DIRITTO DEL LAVORO

VADEMECUM ISO 45001

Il 12 marzo del 2018 è uscita la norma ISO 45001, che sostituirà progressivamente il sistema di gestione OHSAS 18001 (data definitiva: 11 marzo 2021, ndr.), che tutti conoscono come condizione esimente per la responsabilità amministrativa dei modelli 231. L’obiettivo della norma introdotta dall’International Organization for Standardization (ISO) è proteggere dipendenti e visitatori da incidenti e malattie legate al lavoro: si tratta del primo standard internazionale per la salute e la sicurezza sul lavoro ..

Il primo aspetto da cui partire è l’analisi del contesto. «Bisogna ragionare sui rischi aziendali, non più e non solo in una logica di sicurezza sul lavoro tradizionale, con focus solo sui documenti di valutazione dei rischi. Bisogna ragionare all’interno di un ecosistema, in cui l’aspetto di rischio viene analizzato sulla filiera del trasporto, in una visione di cluster aziendale, considerando l’impatto degli outsourcer rispetto ai fattori di rischio in materia di salute e sicurezza sul luogo di lavoro».

Il secondo aspetto è legato alla competenza e consapevolezza dei lavoratori. «Il tema della consapevolezza è molto battuto e dibattuto. Se la formazione è un tema ricorrente, vista la sua obbligatorietà in materia di sicurezza, la consapevolezza è qualcosa di più: si tratta di verificare il livello di impatto sull’organizzazione, le regole organizzative alla prevenzione del rischio». Affrontare questo tema vuol dire verificare, intervistare il personale che lavora per comprendere se siano adottate in modo corretto le procedure aziendali.

Il terzo aspetto, importante da rilevare e approfondire, è la valutazione dei rischi. «Tutti hanno in testa la valutazione dei rischi tradizionale, che fa riferimento alla compliance e all’obbligo previsto dall’articolo 28 dell’81/08. «La norma ISO 45001 ci invita a fare una riflessione diversa, considerare la sicurezza fuori dal perimetro tradizionale, e verificare anche in fase di progettazioni l’impatto che possono avere sul lavoro o sull’health and safety ad esempio le attività svolte fuori dal luogo di lavoro presidiato dal datore di lavoro, dai dirigenti e dei preposti».

«E poi c’è il tema del cambiamento», «Cambiano i processi aziendali, cambiano i flussi di lavoro, cambiano i processi produttivi e quindi gli impianti: è necessario pensare in anticipo all’impatto che si avrà a livello di health and safety. E, infine, non si deve trascurare il fattore umano. Fidarsi solo delle macchine è il modo peggiore per affrontare il tema della sicurezza. Il punto centrale della sicurezza sul lavoro è e sarà sempre il fattore umano».

Da digital4.biz

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CLICK DAY INAIL IL 14/06/2019

Da la stampa

L’Inail comunica che il 14 giugno 2019, dalle ore 15:00 alle ore 15:20, si svolge il click-day valido per l’accesso ai finanziamenti Isi di cui al Bando 2018. Le imprese, che hanno raggiunto o superato la soglia minima di ammissibilità prevista e salvato definitivamente la propria domanda, possono accedere alla procedura informatica ed effettuare il download del codice identificativo necessario per procedere con l’inoltro online della domanda. Sono, inoltre, disponibili le regole tecniche con le indicazioni sulle modalità operative di partecipazione al click day 2019.

Ricordiamo che Inail mette a disposizione Euro 369.726.206,00 suddivisi in 5 Assi di finanziamento, differenziati in base ai destinatari. Con questo ricco bando l’Inail persegue l’obiettivo di incentivare le imprese a realizzare progetti per il miglioramento documentato delle condizioni di salute e di sicurezza dei lavoratori e di incentivare le microimprese e le piccole imprese, anche nel settore dell’agricoltura, allo stesso obiettivo di un miglioramento di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

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SANZIONI PER IL MEDICO COMPETENTE SE NON COLLABORA CON IL DATORE DI LAVORO

Fonte : Inail

Continua l’attenzione che i magistrati pongono a carico dell’attività del Medico Competente. È noto che da tempo l’attività del Medico Competente viene sempre più considerata come importante ai fini del miglioramento continuo del benessere dei lavoratori. Un ruolo che non è più confinato alla mera sorveglianza sanitaria e agli accertamenti di idoneità, ma che valorizza il suo apporto scientifico anche nella valutazione dei rischi e alla promozione della salute.

