SALUTE DEL CUORE ED INQUINAMENTO AMBIENTALE.

24 Ottobre 2022

Numerosi e innovativi gli argomenti proposti dalla XXXIX edizione del congresso “Conoscere e Curare il Cuore”, organizzata dalla Fondazione “Centro Lotta contro l’Infarto” dal 20 al 23 ottobre 2022 a Fortezza da Basso – Firenze.

Dal sito Pharmastar.it

L’eziopatogenesi degli eventi aterotrombotici è complessa e dipende dai ben noti fattori di rischio modificabili e non modificabili come la predisposizione genetica, lo stile di vita e fattori ambientali; tra questi ultimi, l’inquinamento atmosferico sta richiamando l’attenzione sempre maggiore dei ricercatori. Sebbene ci siano molte evidenze sugli effetti dannosi multisistemici dell’inquinamento atmosferico, un recente documento congiunto della European Respiratory Society (ERS) e della American Thoracic Society (ATS) ha identificato l’apparato cardiovascolare come il suo principale bersaglio.

L’inquinamento atmosferico è una miscela complessa di gas (monossido e ossido di azoto, ozono, diossido di zolfo, ammoniaca), goccioline volatili (chinoni e idrocarburi aromatici policiclici) e particolato (particulate matter, PM), una miscela eterogenea comunemente classificata sulla base delle dimensioni delle particelle in particolato grossolano (PM10: diametro aerodinamico <10 µm), fine (PM2.5: diametro aerodinamico <2.5 µm) e ultra-fine (PM0.1: diametro aerodinamico <0.1 µm). Negli ultimi 30 anni, diversi studi hanno inequivocabilmente correlato gli inquinanti atmosferici e soprattutto il particolato, alle malattie cardiovascolari. Il particolato fine è la principale componente dell’inquinamento atmosferico che causa malattie cardiovascolari.

Ad oggi, sia l’esposizione a breve termine – ore o giorni – sia l’esposizione a lungo termine – anni o decadi –, si sono dimostrate associate direttamente o indirettamente al rischio di malattia coronarica. Infatti, mentre diversi studi prospettici di coorte hanno evidenziato come l’esposizione prolungata al PM2.5 si associava allo sviluppo di aterosclerosi e di fattori di rischio cardio-metabolici, quali ipertensione arteriosa e diabete mellito, l’esposizione a breve termine al PM2.5 si è dimostrata un trigger per eventi coronarici acuti, soprattutto in soggetti con malattia coronarica preesistente.  In una meta-analisi pubblicata nel 2014, Cesaroni et al. dimostravano che l’esposizione prolungata al particolato era associata ad aumentata incidenza di eventi coronarici nelle 11 coorti incluse nell’European Study of Cohorts for Air Pollution Effects (ESCAPE). Lo studio dimostrava un aumento del 13% di eventi coronarici acuti non fatali per ogni 5 µg/m3 di aumento di esposizione al PM2.5, e un aumento del 12% di eventi coronarici per ogni 10 µg/m3 di aumento del PM10. Anche una più recente meta-analisi pubblicata nel 2021 ha dimostrato come l’esposizione prolungata al PM2.5 e al PM10 si associ a rischio di infarto miocardico. Dati recenti supporterebbero inoltre l’ipotesi che i pazienti con malattia coronarica preesistente siano a maggior rischio di sperimentare eventi coronarici acuti rispetto ai soggetti sani dopo esposizione di breve durata a più alte concentrazioni di inquinanti atmosferici.

Alterata funzionalità del microcircolo nelle donne

“Una patologia che sembra colpire maggiormente le donne – commenta Francesco Prati, Presidente della Fondazione Centro per la Lotta contro l’Infarto – è l’alterata funzionalità del microcircolo (coronary microvascular dysfunction, CMD).  Questa malattia, infatti, è più frequente nel sesso femminile e non a caso molti studi sono stati condotti nelle donne. Secondo una definizione recentemente accolta dalla comunità internazionale, l’alterata funzionalità del microcircolo richiede segni e/o sintomi di ischemia miocardica in assenza di malattia coronarica ostruttiva significativa. La CMD è pertanto responsabile di ischemia miocardica ed in qualche caso angina, in assenza di stenosi significative del distretto epicardico. In altri casi, la CMD può rappresentare una concausa di angina anche in presenza di malattia coronarica, cardiomiopatie o scompenso cardiaco. E’ lecito chiedersi se il microcircolo possa essere chiamato in causa per la complicanza più temibile della cardiopatia ischemica: l’infarto miocardico. Sono disponibili diverse tecniche, invasive e non, per analizzare lo stato funzionale del microcircolo coronarico.

