Monthly Archives: Febbraio 2020

TROPPO OZONO AUMENTA IL RISCHIO DI MORTE


Essere esposti anche per un periodo ristretto di tempo (nell’arco di un solo giorno) ad elevati livelli di ozono nell’ambiente potrebbe aumentare il rischio di morte. Lo rivela uno studio pubblicato sul British Medical Journal, condotto su oltre 400 città in 20 paesi del mondo. Il lavoro stima che oltre 6.000 morti l’anno potrebbero essere evitati in queste città se venissero adottati standard di qualità dell’aria più stringenti. Lo studio è stato condotto da un team internazionale di ricercatori e coordinato da esperti dell’Istituto di Medicina Preventiva e Sociale di Berna ed ha analizzato 45.165.171 decessi nelle 406 città coinvolte. In questi centri urbani i livelli di inquinamento, di polveri sottili, di ozono, nonché l’umidità e altri parametri, sono stati valutati nel tempo. Èemerso che in media un aumento della concentrazione di ozono ambientale di 10 microgrammi per metro cubo di aria da un giorno all’altro si associa a un aumento dello 0,18% del rischio di morte, suggerendo l’esistenza di un potenziale nesso diretto di causa ed effetto tra livelli di ozono ambientale e mortalità.

Ciò si traduce in 6.262 decessi in più ogni anno nelle 406 città che potrebbero forse essere evitati se i paesi interessati avessero adottato standard di qualità dell’aria almeno pari a quelli raccomandati dall’Organizzazione Mondiale della Salute (Oms), che suggerisce di non superare concentrazioni di ozono di 100 microgrammi/metro cubo negli ambienti urbani e suburbani.

Da dottnet.it

fonte: British Medical Journal

CORONAVIRUS E RESISTENZA SULLE SUPERFICI

Può resistere sulle superfici fino a nove giorni, ma può essere debellato dalla candeggina; i tempi di incubazione potrebbero essere più lunghi del previsto, fino a 24 giorni, dieci in più rispetto a quanto si ritenga attualmente: i numeri e i dati sul coronavirus 2019-nCoV si inseguono pubblicati da fonte ufficiali, come riviste scientifiche e siti istituzionali, e da fonti che non hanno ancora affrontato l’esame della comunità scientifica. L’unico dato certo è che ad oggi non ci sono elementi che descrivano chiaramente il comportamento del nuovo coronavirus.

Il fatto che il coronavirus possa rimanere infettivo fino a nove giorni sulle superfici degli oggetti a temperature ambiente lo indica un articolo del Journal of Hospital Infection e si basa sul confronto con il comportamento dei due coronavirus emersi anni fa: quello responsabile della Sars (Severe Acute Respiratory Syndrome) che risale al 2002-2003 e quello della Mers (Middle East Respiratory Syndrome) del 2015, entrambi parenti stretti del 2019-nCoV. Gli stessi autori della ricerca, dell’università tedesca di Greifswald, rilevano che una buona pulizia è in grado di debellare il virus. Lo conferma anche l’epidemiologo Gianni Rezza, dell’Istituto Superiore di Sanità, per il quale i disinfettanti a base di alcol (etanolo) sono efficaci al 75%, mentre quelli a base di cloro all’1% sono in grado di disinfettare le superfici distruggendo il virus.

Nuovi dati e nuovi dubbi anche sui tempi di incubazione: il medico cinese Zhong Nanshan, che scoprì il virus della Sars, ha scritto in un articolo che non ancora superato la revisione scientifica che il periodo di incubazione del coronavirus potrebbe estendersi fino a 24 giorni, 10 in più di quanto indicato fino ad ora. Nulla di certo, ma al momento è un’ipotesi che fa discutere e che potrebbe avere serie implicazioni sui tempi di quarantena. Dubbi dalla Cina anche su uno dei test più comuni per la diagnosi del coronavirus: il test Nat (nucleic acid test) per la ricerca del materiale genetico del virus darebbe troppi falsi negativi, ha detto il direttore dell’Accademia cinese delle Scienze mediche, Wang Chen.