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Alcuni mesi fa è stato pubblicato il contenuto di una sentenza della Cassazione Penale (Cass. Penale, Sez. III, 9 Agosto 2018 n. 38402) proprio centrata sul tema della , previsto dall’art. 25 c.1 lett. a) del testo Unico e sanzionato dall’art.58. Stiamo quindi parlando di violazioni alla collaborazione che si sono verificate dopo l’introduzione del nuovo testo del 2008, anzi per essere ancora più precisi con le correzioni apportate dal successivo decreto 106 del 2009.

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La sentenza non introduce rilevanti novità: piuttosto ribadisce, con ancora maggiore forza e chiarezza ciò che precedenti sentenze, citate nel dispositivo, e in particolare la sentenza del 2013 n. 1856 della Cassazione, già hanno dichiarato. Infatti in quest’ultima sentenza la Suprema Corte stabiliva che

l’obbligo di collaborazione col Datore di Lavoro cui è tenuto il medico competente… non presuppone necessariamente una sollecitazione da parte dello stesso Datore di lavoro, ma comprende anche un’attività propositiva e di informazione.

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In sostanza il medico competente consapevole dei propri obblighi di collaborazione non deve, per attivarsi, attendere la sollecitazione del Datore di lavoro, ma agire di propria iniziativa, semplicemente adempiendo quanto la norma gli assegna come ruolo.

La sentenza del 2018 ricorda, sulla scia di quanto finora detto, che nel procedere alla valutazione dei rischi il Datore di lavoro: “deve necessariamente essere coadiuvato da soggetti quali, appunto il medico competente, portatori di specifiche conoscenze professionali tali da consentire un corretto espletamento dell’obbligo” previsto a suo carico. È dunque fatto obbligo al medico di prestare questa collaborazione “il cui adempimento può essere opportunamente documentato”ovviamente nell’ambito della specifica qualificazione professionale.

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Già da queste prime frasi capiamo bene il ruolo del Medico Competente e di quanto spesso questa collaborazione, nella realtà, venga meno. Con la silente ignavia del Datore di lavoro il quale spende dei soldi per retribuire una figura professionale che non svolge appieno la sua attività. Insomma, uno spreco di risorse economiche oltre che una inefficiente valutazione dei rischi aziendali.

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Come se non bastasse la sentenza ricorda che il ruolo del medico va svolto non solo assumendo

elementi di valutazione dalle informazioni che gli vengono fornite dal datore di lavoro, ma anche quelle che può e deve direttamente acquisire di sua iniziativa ad esempio in occasione delle visite agli ambienti di lavoro di cui all’art. 25, lett I) o perché fornitegli direttamente dai lavoratori sottoposti a sorveglianza sanitaria o d altri soggetti.

Qui emerge una seconda frequente mancanza. Non sono pochi le aziende in cui i lavoratori dichiarano di incontrare il medico unicamente in occasione delle visite e di non vederlo o di vederlo raramente visitare i reparti e gli ambienti di lavoro. Se così fosse da dove prende le informazioni il medico per farsi un’idea, dal suo punto di vista professionale, dei rischi a cui vanno incontro i lavoratori?

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È questo il caso presentatosi nella recente sentenza e sanzionato dalla Corte proprio perché l’assenza di una attiva collaborazione si traduceva “in una mera inerte attesa delle iniziative del datore di lavoro”. Proseguendo la sentenza ricorda che le omissioni “hanno natura di reato permanente e di pericolo astratto” prescindendo dai possibili concreti danni che possano provocare. Il medico viene quindi sanzionato a prescindere dal fatto che la sua “inerzia” possa aver contribuito o meno a una conseguenza dannosa per i lavoratori.

