Intervista pubblicata su La stampa a SHERRI MASON ricercatrice americana pioniera sulle microplastiche
Non si conoscono ancora i possibili effetti sulla salute, né si è del tutto sicuri dei percorsi che compiono per arrivare nell’acqua e nel suolo. Una cosa però è ormai certa: le microplastiche sono dappertutto. E Sherri Mason, ricercatrice americana della Penn State University, pioniera negli studi su questa subdola forma di inquinamento, non ha dubbi: “Ci sono aree del Pianeta in cui la concentrazione è maggiore che in altre, ma nessun luogo può dirsi libero dal problema”.
Ospite dell’ultima edizione del Festival del Giornalismo Alimentare di Torino , Mason ha fatto il punto sullo stato della ricerca in materia, sfatando anche alcune convinzioni comuni sulle microplastiche che ingeriamo. Come il credere più sicure le acque in bottiglia rispetto a quella del rubinetto di casa.
Dall’oceano ai Grandi Laghi
Se il problema dell’inquinamento da plastica di mari e oceani è tragicamente visibile ed è al centro dell’attenzione mediatica, lo stesso non si può dire delle microplastiche nell’acqua dolce. Di minuscoli frammenti rinvenuti nei pesci che poi finiscono sulle nostre tavole si parla ormai da tempo, mentre – forse per effetto di una rimozione collettiva – è solo da qualche anno che le indagini hanno cominciato a concentrarsi sull’elemento base di qualunque dieta: l’acqua da bere.
Una delle pioniere in questo campo è stata, già dal 2012, Sherri Mason, la cui terra d’origine ha giocato un ruolo fondamentale nella scelta della sua materia di ricerca. “Sono della Pennsylvania, vivo nella regione dei Grandi Laghi – racconta a Tuttogreen – Il Lago Superiore, il Michigan, l’Huron, l’Eire e l’Ontario, tutti connessi fra loro, costituiscono il più vasto sistema d’acqua dolce del mond o. Un bacino su cui una popolazione di 35 milioni di persone fa affidamento per il proprio sostentamento. Mi sono chiesta quanta plastica e soprattutto quanta microplastica ci fosse in queste acque. Ho scoperto che gli ultimi due laghi della catena, l’Eire e soprattutto l’Ontario, con 230mila particelle per km quadrato, hanno una concentrazione di microplastiche pari ai mari più inquinati del Pianeta. Un dato che ha ovviamente attirato le preoccupazioni dell’opinione pubblica”.
Il team di ricerca ha quindi cominciato ad indagare le vie attraverso cui la plastica arriva in fiumi e laghi: packaging, materiali per la pesca, lavaggio di tessuti in fibre sintetiche.
“Ci siamo anche spostati altrove, in zone remote del mondo, intrecciando collaborazioni con altri istituti di ricerca. Ad esempio siamo andati ad analizzare i laghi della Mongolia. È stato interessante paragonare i risultati qualitativi di aree così diverse e lontane. Se nella regione dei Grandi Laghi negli Stati Uniti abbiamo trovato molte microplastiche provenienti dal lavaggio di capi sintetici, nei laghi mongoli, invece, ciò che abbiamo rinvenuto più di frequente erano residui blu di materiale espanso usato dai pescatori come galleggiante per le esche. Se spesso la portata dell’inquinamento da plastica causa una sensazione di impotenza, questi dati possono invece aiutare a capire un concetto importante: ciò che usiamo ogni giorno è ciò che poi finisce nell’acqua. Perciò sta a noi riuscire a cambiare le nostre abitudini e l’organizzazione delle nostre società per avere un effetto diretto sull’acqua che beviamo”.
La via delle microplastiche verso la catena alimentare
Dallo scaffale del supermercato alle acque di un lago, di un fiume, del mare, e poi di nuovo su, verso il frigorifero o la tavola. Quello delle plastiche è un viaggio andata e ritorno. Così Sherri Mason, dopo essere andata alla ricerca del percorso che le porta all’acqua, si è messa a indagare la strada contraria, che da lì le introduce nella catena alimentare.
Il primo passo è stato il sale marino. Ispirandosi a un analogo studio condotto in Cina, Mason e il suo team hanno analizzato diverse tipologie di confezioni, dalla busta in plastica alla scatola in cartone, scoprendo che, in media, ogni kg di sale contiene 212 particelle di microplastiche. Poi è stato il turno della birra: quella prodotta nel distretto dei Grandi Laghi contiene 4,05 particelle per litro ed è paradossalmente più “salutare” dell’acqua.