Il problema non riguarda l’Italia, dove nei test si esegue sempre una procedura di controllo basata sul confronto con la sequenza sintetica del genoma del virus messa a punto nell’Università di Padova, ha rilevato uno dei ricercatori che ha ottenuto la sequenza, Andrea Crisanti.

Mancano certezze e si lavora incessantemente per avere dati attendibili in una situazione in costante evoluzione, al punto che «quanto era accaduto appena due settimane fa sembra vecchio di due anni», come ha rilevato Alessandro Vespignani, della Fondazione Isi di Torino e della Northeastern University di Boston. Le risposte più importanti riguardano il tasso di contagio, ossia quante persone può contagiare una persone che ha l’infezione, e quello di letalità, vale a dire la percentuale di persone che muoiono a causa del virus. Se i valori oscillanti finora attribuiti a questi due aspetti fossero sostituiti da una cifra certa, così come dovrebbe accadere per il tempo di incubazione, diventerebbe possibile elaborare modelli capaci di descrivere l’andamento dell’epidemia.

Da il messaggero

CORONAVIRUS :COME USARE LE MASCHERINE

  1. Da world health organization

Novel Coronavirus (2019-nCoV) consigli per il pubblico: quando e come usare le maschere

 Navigazione sezione

Quando usare una maschera

  • Se sei sano, devi solo indossare una mascherina se ti stai prendendo cura di una persona con sospetta infezione 2019-nCoV.
  • Indossa una maschera se tossisci o starnutisci.
  • Le maschere sono efficaci solo se utilizzate in combinazione con una frequente pulizia delle mani con strofinamento delle mani con soluzione a  base alcolica o sapone e acqua.
  • Se indossi una maschera, devi sapere come usarla e smaltirla correttamente.

Come indossare, usare, togliere e smaltire una maschera

  • Prima di indossare una maschera, pulire le mani con un detergente a base di alcool o sapone e acqua.
  • Coprire la bocca e il naso con la maschera e assicurarsi che non vi siano spazi tra il viso e la maschera.
  • Evitare di toccare la maschera mentre la si utilizza; se lo fai, pulisci le mani con un detergente a base di alcool o acqua e sapone.
  • Sostituire la maschera con una nuova non appena è umida e non riutilizzare le maschere monouso.
  • Per rimuovere la maschera: rimuoverla da dietro (non toccare la parte anteriore della maschera); scartare immediatamente in un contenitore chiuso; pulire le mani con strofinaccio a base di alcool o acqua e sapone.

RISK MANAGER E INSURANCE MANAGER : DUE FIGURE IN ASCESA

Il profilo di due figure professionali in ascesa: il Risk Manager e l’Insurance Manager

Il Risk Manager è una figura professionale dedicata alla gestione integrata dei rischi aziendali, quelli che possono avere un’influenza sugli obiettivi strategici prefissati dalla direzione. Parliamo di rischi finanziari, operativi, strategici, di legal & compliance.
Compito del Risk Manager è individuare e analizzare i potenziali rischi in cui può  incorrere l’azienda, valutarli in base alla loro possibile gravità e frequenza, quindi individuare la politica migliore per ottimizzare la loro gestione, in linea con la linea scelta dal top management e con le capacità finanziarie dell’azienda.
Una volta definite le misure di trattamento del rischio, in coordinamento eventuale con i tecnici di settore, il Risk Manager si accerta dei risultati e li controlla nel tempo. E’ suo compito anche definire le coperture assicurative ritenute necessarie e i rischi che possono invece essere assunti in proprio dell’azienda come forma di “autoassicurazione”.
Il ruolo del Risk Manager si esplica anche nella valutazione di possibili rischi e responsabilità per l’azienda insiti nei contratti con terzi.  In tal senso assiste tutte le funzioni aziendali fornendo le proprie competenze per l’individuazione delle potenziali criticità insite in ogni operazione.
Nelle realtà aziendali più articolate, il Risk Manager opera insieme al suo team per supportare il management nell’individuazione e analisi dei rischi, nella scelta delle metodologie e degli strumenti più idonei a gestirli, nonché nella responsabilizzazione del personale riguardo a specifiche politiche di presidio del rischio, contribuendo così alla creazione di una vera e propria cultura del rischio all’interno dell’organizzazione.
L’Insurance Manager è invece una figura aziendale deputata alla gestione del programma assicurativo. A tale scopo egli raccoglie costantemente informazioni e dati sui rischi delle misure di prevenzione e sinistri dell’azienda al fine di assicurarla. In conseguenza di questa attività imposta le polizze e definisce le coperture assicurative idonee.
È compito dell’Insurance Manager gestire i contatti con le compagnie assicurative o con i broker e negoziare le polizze con le migliori condizioni di copertura e costo. Una volta stipulate le polizze, rientra nei suoi compiti la loro gestione amministrativa e contrattuale, nonché la verifica della loro validità nel tempo al variare dei rischi. In tal senso, l’Insurance Manager assiste tutte le funzioni aziendali nella corretta applicazione delle norme e delle procedure previste dalle polizze.