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STRESS E STRATEGIE DI COPING

DAhttps://www.stateofmind.it/2018/10/stress-coping/

Di Roberto Minotti e Jasmine Di Benedetto

 

Durante la l’uomo e la donna avevano dei ruoli sociali ben definiti dal loro milieu e conseguenzialmente a ciò il maschio aveva maturato un habitus guerriero che lo spingeva ad andare a caccia, in generale a procacciare cibo per il sostentamento del gruppo domestico, della tribù. La femmina rispettava le disposizioni da lei incorporate procreando e preoccupandosi della cura, della gestione e dell’educazione della prole.

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Nel complesso il gruppo domestico viveva in una società semplice dove il pericolo era sempre in agguato ed era rappresentato da un animale feroce da cui doversi difendere, da una calamità naturale, dall’aggressione di una tribù vicina.

Queste situazioni di pericolo generano nel cervello degli impulsi che attivano il nervo vago smart ventrale il quale inibendosi produce una reazione di tipo attacco/fight o di evitamento/flight, funzionale alla sopravvivenza e, per tale ragione, si è trasmessa di generazione in generazione per giungere sino a noi. Il nostro sistema nervoso autonomo ha quasi del tutto perso l’impulso primitivo, animalesco di congelamento/freezer indotto dal nervo vago dorsale più antico, che risulta essere maladattativo per l’uomo/animale sociale in quanto non permette lo sviluppo delle relazioni/affiliazioni sociali.

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Questo perché viviamo in una società complessa dove il rischio di vivere situazioni estremamente pericolose è quasi assente rispetto all’antichità o comunque contestualizzabile in situazioni limite come guerre, terrorismo, calamità naturali, incidenti, ecc.. Abbiamo ereditato geneticamente queste risposte automatiche inibitorie in quanto funzionali alla sopravvivenza, che vengono attivate o riattivate quando l’individuo ha subito un trauma che ha riguardato la sua sicurezza ed incolumità, andando a modificare sia il suo livello fisiologico di risposta a stimoli, sia il livello cognitivo ed emotivo.

È sufficiente il ricordo del trauma per innescare una serie di processi fisiologici quali palpitazioni, problemi respiratori, iper-sudorazione come se la persona stesse nuovamente rivivendo il trauma reale; ciò dipendente da quello che la nostra mente produce partendo da schemi mentali (reti neurali) che, proprio a causa dell’evento traumatico, tende a cristallizzarsi, non permettendo la sana connessione tra diverse zone dell’encefalo. Potremmo dire che il trauma rappresenta l’assenza di metabolismo tra le vare aree dell’encefalo che tendono continuamente all’associazione e alla connessione.

La comprensione dello stress

In una prospettiva psicologica, lo stress non è considerato come una condizione assoluta che può colpire le persone, ma come un accadimento che diventa problematico solo qualora sottoponga un individuo a un dispendio di energie superiore al livello da lui considerato accettabile.

Fondamentale è il momento della valutazione del processo mentale, durante il quale un individuo dà ad un evento un significato soggettivo e personale.

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È il percepire l’evento come stressante, che lo rende tale. Se un individuo considera le proprie risorse come adeguate a far fronte alle richieste che gli arrivano dall’esterno, può adattarsi con successo anche se le domande ambientali sono considerevoli. Questo processo si chiama coping e considera tutte le strategie che l’individuo mette in atto per risolvere le difficoltà.

Lazarus e Folkman (1984) definiscono il coping come gli sforzi costanti, sia cognitivi che comportamentali, di cambiare o gestire specifiche domande interne o esterne che sono valutate come gravose o eccessive per le risorse della persona ed i processi di valutazione delle strategie da adottare sono essenzialmente due: la valutazione primaria e secondaria.

Folkman e Lazarus (1988) considerarono quindi otto principali strategie di coping:

  • attivazione di confronto
  • di stanziamento
  • autocontrollo
  • ricerca di supporto sociale
  • accettazione della responsabilità
  • fuga ed evitamento
  • problem solving programmato
  • rivalutazione positiva

Questi autori differenziano due tipi di coping: quello centrato sul problema e quello centrato sull’emozione. Nel processo di coping centrato sul problema l’individuo analizza il problema per capirlo meglio, lo elabora e segue un piano di azione. In questo contesto, la persona chiede anche consiglio a persone amiche o familiari e talvolta anche a persone specializzate come uno psicologo.