In pazienti con vasi epicardici indenni da lesioni significative, la riserva di flusso coronarico (coronary flow reserve, CFR) fornisce una attendibile stima della funzione del microcircolo. Ulteriore indice invasivo di analisi del microcircolo è l’indice di resistenza microvascolare (index of microvascular resistence, IMR) che sfrutta il principio di termodiluizione e può essere agilmente determinato attraverso una guida intracoronarica di pressione e temperatura. Tra le tecniche non invasive, l’ecocolordoppler transtoracico rappresenta sicuramente la metodica di più immediato utilizzo e basso costo, benché spesso ostacolata dalla intrinseca difficoltà nell’ottenimento di un segnale doppler coronarico ottimale. Lo stato funzionale del microcircolo può essere indagato anche mediante risonanza magnetica cardiaca (RMC), strumento utilizzato in particolare per studiare il fenomeno di no-reflow causato da ostruzione del microcircolo dopo ripristino della pervietà del vaso epicardico responsabile di infarto. L’indagine tramite tomografia ad emissione di positroni (PET), per la sua capacità di quantificare in maniera affidabile il flusso sanguigno per grammo di miocardio, rappresenta attualmente il gold standard tra le metodiche di imaging per lo studio del microcircolo. In molti casi la CMD causa semplicemente ischemia da sforzo o a riposo, in assenza di angina. Analogamente ai soggetti con malattia coronarica epicardica, i pazienti con CMD possono accusare angina pectoris tipica, così come sintomi atipici o dispnea da sforzo. Inoltre – conclude Francesco Prati – l’angina nei soggetti con CMD può comparire anche a riposo, soprattutto in coloro che presentano un meccanismo vasospastico o di aumento del tono dei piccoli vasi. Non c’è dubbio che l’angina dovuta a CMD peggiori la qualità di vita. Secondo le linee guida internazionali, l’impiego di una strategia atta all’individuazione dei soggetti con CMD e dei meccanismi che ne sono responsabili, si traduce in un miglioramento della qualità di vita”.

Poligenic risk score ed età
Un aiuto in più nella prevenzione cardiovascolare del giovane? E’ ormai ampiamente accettato che età, sesso, fumo, dislipidemia, ipertensione, obesità, mancanza di attività fisica e diabete sono i principali fattori di rischio per lo sviluppo di malattia aterosclerotica cardiovascolare (ASCVD). È anche riconosciuto che questi fattori di rischio interagiscono in modo moltiplicativo per incrementare il rischio vascolare del singolo individuo. Tutte le principali linee guida raccomandano la valutazione del rischio di ASCVD utilizzando gli scores di rischio. Infatti, è stato dimostrato che il loro utilizzo a livello di popolazione aumenta l’accuratezza della previsione di eventi e facilita la scelta delle strategie da adottare in prevenzione primaria. Peraltro, nonostante siano stati validati, la loro abilità predittiva a livello individuale non è eccellente. Inoltre, alcuni parametri hanno un peso sproporzionato: l’età, ad esempio, gioca un ruolo eccessivo nella valutazione del rischio. La necessità di migliorare i modelli tradizionali è evidenziata anche dalla incidenza di casi di infarto che sfuggono alla valutazione del rischio. Infatti, fino al 27% dei casi di infarto miocardico non presenta i fattori di rischio utilizzati nei classici modelli predittivi.