In caso di accidente, l’Insurance Manager gestisce i sinistri, in qualità di “perito di parte” dell’azienda, confrontandosi con il perito nominato dagli assicuratori e con gli assicuratori stessi, al fine di tutelare gli interessi dell’impresa e di ottenere un rapido e corretto risarcimento dei danni subiti o causati dall’azienda a terzi.

da anta.it

ESOSCHELETRI ROBOT E SENSORI: LA NUOVA FRONTIERA DELL’ERGONOMIA

Sono in corso numerose ricerche per monitorare gli aspetti di usabilità (efficacia, efficienza e soddisfazione d’uso) e accettabilità dei nuovi ausili tecnologici. «Esoscheletri, cobote pedane adattative possono rappresentare una risorsa per gestire l’invecchiamento della popolazione lavorativa. Si rende tuttavia necessario un approccio integrato alla valutazione del carico biomeccanico (con l’obiettivo di riduzione dello sforzo muscolare e della fatica) e al possibile impatto psico-sociale di questi ausili. Abbiamo bisogno di ingegneri che, in fase di progettazione sia di linee produttive, sia degli ausili stessi, tengano conto del fattore umano, e non solo degli aspetti meramente tecnici delle nuove tecnologie.

Per questo al Politecnico di Torino, dal 2008, vengono erogati corsi di ergonomia dei sistemi di produzione, con l’obiettivo di sensibilizzare gli studenti alla centralità dello “human centered design” e dell’interazione uomo-macchina. Gli indispensabili requisiti tecnici di sicurezza delle nuove tecnologie non possono prescindere dalle peculiarità fisiche, sensoriali e psicologiche dell’uomo e da aspetti quali l’usabilità e l’accettabilità delle stesse nello svolgimento del proprio lavoro», spiega Maria Pia Cavatorta, professore associato del Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale del Politecnico di Torino, referente per i corsi di ergonomia. A iniziare dal 2017 proprio con un approccio integrato, insieme con l’ergonomo cognitivo Silvia Gilotta, presidente della sezione Piemonte della Società italiana di Ergonomia (SIE), il Politecnico di Torino ha partecipato a una campagna di prove che ha coinvolto una trentina di operatori di Fca, e una decina di suoi team leader. I soggetti volontari hanno provato alcune tipologie di esoscheletri passivi per arti superiori, tra cui l’esoscheletro Mate, progettato e sviluppato da Comau, società del Gruppo automobilistico, rispetto ad attività sottoscocca che richiedono di lavorare a braccia alzate. Dai primi prototipi gli esoscheletri sono stati sottoposti a continue migliorie per renderli sempre più leggeri e per meglio gestire l’attivazione dei meccanismi di supporto e la loro disattivazione, quando le braccia scendono al di sotto delle spalle.