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Nel coping centrato sull’emozione, il soggetto cerca di rimuovere il problema o di osservarne soltanto il lato positivo; rivaluta positivamente tutta la faccenda e si rifiuta di pensarci eccessivamente.

I processi di coping possono, quindi, aiutare gli individui a mantenere l’adattamento psicosociale durante le condizioni di difficoltà che sono fondamentali per resistere allo stress. Questa capacità è il potere o l’abilità di ritornare alla forma di composizione originale dopo essere stati piegati, schiacciati o sottoposti a forti tensioni.

Mccubbin, Thompson, Thompson e Futrell (1999) individuano le seguenti caratteristiche principali per la resilienza: l’elasticità e la galleggiabilità.

Secondo questi autori i fattori critici per il recupero rispetto alla condizione di difficoltà sono:

  • la capacità di integrazione
  • il supporto nella costruzione del senso di stima
  • l’ottimismo
  • la fiducia in sé ed uguaglianza
  • il sostegno di guida
  • i significati
  • lo schema

Un contributo importante viene anche da Olson, che ha definito un suo modello (MASH – Multisystem Assessment of Stress and Healh) che per valutare i concetti di stress, delle strategie di coping e adattamento considerando quattro unità di analisi: l’individuo, la coppia, la famiglia e il sistema sociale e lavorativo.

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Secondo questa ipotesi quanto più un individuo, una coppia, una famiglia, un gruppo di lavoro privilegiano, nei momenti di stress, gli aspetti di vicinanza emotiva e di flessibilità circa le regole e le strutture di potere e sviluppano una buona comunicazione, tanto più l’evento stressante ha la possibilità di essere superato.

È oramai accertato che lo stress non è da considerarsi negativo, piuttosto una moneta a due facce (Farrè, 1999). Fino a quando il livello delle catecolamine, dei cortisteroidi danno tono all’organismo e alla psiche preparando l’individuo ad una prestazione ottimale, tale processo è positivo e benefico; quando viceversa i livelli fisiologici e psichici oltrepassano la soglia di guardia tale processo può divenire nocivo. Queste due risposte vengono definite nella letteratura riguardante lo stress come: eustress (dal greco eu “bene”) e distress (dal greco dys “peggiore”). Secondo Richard Earle, direttore del Canadian Istitute of Stress,

l’eustress è qualcosa di molto simile a quanto chiamiamo vitalità; in altre parole, è tutta l’efficacia dell’energia da stress e riduce al minimo la velocità dell’invecchiamento (Earle, Imrie & Archbold, 1990)

Non bisogna però dimenticare l’altra faccia della medaglia quando cioè il continuo accumularsi di stimoli stressori porta ad un’eccessiva attivazione fisiologica e quindi a intensi periodi disadattamento generale dell’individuo.

Nella tabella di seguito proposta sono riassunte le conseguenze ai vari gradi stressappena descritti e le tipologie di risposta date dall’organismo.

Tabella 1 (Farrè, 1999):

vari gradi di stress

Sono state formulate alcune ipotesi secondo cui l’iniziale livello di stress che migliora le risposte mentali e fisiche dell’individuo, con l’aumento del grado di stress porti invece ad un loro decadimento.

Un’ipotesi denominata degli sprechi cognitivi, afferma che gli eventi più stressantisono proprio quelli che sfuggono al nostro controllo perché richiedono da parte dell’individuo una continua ed intensa attenzione.

La seconda ipotesi, detta del senso della frustrazione, è relativa alle risposte di fastidio, aggressive e di rabbia derivanti dalla frustrazione per lo stress percepito.

L’ultima teoria, del senso d’impotenza, afferma appunto che un individuo che si imbatta in ripetuti insuccessi per raggiungere un obiettivo difficile, tenda successivamente a trascurare anche gli obiettivi più semplici.

