LONG COVID : COME VALUTARE SE SI È GUARITI.

14 Giugno 2021

Da HUFFPOST

 Giovanni Puglisi – Primario Pneumologo Emerito dell’Azienda Ospedaliera S.Camillo-Forlanini di Roma)

Ora che l’estensione del programma vaccinale sta gradualmente limitando la diffusione Covid-19, si rafforza l’interesse clinico-terapeutico sulle conseguenze della malattia rappresentate da un gruppo di sintomi denominato Long Covid.

Con questa espressione si vuole evidenziare che il termine guarigione quando si parla di Covid-19 non è propriamente adeguato se si prende in considerazione la sola negativizzazione del tampone nel senso che la malattia prosegue anche dopo la fase acuta per il perdurare di vari disturbi. In buona sostanza il risultato negativo del tampone non basta per dichiarare il paziente guarito.

Numerosi pazienti continuano a segnalare alcuni sintomi, ramificazioni della patologia, per un tempo protratto (tuttora non ben chiaro quanto a lungo; nella mia esperienza al momento posso testimoniare non meno di 2-3 mesi) che non consente a chi è sopravvissuto alla malattia di ritornare alla vita e al lavoro in idonee condizioni di salute.

Pazienti reduci da un Covid-19 lieve, moderato o grave possono rivelare i sintomi post-Covid: affanno, astenia, dolori articolari, palpitazioni, disturbo dell’olfatto e del gusto, vertigini, diarrea, complicazioni di carattere neurologico, stati depressivi, ovviamente con le dovute differenze. È infatti bene sottolineare che i soggetti che si riprendono con più difficoltà sono quelli che hanno avuto necessità di essere ricoverati (in particolare in unità di terapia intensiva) e Il 70% circa di questi pazienti con maggiore probabilità presenta un aumentato rischio di mortalità, di un nuovo ricovero e di una serie di patologie a carico di uno o più organi.

Mi preme soffermarmi sui problemi cardiovascolari e respiratori dovuti al Covid-19. Per quanto riguarda i primi, l’esperienza insegna che le infezioni virali possono provocare disturbi del ritmo cardiaco, causare una malattia cardiovascolare o aggravarne una pregressa, arrecare disturbi a carico delle arterie coronariche. Nel meccanismo patologico delle citate affezioni sembrano entrare in gioco un’azione infiammatoria sistemica accompagnata da uno stato infiammatorio a livello dei vasi arteriosi.

Sono tuttavia ancora da chiarire, e oggetto di ricerca, diversi aspetti legati alle sequele cardiovascolari, come per esempio le modalità temporali di persistenza delle complicazioni. Esperienza pratica e dati della letteratura scientifica hanno ampiamente dimostrato che i danni e le conseguenze principali dell’infezione da coronavirus sono a carico dell’apparato respiratorio.

Come si è già detto, dopo la fase acuta problematiche cliniche possono seguitare a manifestarsi nel tempo e numerosi pazienti stentano a riprendersi, in particolare per quanto riguarda il ritorno alla normalità funzionale respiratoria. Dopo l’infezione da coronavirus, lo studio della funzionalità respiratoria del paziente ha un ruolo fondamentale per diagnosticare gli eventuali danni intervenuti a carico dell’apparato respiratorio, definirne la severità e indirizzare la terapia. In sintesi, ecco gli strumenti diagnostici utilizzati nella valutazione del profilo funzionale respiratorio del soggetto.

La spirometria rappresenta il più semplice e comune test di funzionalità respiratoria ed ha scopi: di carattere diagnostico (diagnosi delle malattie delle vie aeree e del parenchima polmonare come asma, BPCO, interstiziopatie e diagnosi di malattie professionali nei soggetti con esposizione occupazionale) anche con finalità medico-legali; di monitoraggio (stima della risposta alla terapia farmacologica e dei processi riabilitativi, valutazione del decorso e della evoluzione della malattia, indicazioni di carattere prognostico); di screening (fumatori, soggetti esposti a inquinanti ambientali per motivi professionali, soggetti che svolgono attività sportiva); di carattere epidemiologico e di ricerca.

Non è questa la sede per parlare delle tecniche di esecuzione dell’esame spirometrico e del significato diagnostico che detto esame è in grado di fornire, né dell’importanza dei volumi polmonari, giova tuttavia citare che l’indagine consente di differenziare le sindromi ostruttive da quelle restrittive.