«Si tratta tuttavia di una prima fase nella valutazione dell’applicabilità a un contesto industriale. Occorreranno studi in grado di valutare l’usabilità e l’accettabilità dei lavoratori anche nel lungo termine. L’introduzione in produzione può rilevare ostacoli all’usabilità e all’accettazione del lavoratore, che possono non emergere in un contesto controllato di laboratorio. Risulterà poi necessario – precisa Cavatorta – capire come valutare il carico di lavoro biomeccanico durante attività di lavoro assistite dall’esoscheletro, nonché l’impatto di tali strutture sul lavoro fisico e mentale del lavoratore.»

La mission dell’ergonomia nella fabbrica 4.0 vuole essere quella di favorire la capacità di adattamento, efficienza e sostenibilità, da declinare innanzitutto rispetto alle abilità dell’uomo. «Per questo – raccomanda Cavatorta – nell’introduzione di nuove tecnologie quali esoscheletri o robot collaborativi (cobot) il coinvolgimento attivo e l’approccio partecipativo dei lavoratori risultano essenziali.» E già la ricerca internazionale si interroga su come rendere i cobot  dei “veri” compagni di lavoro (“robot workmates”) e non degli intrusi, come talvolta vengono percepiti, che dettano all’uomo tempi e ritmi, anziché tener conto della variabilità del comportamento umano. A questo scopo è in corso il progetto europeo Andy (Advancing Anticipatory Behaviors in Dyadic Human-Robot Collaboration), con capofila l’Istituto Italiano di Tecnologie(IIT), che attraverso big data, machine learning e AI sta studiando un robot sempre più adattabile alle esigenze del collega uomo, esigenze che via via possono cambiare. Sfruttando delle tutine sensorizzate, infatti, i ricercatori stanno raccogliendo tali quantità di dati sul comportamento umano che l’obiettivo sarà, attraverso il machine learning, che i nuovi robot imparino a rispondere in modo adattivo all’uomo e non solo, come ora, a svolgere i compiti più ripetitivi o pericolosi in un contesto di predeterminata suddivisione dei compiti. «A una recente conferenza mondiale in Australia si è già iniziato a parlare di Industria 5.0, dove i nuovi robot collaborativi possano divenire dei “veri” compagni di lavoro, in grado di avvertire situazioni anomale, anche uno sbadiglio o una distrazione oculare, perché no, e intervenire a supporto, anticipando il rischio di errore nel collega e alleviandogli la fatica», racconta Cavatorta. Che non esclude però il rischio di nuove problematiche etiche, oltre che ergonomiche: l’accettazione o meno di essere continuamente monitorati, in ogni gesto, o piccola distrazione, da una macchina.

Assemblaggio Comau per Fca

«È importante che i lavoratori percepiscano i vantaggi che la tecnologia può offrire per la sicurezza e l’ergonomia della nuova fabbrica. La progettazione di un ambiente di lavoro sicuro, confortevole e produttivo, che garantisca benessere e possibilità di valutazione attenta degli operatori da assegnare alle differenti postazioni di lavoro, deve rappresentare un punto saldo della fabbrica 4.0. È questo l’obiettivo del progetto regionale Humans, a cui ha partecipato il Politecnico insieme all’Università di Torino, Fca e Comau, in cui si lavora a una fabbrica a misura d’uomo, non soltanto nel rispetto delle caratteristiche medie della popolazione lavorativa, ma del singolo lavoratore. È il caso ad esempio delle pedane adattative che grazie al riconoscimento delle caratteristiche antropometriche di ciascun operatore, attraverso il suo badge, possono adattare l’altimetria della postazione di lavoro al singolo lavoratore, come già avviene su alcune linee nello stabilimento Fca di Cassino», prosegue Cavatorta. Sembra tutto molto avveniristico e invece è già realtà. Le normative sono ancora indietro rispetto a queste innovazioni in fabbrica, che pongono molte domande, per esempio se considerare gli esoscheletri strumenti di supporto facoltativo o presidi obbligatori per la sicurezza. Intanto, nel 2017 Iso ha lanciato una Call4experts per stilare delle linee guida sulle tecnologie 4.0 in fabbrica da un punto di vista ergonomico.