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Questa teoria deriva da quella formulata da Martin E.P. Seligman (l’impotenza appresa) (1975); che grazie ad un suo ormai noto esperimento (Ricordiamo che tale esperimento prevedeva il coinvolgimento di tre gruppi di studenti. Il primo gruppo era esposto ad uno stressore: un ronzio e dovevano farlo cessare premendo i pulsanti giusti su di un pannello posto di fronte a loro, ma nessun pulsante poteva far smettere tale ronzio poiché l’apparecchiatura era finta. Il secondo gruppo era anch’esso esposto al ronzio, ma la sua apparecchiatura era efficace e rispondeva ai comandi. Il terzo gruppo non era sottoposto ad alcun rumore. Nella seconda fase dell’esperimento tutti e tre i gruppi erano esposti al rumore e potevano, manovrando una cassetta, far cessare il rumore.

I risultati dimostrarono che il secondo ed il terzo gruppo ben presto impararono ad usare la cassetta per far cessar il ronzio, mentre il primo gruppo non utilizzò la cassetta subendo tutto il fastidio per l’intera durata dell’esperimento) arrivò a descrivere tre caratteristiche circa l’impotenza appresa: motivazionale (in cui la persona non fa nulla per cambiare lo stato di stress), cognitiva (la stessa persona non riesce ad apprendere le strategie idonee affinché cambiare tale stato) ed emotiva (in cui la persona può ammalarsi di depressione).

Successivamente Seligman (1991) cambiò l’espressione impotenza appresa con pessimismo appreso mettendo l’accento proprio sull’incapacità del soggetto nel trovare soluzioni e strategie efficaci alla risoluzione dell’evento stressante.

Nell’uomo, infatti, gli stressori più comuni sono quelli di tipo sociale e psicologico; il presente studio cercherà di esaminare ed evidenziare come alcuni tratti psicologici, stimoli sociali e comportamenti interagiscano tra loro determinando reazioni spesso disadattive.

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Sembra oramai ben chiara la correlazione tra sistema immunitario, sistema nervoso centrale e stress (Mezzani & Pacciolla, 2002). Situazioni psicologicamente intollerabili per l’organismo si possono tradurre in malattia organica.

Specifici studi effettuati su animali di laboratorio sembrano confermare che l’alto livello di stress modifichi in qualche misura anche il sistema vegetativo, endocrino, immunitario e che in ultima analisi, influenzi il decorso di malattie organiche gravi.

La correlazione tra psiche e soma è meglio spiegabile quando il locus of control, quando questo è di tipo esterno, cioè l’individuo tende a darsi spiegazioni più irrazionali senza nessuna base conoscitiva, le conseguenze allo stress appaiono più gravi.

Donald Meichenbaum (1995) è giunto all’elaborazione di un programma (stress inoculation training) tenendo conto dell’aspetto cognitivo. Secondo questo autore, attraverso un addestramento all’immunizzazione dallo stress, l’individuo arriva ad affrontare meglio lo stress considerando tale terapia equivalente al classico vaccino.

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La prima fase di immunizzazione incomincia con l’apprendimento del senso dello stress e della sua natura cognitiva. Si procede quindi ad affrontarlo in modo adeguato e alla modificazione delle cognizioni errate. L’ultimo step è insegnare al soggetto ad applicare queste nuove conoscenze in situazioni reali. Tra le procedure per la padronanza ed il controllo dello stress si procede con tecniche di rilassamento; queste modalità risultano essere molto efficaci a fronteggiare lo stress come pure il ricorso a strategie cognitive atte a ristrutturare i problemi e gestirli in maniera più adeguata. Questa pratica comprende anche giochi di ruolo e modellamenti con il terapeuta e anche esercitazioni in situazioni reali (Pervin & John, 1997).

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100 ANNI DI SFIDE E UNO SGUARDO AL FUTURO PER IL CENTENARIO DI ILO INTERNATIONAL LABOUR ORGANIZATION

Una nuovo interessante report  su “Occupational Safety and Health (OSH), pubblicata in vista della Giornata mondiale per la sicurezza e la salute sul lavoro” dell 28 aprile, esamina i 100 anni di successi dell’ILO e rivela alcune delle sfide e opportunità emergenti nella creazione di ambienti di lavoro migliori .

clicca qui sotto per il volume in pdf

https://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/—dgreports/—dcomm/documents/publication/wcms_686645.pdf

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qui sotto anche il video:

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IL FUTURO DEL LAVORO E 100 ANNI DI ILO

L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) celebra il suo 100° anniversario nel 2019.