Per la maggior parte della popolazione, il rischio ereditario è dovuto all’impatto cumulativo di molte comuni varianti genetiche, note come polimorfismi di un singolo nucleotide (SNPs), ognuna delle quali ha un modesto effetto sul rischio perché non è in grado di determinare una alterazione del gene. Tuttavia, quando queste varianti si sommano tra di loro determinano un significativo aumento del rischio genetico di sviluppare un particolare fenotipo, configurandone così il suo “rischio poligenico”. In questa prospettiva, la previsione di un rischio significativo richiede allora l’esame dell’impatto aggregato di queste varianti multiple, ovvero i punteggi poligenici o i punteggi di rischio poligenico, che consentono questa complessa valutazione.

Studi su larga scala effettuati negli ultimi anni hanno permesso lo sviluppo di punteggi poligenici basati su polimorfismi, chiamati comunemente in lingua inglese Poligenic Risk Scores “(PRSs). Questo punteggio diventa allora uno strumento di predizione del rischio, a prescindere dall’età, troppo spesso considerata una variabile dal peso eccessivo nella valutazione del rischio nei modelli tradizionali, e quindi un aiuto in più nella prevenzione cardiovascolare del giovane perché basato su parametri genetici. Il nostro patrimonio genetico, infatti, è sostanzialmente stabile dalla nascita e determina un “rischio di base” sul quale agiscono influenze esterne. Le informazioni genetiche hanno quindi il potenziale per essere un precoce predittore di rischio. Il PRS allora fornisce una gamma più ampia di rischi probabilistici, simile ad altri biomarcatori come il colesterolo e la pressione arteriosa.

Non solo scienza, tecnica e farmaci, ma anche stili di vita. 
Bere il vino con moderazione fa bene oppure no? Il dibattito sugli effetti di salute di dosi “moderate” del vino, e più in generale di alcool, è andato via via radicalizzandosi negli ultimi anni. Una parte della comunità scientifica, e la quasi totalità delle istituzioni nazionali ed internazionali che si occupano dell’argomento, ha infatti scelto di focalizzare la propria attenzione, e quindi quella dei medici e del pubblico, soprattutto sugli effetti dell’alcool sul rischio di tumori, concludendo che poiché qualunque consumo alcoolico è associato ad un aumento del rischio di queste patologie, solo il consumo zero può essere considerato scevro da rischi; l’altra parte della comunità scientifica ritiene invece necessario contestualizzare queste evidenze, peraltro ben note, negli effetti complessivi dell’alcool sulla salute del consumatore, e tenendo quindi conto dell’impatto del consumo moderato di alcool sul rischio di eventi cardiovascolari e sulla mortalità per tutte le cause.

Dall’analisi della letteratura emerge che, specie se mantenuti entro limiti lievemente più bassi (due drink al giorno per gli uomini ed uno per le donne), tali consumi si associano ad una riduzione del rischio coronarico, minimizzando l’impatto sull’aumento del rischio di tumori, e con un effetto globale favorevole sulla mortalità per tutte le cause, che va considerato il parametro di maggior interesse al proposito. In uno studio recente, il rischio cardiovascolare si riduce progressivamente per consumi crescenti fino a 48-60 g di alcool giorno; per questi livelli di consumo la riduzione è del 50% circa. Meno marcato sembra essere l’effetto protettivo associato al consumo di alcool sul rischio di ictus: gli eventi di natura ischemica sembrerebbero ridotti, ma aumenterebbe il rischio di eventi emorragici. Tra le patologie cardiovascolari l’unica ad aumentare in maniera significativa e dose-correlata, al crescere del consumo di alcool, è la fibrillazione atriale. Sul piano meccanicistico è tuttavia importante osservare che i consumi moderati di alcool si associano a modificazioni di parametri biochimici note per svolgere un effetto antiaterosclerotico. Aumentano per esempio i livelli della colesterolemia HDL, che rappresenta un fattore protettivo nei confronti dell’aterosclerosi coronarica (anche se oggi tale aumento è considerato in genere non rilevante) e si sviluppa un’azione antinfiammatoria, che si traduce in livelli più bassi della proteina C reattiva e dell’interleuchina IL-6. Si osserva inoltre, in genere, un miglioramento della sensibilità all’insulina, ed una riduzione del rischio di sviluppare la malattia diabetica, che certamente contribuisce al rischio di eventi coronarici.

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