenzione su questo problema, gli esperti riuniti a Milano per il Seminario Internazionale ‘RespiraMi 3: Air Pollution and our Health’, organizzato dalla Fondazione Irccs Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico e dalla Fondazione Internazionale Menarini. La polvere che gomme e freni rilasciano sulle strade, avvertono, è altrettanto dannosa dei gas di scarico perché contiene un mix di sostanze chimiche tossiche e cancerogene che possono causare malattie cardiovascolari e respiratorie nelle aree fortemente trafficate, soprattutto nei bambini e negli anziani.  “Il tubo di scappamento degli autoveicoli incide per il 50% nella produzione delle polveri sottili da traffico, ma l’usura soprattutto dei freni, asfalto e pneumatici influisce per il restante 50% – osserva Sergio Harari, direttore Unità Operativa di Pneumologia Ospedale San Giuseppe di Milano – perchè si producono microscopici frammenti di metalli, minerali e gomma che poi si disperdono nell’aria e vengono inalati. Solo di recente si è iniziato a comprendere la tossicità di queste fonti, fino ad oggi, sottovalutate”.

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La fabbricazione delle pastiglie dei freni e degli pneumatici coinvolge molti prodotti chimici tossici, da metalli pesanti a resine e composti plastificanti. Un mix di sostanze che rende il particolato inquinante presente nelle strade più trafficate particolarmente deleterio. Nelle zone dove il traffico è intenso le polveri da pneumatici, freni e asfalto “possono contribuire all’incremento degli attacchi di asma in bambini e anziani – aggiunge Pier Mannuccio Mannucci, professore emerito di Medicina Interna, Università di Milano -. Inoltre la polvere degli pneumatici può incrementare le allergie ed entra nei polmoni soprattutto di neonati e bimbi, che inalano più particelle degli adulti, in quanto camminano o vengono trasportati su carrozzine a un’altezza tra i 55 e i 90 cm da terra e sono particolarmente vulnerabili perché il loro organismo è in via di sviluppo. In questi casi, sarebbe perciò preferibile l’utilizzo di zaini, marsupi o passeggini rialzati”.

Tali polveri costituiscono inoltre una particolare minaccia per gli anziani, i quali hanno polmoni già indeboliti da età e malattie soprattutto. “Purtroppo – affermano gli esperti – ci sono pochi studi che hanno permesso di misurare i tassi, il formato, la distribuzione e la composizione di questi inquinanti poco conosciuti e largamente sottovalutati né esiste un rimedio immediato a tale problema, a parte la riduzione del traffico”. Ma una proposta per ridurne l’impatto, concludono gli specialisti, potrebbe essere limitare la velocità e l’accesso al centro città dei veicoli pesanti e lavare più spesso le strade per rendere più pulita anche l’aria.

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AMIANTO, SCOPERTE NUOVE MOLECOLE CONTRO IL MESOTELIOMA PLEURICO

Ricerca dell’Università di Torino: inibiscono la crescita del tumore

Una ricerca dell’Università di Torino identifica nuove molecole che inibiscono la crescita del mesotelioma pleurico maligno, tumore raro e molto aggressivo che aggredisce il mesotelio, una sottile membrana che riveste la pleura dei polmoni ed è associato all’esposizione all’amianto.

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  Il tumore ha un periodo di latenza molto lungo, durante il quale rimane asintomatico e le sue terapie sono attualmente limitate.  Il risultato è stato pubblicato sulla rivista americana Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas).

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Riccarda Granata, della Divisione di Endocrinologia e Metabolismo del Dipartimento di Scienze Mediche, ha dimostrato in collaborazione con colleghi di altre Università come delle piccole molecole, i cosiddetti antagonisti dell’ormone growth hormone-releasing hormone (Ghrh), siano capaci di inibire la crescita delle cellule tumorali nel mesotelioma pleurico maligno in diversi modelli sperimentali.

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Questi effetti erano già stati dimostrati in altri modelli, incluso il tumore della prostata e del polmone, ma non nel mesotelioma pleurico maligno. Oltre a bloccare i meccanismi responsabili della progressione del tumore, è stato dimostrato che le molecole identificate sono in grado di potenziare l’azione antitumorale del ‘pemetrexed’, il chemioterapico d’elezione per il trattamento del mesotelioma.

fonte: Proceedings of the National Academy of Sciences

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