Il mondo del lavoro è sottoposto ad un processo di grandi cambiamenti che avvengono ad una velocità tale da trasformare il lavoro come mai prima d’ora. I fattori che intervengono ad influenzare queste trasformazioni sono molti: la globalizzazione e l’internazionalizzazione dei mercati, le tendenze demografiche, le innovazioni tecnologiche e i cambiamenti climatici sono solo alcuni dei fattori chiave del cambiamento.

L’ILO, al fine di comprendere e rispondere efficacemente a questi cambiamenti e far avanzare l’obiettivo della giustizia sociale, ha dato impulso ad un’iniziativa dedicata al “futuro del lavoro”, come una delle sette iniziative per il suo centenario. L’iniziativa si rivolge universalmente a tutti i costituenti tripartiti dell’ILO ma anche al mondo accademico e agli altri attori coinvolti nei processi di grandi cambiamenti.

Da ILO.org

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QUANDO IL LICENZIAMENTO DI UN DISABILE E’ ILLEGITTIMO

dal sito di ipsoa.it

articolo di Eufranio Massi – Esperto di Diritto del Lavoro e Direttore del sito www.dottrinalavoro.it

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Nell’ambito del sistema delle tutele crescenti permangono specifiche ipotesi di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato. Una di queste riguarda i dipendenti portatori di handicap. In tal caso la disciplina reintegratoria trova applicazione quando risulta non dimostrata la m otivazione addotta dal datore di lavoro circa l’impossibilità di mantenere in forza il lavoratore perché divenuto inidoneo (o maggiormente inidoneo) allo svolgimento dell’attività affidata o alla prestazione di lavoro notturno. Quali maggiori tutele può vantare il disabile in caso di licenziamento? E cosa succede se l’azienda non lo reintegra?

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Il dibattito relativo all’indennità risarcitoria prevista in caso di licenziamento illegittimo dovuto a giusta causa, giustificato motivo oggettivo o soggettivo, susseguente alla sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale (che ha dichiarato incostituzionale l’art. 3, comma 1, del D. Lgs. n. 23/2015 nella parte in cui correla l’indennità al solo requisito, seppur importante, dell’anzianità aziendale) non può far dimenticare che, sia pure in modo ridotto rispetto all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300/1970), all’interno dell’art. 2, siano presenti specifiche ipotesi di reintegra. Una di queste riguarda i dipendenti portatori di handicap.
Ma, cosa afferma la disposizione appena richiamata?

