STANCHEZZA CRONICA POST COVID 19

8 Febbraio 2021

Da dottnet.it

Dolori muscolari, pulsazioni e pressione irregolari, e soprattutto uno stato di profonda stanchezza. Questi sintomi sono tipici di chi soffre del cosiddetto ‘long Covid’, che non riesce a guarire, ma ricordano molto quelli di un’altra patologia, la sindrome da fatica cronica, tanto che molti ricercatori, a partire dal direttore del Niaid Anthony Fauci, stanno suggerendo un legame tra i due fenomeni.  L’ultimo studio in ordine di tempo a ipotizzare una connessione è stato pubblicato su Frontiers in Medicine da alcuni ricercatori del Karolinska Institue e dell’università di Uppsala, e afferma che alcuni pazienti rimangono più a lungo in terapia intensiva perché si scatenano gli stessi meccanismi biologici alla base della malattia. In particolare, spiegano gli autori, la sindrome post Covid in chi è stato in terapia intensiva sarebbe causata dalla soppressione di un ormone prodotto dalla ghiandola pituitaria, da un ‘circolo vizioso’ tra infiammazione e stress ossidativo delle cellule e da una bassa funzionalità di un ormone della tiroide, problemi già osservati in chi ha la fatica cronica. “Date le similarità – concludono gli autori – una collaborazione attiva tra i ricercatori esperti nelle cure in terapia intensiva e nella fatica cronica potrebbe portare a esiti migliori in entrambe le situazioni”.

Il legame tra il Covid e la stanchezza cronica è ipotizzato da diversi ricercatori, soprattutto per quello che riguarda il cosiddetto ‘long Covid’, il fenomeno per cui i pazienti continuano ad avere sintomi, fra cui proprio la fatica cronica è uno dei più diffusi, per molti mesi dopo la malattia. Negli Usa il National Institute of Health, riporta il sito Medscape, sta per far partire due ricerche specifiche sui pazienti post Covid sul tema, e anche in Canada e in Gran Bretagna si stanno studiando pazienti con Covid cronico, soprattutto per capire i meccanismi comuni alle due patologie. Il problema della stanchezza si era presentato anche in alcuni pazienti che avevano avuto la Sars, spiega l’oncologo Umberto Tirelli, ex primario dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Aviano e direttore della Clinica Tirelli Medical Groupm specializzata nella fatica cronica, e in generale buona parte dei pazienti la sindrome si scatena dopo un’infezione. “Anche Anthony Fauci, Direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, ha speculato che molti pazienti hanno sviluppato una condizione molto simile a quella che si chiama Encefalomielite Mialgica/Sindrome da Fatica Cronica (Me/Cfs). Questa patologia – spiega l’esperto – si può sviluppare anche dopo altre malattie infettive, per esempio la mononucleosi, la malattia di Lyme, l’influenza, ed è stata osservata anche in pazienti che avevano avuto la Sars. Negli Usa si stima vi siano circa 2 milioni di persone affette da Me/Cfs secondo la National Academy of Medicine, in Italia circa 500mila persone. Effettivamente in questo momento, anche presso la nostra Clinica abbiamo un numero consistente di pazienti affetti da fatica cronica post Covid, a cui applichiamo gli stessi protocolli usati per la fatica cronica”.

Il cuore, dunque, è vittima in modo diretto del Covid-19. Le malattie cardiovascolari rappresentano infatti una complicanza dell’infezione da Sars-Cov-2 ma anche un fattore di rischio, tanto che 7 decessi Covid su 10 riguardano persone che soffrono di ipertensione, come detto. Inoltre, nei contagiati in caso di arresto cardiaco la probabilità di decesso è molto maggiore rispetto a chi non è infetto.  Ma gli effetti della pandemia colpiscono il cuore anche in modo indiretto, ritardando diagnosi e cura dell’infarto e aumentando il carico di stress. Aiutare a informarsi è l’obiettivo la Campagna per il Tuo cuore 2021, promossa dalla Fondazione per il Tuo cuore dell’Associazione Cardiologi Ospedalieri (Anmco), che nella settimana di San Valentino metterà 500 cardiologi a disposizione dei cittadini.  Ogni anno in Italia 240.000 persone muoiono per malattie cardiovascolari e chi ne soffre è, oggi, tra le principali vittime del Covid-19. “Secondo un rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità, su 59.394 pazienti Covid deceduti in Italia – spiega Michele Gulizia, presidente di Fondazione per il Tuo cuore e direttore della Cardiologia dell’Ospedale Garibaldi-Nesima di Catania – il 70% presentava ipertensione arteriosa, il 25% cardiopatia ischemica e altrettanti la fibrillazione atriale, il 20% scompenso cardiaco”. Tra le complicanze dovute al Sars-CoV-2 vi è l’aumento della coagulazione del sangue causata dalla reazione infiammatoria dell’organismo: “Questa – aggiunge Gulizia – rappresenta un rischio anche in chi non soffre di cuore, perché può provocare trombi che possono impedire l’afflusso di sangue al muscolo cardiaco”.

Sick woman sleeping on the table during work at home office. Directly above shot

  Il Covid-19, però, minaccia chi soffre di malattie cardiovascolari anche in modo indiretto. “A causa della pandemia – prosegue Gulizia – si è registrata una riduzione dei ricoveri per infarto pari al 48% e la mortalità è passata dal 4,1 al 13,7%. Dati allarmanti confermati da diversi studi che hanno rilevato una elevata mortalità, pari al 35%, per eventi cardiovascolari avvenuti al proprio domicilio”.  Uno dei problemi è quindi che si va meno in ospedale per paura del contagio, ma non solo. Una nuova ricerca svedese pubblicata sull’European Heart Journal, ha osservato che i contagiati da Sars-CoV-2 che erano stati colpiti da un arresto cardiaco avevano una probabilità molto maggiore di morire rispetto a coloro che ne sono stati colpiti ma non erano infetti. Un’altra insidia Covid-correlata per il cuore, sottolinea l’esperto, “deriva dallo stress accumulato con l’emergenza coronavirus e si sta manifestando con una maggiore incidenza di sindromi di Takotsubo, una cardiomiopatia più diffusa nelle donne e simile all’infarto ma in cui le coronarie non mostrano restringimenti significativi”.

Uno studio della Cleveland Clinic pubblicato su Jama Network Open, infatti, ha mostrato che il numero di pazienti con sintomi di cardiomiopatia da stress tra marzo e aprile è salito all’8% a fronte dell’1,7% del periodo pre pandemia. La prevenzione è quindi l’arma più importante, come ricorda il progetto “Cardiologie Aperte”.

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