Nelle patologie respiratorie ostruttive è ridotto il calibro delle vie aeree con conseguente ostacolo al flusso respiratorio per cause quali: asma, BPCO, enfisema; nelle patologie restrittive (sono queste implicate nel decorso post-Covid) è presente una riduzione dei volumi polmonari per: ridotta distensibilità della parete toracica, perdita di parenchima polmonare, fibrosi polmonare, compressione polmonare, debolezza dei muscoli respiratori.

Tra i parametri rilevabili, nelle sindromi restrittive assume importanza la Capacità Polmonare Totale (TLC), cioè il volume di aria complessivo contenuto nei polmoni dopo una inspirazione massima. La forma restrittiva è presente nell’eventuale insorgenza di una fibrosi polmonare conseguente a una polmonite interstiziale in soggetto con infezione da coronavirus e l’esame spirometrico consente di stadiarne la gravità (ecco la sua importanza) in particolare attraverso la valutazione della capacità polmonare totale, parametro pertanto indispensabile, considerato normale quando è maggiore dell’80% del valore atteso.

Una volta che la diagnosi di pneumopatia restrittiva è stata posta, la spirometria ripetuta nel tempo può essere utile per valutare i cambiamenti dei parametri funzionali, che possono essere correlati alla progressione della malattia o alla risposta alla terapia. Un’altra indagine preziosa e incruenta è Il test di diffusione alveolo-capillare del monossido di carbonio (CO) noto come DLCO (Diffusion Lung CO) che valuta una parte importante della respirazione; il processo di diffusione dell’ossigeno e dell’anidride carbonica dall’ambiente alveolare al sangue capillare e viceversa attraverso la membrana alveolo-capillare con un meccanismo di diffusione passiva. Il test consente di valutare l’integrità di tale membrana per mezzo di una classificazione di gravità delle alterazioni della DLCO.

Nella polmonite interstiziale e nella sua evoluzione fibrotica, caratteristica del Covid-19, ci troviamo di fronte ad un’alterazione dell’interstizio polmonare che rappresenta il tessuto di rivestimento degli alveoli; tale alterazione, danneggiando gli alveoli e la membrana alveolo-capillare, può compromettere gli scambi gassosi e determinare una grave insufficienza respiratoria.

L’emogasanalisi arteriosa, eseguita tramite un prelievo di sangue dall’arteria radiale per valutare gli scambi gassosi in pazienti con patologia polmonare, è indispensabile per fare diagnosi di insufficienza respiratoria cronica e monitorarne il decorso. Esame indicato quando la saturazione di ossigeno nel sangue, la SpO2, misurata con un semplice saturimetro, scende a valori al di sotto del 93%.

Completa lo studio della funzionalità respiratoria il test del cammino, test che valuta la capacità di esercizio del paziente attraverso la misurazione della distanza che è in grado di  percorrere in un tempo di 6 minuti. Riflette il livello di capacità funzionale di esercizio giornaliera del paziente. Utile nella gestione del paziente dopo infezione da Coronavirus è la valutazione radiologica attraverso la TAC del torace ad alta risoluzione. Questa indagine radiologica è in particolare impiegata nella diagnosi delle interstiziopatie e fibrosi polmonari. È un esame che non utilizza mezzo di contrasto e che permette di ottenere immagini ad alta definizione.

Le indagini diagnostiche sopra esposte sono indubbiamente utili nel processo assistenziale al paziente che si trova nella fase post acuzie di Covid-19. Non è ancora tuttavia ben definita una elaborazione organica delle procedure temporali di effettuazione delle indagini che permetterebbe di uniformare i comportamenti dei professionisti spesso troppo liberi di prescrivere esami che meriterebbero un’applicazione basata su studi, approfondimenti e conoscenze rigorose. Si può dire la stessa cosa per gli aspetti terapeutici della materia.

Esprimo un pensiero forse anche banale: al paziente che sta sviluppando una evoluzione fibrotica post-Covid e che è stato trattato con dosi consistenti di cortisonici, è idoneo riprendere la terapia cortisonica per “accompagnare” il processo fibrotico verso una fase più soddisfacente? Credo che per questi problemi di natura diagnostico-terapeutica, sia necessario l’intervento delle istituzioni come il ministero della salute, l’AIFA, e delle Società scientifiche (che  d’altra parte hanno già ottenuto buoni risultati nella prevenzione e nella fase acuta della malattia da Covid-19), affinché promuovano la divulgazione di protocolli o raccomandazioni idonee a sostenere i nostri pazienti reduci da Covid-19.

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