Inidoneità alla mansione e lavoro notturno

La disciplina reintegratoria totale trova applicazione nelle ipotesi in cui, in giudizio, anche attraverso accertamenti affidati a consulenti di ufficio, venga accertato che la motivazione addotta dal datore di lavoro circa l’impossibilità di mantenere l’occupazione in favore di un lavoratore divenuto inidoneo (o maggiormente inidoneo) allo svolgimento dell’attività, risulta non dimostrata. Il Legislatore delegato fa riferimento ad una casistica che comprende, esplicitamente, gli articoli 4, comma 4 e 10, comma 3 della legge n. 68/1999 ma che, attraverso la parola “anche”, sottintende altre ipotesi che fanno, senz’altro riferimento all’art. 42 del D. Lgs. n. 81/2008 (inidoneità alla mansione specifica) ed alla inidoneità alla prestazione di lavoro notturno, secondo la previsione contenuta nel D. Lgs. n. 66/2003.
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Per quel che concerne i casi richiamati dalla legge n. 68/1999 ricordo che l’art. 4, comma 4, si occupa dei dipendenti divenuti inabili, in conseguenza di un infortunio od una malattia, con una riduzione della capacità lavorativa pari o superiore al 60%: costoro, in caso di destinazione a mansioni inferiori, hanno diritto alla conservazione del più favorevole trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza, con il mantenimento di eventuali indennità, a differenza della previsione contenuta, in via generale, nell’art. 2103 c. c., comma 5.
Il recesso appare possibile soltanto se non vi sia la possibilità di assegnazione a mansioni equivalenti od inferiori.
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L’art. 10, comma 3, concerne l’ipotesi dell’aggravamento dello stato di salute o di significative variazioni alla organizzazione del lavoro intervenute. La disposizione prevede accertamenti sanitari da parte degli organi competenti cosa che non comporta, in alcun modo, la risoluzione del rapporto che, invece, può intervenire allorquando venga accertato che, pur attuando specifici adattamenti nell’organizzazione del lavoro, non è possibile una occupazione proficua. Di recente, la Cassazione ha riconosciuto la legittimità del licenziamento nella ipotesi in cui “lo specifico adattamento nella organizzazione del lavoro” comporti significativi cambiamenti di orario nelle prestazioni svolte da altri dipendenti interessati.
Per completezza di informazione ricordo anche la previsione del comma 4 dell’art. 10: il licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo (siamo, peraltro, al di fuori delle ipotesi appena trattate) è annullabile qualora, al momento della cessazione del rapporto, il numero dei restanti lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva prevista dall’art. 3 della legge n. 68/1999.
Passo, ora, ad esaminare un’altra ipotesi contenuta nel D. Lgs. n. 81/2008.
La previsione dell’art. 42 trae origine dalle visite mediche obbligatorie del medico competente che abbiano accertato una inidoneità totale (o parziale) del lavoratore alla mansione svolta (art. 41, comma 6). Ebbene, il datore di lavoro è obbligato ad attuare le misure indicate dal medico competente finalizzate anche alla adibizione del lavoratore a mansioni equivalenti od inferiori con la garanzia del trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza: se non ci riesce, pur avendo esaminato varie nuove ipotesi organizzative, può procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, fornendo la prova dell’avvenuto tentativo di repechage.
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L’ultima ipotesi richiamata riguarda il lavoro notturno che i dipendenti, fatte le eccezioni espressamente previste dalla legge, sono tenuti a prestare a meno che non ne sia stata accertata l’inidoneità attraverso le strutture sanitarie pubbliche. In presenza di apposita certificazione che la certifichi, il datore di lavoro può trasferire il dipendente al lavoro diurno, sempre che sia disponibile un posto per mansioni equivalenti (art. 15, comma 1, del D. Lgs. n. 66/2003). Se ciò non è possibile e se la contrattazione collettiva (art. 15, comma 2) non ha individuato soluzioni alternative al recesso, il rapporto può essere risolto per giustificato motivo oggettivo.
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Risarcimento del danno e opting out

Ma, oltre alla reintegra, cosa spetta al lavoratore portatore di handicap?
Il giudice dispone un risarcimento del danno non inferiore alle 5 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto che comprende il periodo intercorrente tra la data del licenziamento ed il giorno della effettiva reintegra, dedotto soltanto l’eventuale “aliunde perceptum” per altra attività, nel frattempo, svolta, (a mio avviso, ci rientra anche il trattamento di NASpI), con il pagamento per il medesimo periodo dei contributi previdenziali ed assicurativi.
Il rapporto di lavoro si intende risolto se il lavoratore non riprende servizio nei 30 giorni successivi all’invito del datore di lavoro a meno che non sia stato esercitato il diritto all’”opting out”. Tale diritto si sostanzia nella facoltà di chiedere al datore, in sostituzione della reintegrazione, una indennità pari a quindici mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto: la richiesta determina la risoluzione del rapporto e la somma non viene assoggettata ad alcun contributo previdenziale. Dal giorno della richiesta, economica, sostitutiva della reintegra, non matura più l’indennità risarcitoria. La richiesta va presentata entro il termine perentorio di 30 giorni dal deposito della pronuncia giudiziale o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla comunicazione del deposito.
La perentorietà del termine sta a significare che, se l’”opting out” non viene esercitato entro il periodo considerato dalla legge, esso decade.
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Ultima retribuzione