 

Neuroergonomia e lavoro digitale

Nicola De Pisapia, ricercatore dell’Università degli Studi di Trento

Non solo la normativa, ma anche la ricerca scientifica fa fatica a star dietro alla velocissima innovazione tecnologica che apre nuovi fronti anche alla valutazione ergonomica stessa. «L’evoluzione tecnologica è molto veloce rispetto ai tempi più lenti della ricerca scientifica, ma non mancano gli strumenti come questionari validati e sensori per la neuro e psicofisiologia per misurare e valutare l’impatto che queste tecnologie pervasive stanno avendo sulla nostra mente e sul nostro cervello», racconta Nicola De Pisapia, ricercatore dell’Università degli Studi di Trento, che ha un corso di laurea triennale e una specialistica di Interfacce e Tecnologie della Comunicazione al dipartimento Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento – «Per ora vedo le aziende più interessate ad applicare lo studio neuropsicologico (degli effetti di comportamenti e azioni del lavoro sul sistema cerebrale) al marketing, a prodotti da vendere e alle app digitali, che non alle nuove condizioni di lavoro in cui siamo immersi. Penso per esempio ai possibili effetti sull’attenzione dell’eccesso di informazioni, o alla perdita della propria scrivania o all’essere sempre connessi e reperibili, come nella modalità di lavoro smart. E ancora, quali saranno gli effetti sulle funzioni neuropsicologiche di attività in cui siamo sostituiti da app, da bracci robotici, da realtà virtuale o aumentata?

Alcuni studi, per esempio, hanno già dimostrato come l’uso costante di navigatori Gps per orientarsi riduca l’efficienza dell’area del cervello chiamata ippocampo, preposta all’orientamento spaziale. Quella parte si atrofizza, come un muscolo che non venga più usato.»  Come useremo dunque il tempo, lo spazio liberato per fare altro, per quelle attività a valore aggiunto auspicate e promesse dalle organizzazioni? «È sempre questione di che uso fare delle tecnologie che oggi abbiamo a disposizione e avere consapevolezza che possono agire in modo “invisibile” sul nostro cervello» – raccomanda Michela Balconi, professore di Psicofisiologia e Neuroscienze cognitive all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano – «Come nel marketing c’è un modo “invisibile” di creare attenzione, agganciare e indurre all’acquisto, così nell’utilizzo di software e macchine intelligentiche possono lavorare al nostro posto e alleviarci la fatica, istruendoci passo dopo passo, ovviamente allo scopo di rendere più efficace ed efficiente la prestazione, bisogna chiedersi che parte resti all’uomo a valore aggiunto, se non è previsto o se non è pianificato nell’organizzazione. Queste sono domande a cui dovremo darci sempre più delle risposte, con l’avanzare di queste tecnologie a supporto dei lavori tradizionali. Nelle fabbriche cinesi misurano già il calo di attenzione e produttività dell’operaio, che viene prontamente sollecitato a ristabilire il ritmo richiesto. Bisogna però capire quale livello di performance venga imposto e se non sia incompatibile con l’equilibrio psico-fisico del lavoratore. Anche noi stiamo misurando il livello di attenzione del cervello in determinate condizioni di stress, ma con la finalità di prenderne consapevolezza per disperdere meno energie, per avere una concentrazione più alta con un senso di benessere e di autocontrollo maggiore e ridurre, per esempio, gli incidenti in automobile. Come sempre, dipende dall’uso che si fa degli strumenti a disposizione.» Negli ultimi tre anni Balconi, che è responsabile dell’Unità di Ricerca in Neuroscienze Sociali e delle Emozioni del Dipartimento di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano ha svolto una ricerca, presentata a ottobre, che ha misurato il livello di stress e di attenzione del cervello di alcuni cluster di soggetti, attraverso l’uso di smart glasses. Si tratta degli occhiali “Lowdown Focus”, sviluppati e distribuiti da Safilo, che registrano l’attività elettrica del cervello e forniscono istruzioni su come abbassare il livello di stress con effetti migliorativi sulla performance (meno incidenti stradali, meno frenate brusche e comportamenti impulsivi in auto, per esempio, per il cluster dei driver). Il primo gruppo pilota sono stati studenti universitari presso il laboratorio interno dell’ateneo milanese per validare il metodo. Quindi il dispositivo, che inizialmente era un cerchietto (“headband”) sviluppato da una società di ricerca canadese, trasformato da Safilo in occhiali dal design sportivo per offrire un maggior comfort e una maggiore vestibilità, è stato applicato a manager di Atm, di Microsoft e della società di consulenza Prospecta. Quindi il terzo e ultimo gruppo, su richiesta di Cattolica Assicurazioni con il progetto “Drivefit”, è stato quello di una sessantina di driver impegnati al volante in città caotiche del Nord Italia. L’esperimento è durato 7 giorni su 7, dai 10 ai 20 minuti per volta, per quattro settimane di fila. In tutti i casi l’occhiale, dotato di elettrodi sulle stanghette e i naselli che permettono di rilevare l’elettroencefalogramma, fornisce un feedback immediato tramite un’applicazione per smartphone. Il soggetto viene così informato quando il suo stato di attività cerebrale supera certi livelli di stress. Il feedback avviene attraverso segnali acustici, come il canto di uccellini e il rumore di un’onda del mare, che aumentano di intensità e velocità fino al frastuono, quando il livello di stress supera i parametri normali. «Questo dispositivo ha anche una funzione di training, perché prima con i segnali acustici, poi con un riepilogo della propria performance sullo smartphone, vengono suggeriti comportamenti diversi e vengono dati rinforzi positivi.