All’acqua potabile, quella del rubinetto di casa, è stata infine dedicata una ricerca molto più vasta e ambiziosa. In collaborazione con Orb Media , Mason ha infatti passato in rassegna campioni di acqua presi in 159 paesi di tutto il mondo, trovando particelle di microplastiche con un’incidenza dell’83% dei casi (in USA il 94%, in Europa il 72%). “In media – spiega – abbiamo rinvenuto 5,45 particelle per litro. Facendo una stima sulla base dei dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sul consumo di acqua potabile, questo significa che beviamo 5100 particele di microplastiche all’anno. Insieme al sale, invece, ne ingeriamo 180 all’anno”.
Acqua del rubinetto o in bottiglia?
“Dopo aver divulgato i risultati della ricerca, mi sarei aspettata che la gente scendesse in piazza e chiedesse l’intervento del Governo. Invece le persone hanno cominciato a comprare più acqua in bottiglia, pensando fosse più sicura”. Mason non si è però lasciata prendere dallo sconforto, e ha intrapreso una seconda indagine. Con la Fredonia University e Orb Media si è dunque concentrata sulle acque in bottiglia, passando in rassegna un’ampia scelta di marchi da tutto il mondo: tra gli altri, Danone, PepsiCo, Evian, Nestlè, Coca-Cola, San Pellegrino e la cinese Wahaha.
“Le microplastiche erano presenti nel 93% dei campioni, quindi con un’incidenza maggiore rispetto all’acqua corrente. La quantità di particelle per litro è addirittura doppia rispetto all’acqua del rubinetto: 10,4 particelle/litrocontro 5,45”. Oltre alle microplastiche classiche, quelle con diametro dell’ordine di grandezza di un capello, il team ha trovato in ogni litro analizzato più di 300 particelle con dimensioni inferiori ai 100 micron. “Più piccole sono, e più sono insidiose – spiega Mason – Perché hanno maggiore probabilità di essere assorbite dal sistema gastro-intestinale e arrivare al sistema circolatorio e linfatico, fino al cervello”.
Interessante è poi la morfologia delle plastiche trovate: il 54% è polipropilene (il moplen), con cui sono fatti la maggior parte dei tappi delle bottiglie. E c’è poi un buon 10% di polietilene (PE o PET), cioè il materiale di cui sono fatte le stesse bottiglie. Insomma, una grossa percentuale di particelle proviene proprio dagli imballaggi che dovrebbero preservare la purezza dell’acqua…
Paure e prese di coscienza
Se gli effettivi impatti sulla salute delle microplastiche che ingeriamo non sono ancora chiari (“è questa la nuova frontiera della ricerca”, precisa Mason), ipotesi e preoccupazioni stanno però già prendendo forma. “Io sono una chimica e la mia preoccupazione riguarda gli elementi chimici che possono essere presenti nelle o sopra le plastiche. Le microplastiche possono fare da piattaforma per trasportare vari agenti chimici potenzialmente pericolosi all’interno del nostro organismo. Le plastiche stesse contengono poi vari composti che hanno funzione di stabilizzanti UV, antiossidanti o ignifughi, e di questi in realtà conosciamo già i possibili effetti. Sappiamo ad esempio che sono correlati a certi tumori o che possono agire da perturbatori endocrini, cioè alterare l’equilibrio ormonale. Per alcuni di questi composti si stanno addirittura studiando delle correlazioni con l’autismo”.
Se la maggior parte degli studiosi evita di scatenare allarmismi (“l’assorbimento di microplastiche da parte dell’organismo è al massimo di un grammo all’anno”, ricorda ad esempio Giorgio Gilli dell’Università di Torino), è vero tuttavia che saranno sempre più necessarie regole ferree circa la composizione dei polimeri della plastica.
E dopotutto, se anche la paura delle microplastiche si diffondesse, potrebbe forse essere un bene: sarebbe la spinta necessaria per cambiare finalmente la rotta di una società insostenibilmente “plastivora”.
“Siamo andati avanti usando questo materiale ormai per decenni, ma avevamo una società anche prima della plastica. Dobbiamo fare un passo indietro – conclude Sherri Mason – La plastica è nata per essere un materiale indistruttibile, perciò dobbiamo smetterla di utilizzarla per prodotti usa e getta. Ormai la usiamo più per comodità che per vera necessità ed è ora di uscire da questo sistema. Si può, cominciando dalla quotidianità. Ad esempio evitando di bere acqua in bottiglia e scegliendo quella del rubinetto. A proposito, l’acqua italiano è molto pulita, si può bere tranquillamente!”.