Ma cosa si intende per ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto?
Qui, l’ovvia correlazione è rappresentata da ciò che afferma l’art. 2120 c.c. il quale stabilisce che nella retribuzione da accantonare annualmente vanno computate tutte le sommecorrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro a titolo non occasionale, comprese quelle in natura ed escluse quelle che trovano la loro ragione nel rimborso spese.
Quindi, retribuzione mensile oltre al rateo delle mensilità aggiuntive ed ai “elementi non occasionali”.
Una breve riflessione va riservata agli elementi non occasionali della retribuzione utili ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto: vanno computati quelli collegati al rapporto lavorativo o connessi alla particolare organizzazione (Cass., 19 febbraio 2009; Cass., 3 novembre 2008, n. 11002) o in dipendenza con le mansioni stabilmente svolte (Cass., 14 giugno 2005, n. 24875). Da ciò discende che ai fini del calcolo è sufficiente che il lavoratore ne abbia goduto in via normale, pur non essendo lo stesso definitivo. Vanno esclusi soltanto gli elementi sporadici ed occasionali, collegati a situazioni aziendali fortuite ed imprevedibili. Per i beni in natura (ad esempio, l’alloggio) occorre fare riferimento al valore normale del bene e non all’eventuale valore convenzionale fissato ai fini fiscali o contributivi.
A mero titolo esemplificativo e non esaustivo, si riportano alcune voci relative alla computabilità:
a) lavoro straordinario: ci rientra se prestato con frequenza in relazione alla particolare organizzazione del lavoro o, anche, allorquando viene forfetizzato;
b) indennità per lavoro notturno, festivo o a turni: ci rientra se essa è espressione della normale programmazione aziendale;
c) alloggio: ci rientra se c’è una effettiva connessione tra l’attribuzione e la posizione lavorativa (Cass., 12 aprile 1995, n. 4197);
d) premi di fedeltà: ci rientrano se la liberalità originaria si è trasformata in un vincolo obbligatorio (Cass., 29 febbraio 2008, n. 5427);
e) indennità di trasferta: ci rientra se costituisce una stabile componente della retribuzione (Cass., 24 febbraio 1993, n. 2255);
f) indennità per i trasfertisti: ci rientra se il disagio derivante dall’attività fuori sede viene retribuito in modo strutturale come voce della retribuzione ordinaria (Cass., 20 dicembre 2005, n. 28162);
g) indennità per lavoratori impegnati all’estero: ci rientrano in quanto viene compensata la maggiore gravosità ed il disagio ambientale (Cass., 19 febbraio 2004, n. 3278);
h) indennità di cassa se corrisposta in maniera continuativa (Cass., 7 giugno 1968 n. 1739);
i) indennità di cuffia (Cass., 10 maggio 1980, n. 3089);
l) indennità sostitutiva del preavviso pur non essendo il corrispettivo di una prestazione di lavoro (Cass., 22 febbraio 1993, n. 2114).
Riprendendo la domanda sul significato di ultima retribuzione di riferimento utile per il calcolo del trattamento di fine rapporto, ritengo che la risposta non possa che far riferimento alla retribuzione annuale accantonata per il calcolo del TFR (comprensiva dei ratei delle mensilità aggiuntive), divisa per i mesi dell’anno, senza alcun reale riferimento alla retribuzione dell’ultimo mese sulla quale, in alcune realtà aziendali che hanno punte stagionali o attività caratterizzate da saltuarietà, potrebbero interferire elementi transitori.
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Cosa succede se il datore di lavoro non ottempera all’ordine di reintegra?

Oltre al pagamento delle retribuzioni il lavoratore può chiedere un risarcimento del danno, attivabile con un’azione giudiziaria diversa, in quanto si ritiene leso nella propria professionalità.
Non è possibile, invece, alcuna forma di esecuzione specifica, atteso che la Cassazione, con sentenza n. 9965 del 18 giugno 2012 ha affermato che “l’ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato non è suscettibile di esecuzione specifica, in quanto l’esecuzione in forma specifica è possibile per le obbligazioni di fare di natura fungibile, mentre la reintegrazione nel posto di lavoro comporta non soltanto la riammissione del lavoratore nell’azienda (e cioè un comportamento riconducibile ad un semplice “pati”) ma anche un indispensabile ed insostituibile comportamento attivo del datore di lavoro di carattere organizzativo – funzionale, consistente, fra l’altro, nell’impartire al dipendente le opportune direttive, nell’ambito di una reciproca ed infungibile collaborazione, secondo gli orientamenti già espressi dalla Suprema Corte nelle sentenze n. 9125/1990 e n. 112/1988”.

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