Gli effetti positivi sono durati nel tempo, come hanno dimostrato follow-up successivi, a dimostrazione del fatto che il cervello, essendo plastico, può acquisire nuovi comportamenti e nuove abitudini anche in condizioni di pressione», commenta Balconi. Di fatto vengono misurate le funzioni attentive, i meccanismi di controllo attivi e inibitori e le funzioni esecutive, cioè la memoria a breve termine (la working memory) e il loro impatto sulla performance a seconda del livello di stress. Di conseguenza, l’aspetto interessante di questo dispositivo è che, collegato a un software e a un device mobile, si potrebbe estendere ad altre popolazioni aziendali per misurare per esempio l’ergonomia cognitivadell’utilizzo delle tecnologie nel mondo del lavoro, in ufficio e in fabbrica, e anche l’impatto neurofisiologico degli ausili tecnologici impiegati per migliorare l’ergonomia stessa.

Di fatto l’ergonomia si sta sempre più spostando da scienza del lavoro a scienza dell’uomo e degli “Human factors”, anche perché il confine tra vita professionale e vita privata è sempre più permeabile, complici le nuove tecnologie digitali e il nuovo modo di lavorare. «Oltre a dover riprogettare il lavoro che sta già cambiando e cambierà sempre di più con la sempre maggiore presenza di robotica e AI, e con il lavoro il sistema formativo, dobbiamo fare i conti con un mondo dove il profitto dipenderà sempre più da una risorsa nuova, l’informazione che noi stessi produciamo e che viene raccolta attraverso la sorveglianza continua del nostro comportamento e il monitoraggio del nostro corpo ed elaborata in modo non trasparente da parte di chi sa su di noi cose che neppure sappiamo e che permette di prevedere i nostri comportamenti», avverte provocatoriamente Sebastiano Bagnara, uno dei padri dell’economia cognitiva in Italia, già segretario generale della International Ergonomics Association e presidente di BSDesign.

Da industria italiana.it articolo di Gaia Fiertler

CORONAVIRUS NOTA DELL’ATS DI MONZA BRIANZA

Si trasmette la nota prot. 10287 del 07/02/2020 che ha per oggetto “informazioni per polmonite da Coronavirus in Cina”.
Antonina Panessidi
Agenzia di Tutela della Salute (ATS) della Brianza
Dipartimento di Igiene Prevenzione Sanitaria
via Novara,3 – 20832 Desio (MB)
Tel. 0362 304871 – Fax 0362 304836

PIANO DI AZIONE UE CONTRO IL CANCRO

Da Dottnet. it


Guardare “al ruolo della tassazione per tabacco e alcol” e a “misure per ridurre l’esposizione agli agenti cancerogeni sul posto di lavoro” per prevenire i tumori. Fare leva sui fondi Ue per la ricerca e creare una “infrastruttura di dati sanitari” per “facilitare il collegamento tra ricerca, diagnosi e cura”. Stabilire “target per gli investimenti in prevenzione” e incentivare “network regionali per il trattamento dei tumori”.

Sono le idee da cui prenderà forma il Piano di azione Ue per battere il cancro, che la Commissione europea presenterà a fine 2020 dopo aver fatto consultazioni a tutti i livelli.

L’iniziativa è stata lanciata nella conferenza “Europe’s beating cancer” che ha gremito l’emiciclo della sede di Bruxelles dell’Europarlamento. “Vogliamo ascoltare tutti coloro che hanno una storia da raccontare, i medici e i pazienti, i parenti e gli scienziati, le infermiere e la società civile.  Quelli che ce l’hanno fatta e quelli che stanno ancora combattendo“, ha detto la presidente della Commissione Ursula von der Leyen.

Perché “insieme possiamo fare la differenza” contro una malattia che, dati Eurostat di oggi, in Ue fa 1,2 milioni di morti, il 26% del totale. “Ognuno di noi ha un amico, un collega o un parente che ci è passato. Tutti hanno provato lo stesso senso di tristezza e impotenza“, ha detto von der Leyen.  Lei stessa che a 13 anni ha perso la sorella minore per un sarcoma. E Stella Kyriakides, la commissaria alla salute che realizzerà il piano d’azione, due diagnosi di tumore al seno nel 1996 e nel 2004 che l’hanno spinta a diventare un simbolo della lotta al cancro nel suo paese. Oppure il campione di calcio bulgaro Stilyian Petrov che nel 2013 si è sentito dire “diretto e schietto: hai il cancro”, ma che era al Parlamento europeo per raccontarlo. Come le oltre 50 donne irlandesi del coro Sea of Change, molte delle quali sopravvissute alla malattia e arrivate alle finali di Ireland’s got talent 2019.E’ stata una giornata in cui “il personale si è trasformato in politico“, ha detto Kyriakides, e “l’inizio di un viaggio che faremo tutti insieme”. “Ci saranno fondi per finanziare questo piano”, ha aggiunto a margine dell’evento. Al cronista che le chiedeva come “fare la differenza” su tassazione e sanità, su cui la Commissione ha prerogative molto limitate, la commissaria ha risposto “non vedo l’ora di rispondere alle sue domande quando il piano sarà pronto alla fine dell’anno, ma le assicuro che esploreremo tutte le possibilità. Tutte”.

NUOVE SVHC PER L’AGENZIA EUROPEA ECHA


Sono 4 le nuove sostanze che l’Agenzia europea delle sostanze chimiche (ECHA) ha inserito nel novero delle Substances of very high concern (SVHCs) (sostanze pericolose per i propri effetti su salute e ambiente).
Vediamo quali sono e le loro caratteristiche pericolose, mettendo anche in luce cosa succede ad una sostanza quando entra in questo novero di sostanze per le quali il mondo industriale dovrà richiedere specifica autorizzazione.

Il 16 gennaio l’ECHA ha aggiunto quattro nuove sostanze all’elenco di quelle candidate per l’autorizzazione: si tratta dell’elenco delle Substances of very high concern (SVHCs), sostanze che possono avere effetti gravi sulla salute umana o sull’ambiente, e che conta ora 205 voci.
Tre delle nuove quattro (Diisohexyl phthalate, 2-benzyl-2-dimethylamino-4′-morpholinobutyrophenone e 2-methyl-1-(4-methylthiophenyl)-2-morpholinopropan-1-one) sono state inserite per via del loro carattere di tossicità per la riproduzione.


La prima non era registrata al REACH, le altre sono utilizzate soprattutto nella produzione di polimeri.
La quarta sostanza (l’acido perfluorobutano solfonico (PFBS) e i suoi sali) è stata inserita vista la sua combinazione con altre proprietà problematiche e per i probabili e gravi effetti sulla salute umana e sull’ambiente, dando origine a un livello di preoccupazione equivalente a quello delle sostanze cancerogene, mutagene e reprotossiche (CMR), persistenti, bioaccumulabili e tossiche (PBT) e molto persistenti e molto bioaccumulabili (vPvB).
L’acido ed i suoi Sali sono per lo più usati come catalizzatori, additivi e reagentinella produzione di polimeri e in sintesi chimiche, o come ritardanti di fiamma nei policarbonati (per dispositivi elettronici).

Cosa vuole dire entrare nell’elenco delle Substances of very high concern (SVHCs)

Le sostanze presenti nell’elenco delle sostanze candidate all’autorizzazione sono anche note come sostanze “estremamente problematiche”: una volta inserite nell’elenco delle autorizzazioni, il mondo industriale dovrà richiedere l’autorizzazione per continuare a utilizzare la sostanza.
Anche le società devono tenere conto dell’inserimento di una sostanza nell’elenco delle SVHC in merito al suo utilizzo da sola, in miscele o articoli: i fornitori di articoli contenenti una delle sostanze pericolose al di sopra di una concentrazione dello 0,1% hanno obblighi di comunicazione verso i clienti e verso i consumatori. Inoltre, gli importatori e i produttori di articoli contenenti la sostanza hanno sei mesi dalla data della sua inclusione nell’elenco dei candidati (16 gennaio 2020) per notificarlo all’ECHA.

da insic.it

Per Echa clicca qui Link

——-

 

FUMO PASSIVO: ANCHE I MOZZICONI SONO NOCIVI

Da quotidiano.net
Le sigarette fanno male anche dopo che sono state spente. Lo sostiene una ricerca pubblicata su due diverse riviste scientifiche (Journal of Indoor Environment and Health e Science of the Total Environment), secondo cui i mozziconi abbandonati continuano a rilasciare nell’aria diverse sostanze nocive.

Lo studio, realizzato per conto della Food and Drug Administration (FDA), ha preso in esame 2100 ‘cicche’ spente da poco, collocate in una speciale camera in acciaio inossidabile, dove sono stati misurati i livelli di emissione per otto composti chimici comunemente generati dalla combustione delle sigarette. Le rilevazioni sono state effettuate modificando di volta in volta alcuni parametri ambientali, tra cui la temperatura e l’umidità.

Gli scienziati del National Institute of Standards and Technology (NIST) hanno così scoperto che, nonostante sia apparentemente innocuo, il mozzicone è in realtà una ciminiera silenziosa, che nelle prime 24 ore produce ad esempio il 14% della nicotina normalmente emessa da una sigaretta accesa. Si è poiosservato che a distanza di cinque giorni le concentrazioni di nicotina e triacetina diminuiscono solo della metà: si tratta di un dato non banale in particolare per la triacetina, un plastificante usato nei filtri, che di solito non evapora.   che di solito non evapora.


Un altro aspetto interessante riguarda il fatto che la velocità delle emissioni sembra crescere all’aumentare della temperatura. Questo suggerisce che nei giorni caldi la nicotina rilasciata da un mozzicone potrebbe avvicinare le quantità diffuse da una sigaretta in in via di consumo.

“Sono rimasto assolutamente sorpreso”, ha dichiarato Dustin Poppendieck, ingegnere ambientale del NIST. I risultati raccolti andranno approfonditi con ulteriori indagini, ad esempio coinvolgendo più marche di sigarette. Se le conclusioni dovessero essere confermate, dicono i ricercatori, significa che fino a oggi abbiamo trascurato un significativo fattore di rischio, che potrebbe avere “un impatto importante quando i mozziconi vengono lasciati in uno spazio chiuso o in auto”.