ESOSCHELETRI ROBOT E SENSORI: LA NUOVA FRONTIERA DELL’ERGONOMIA

10 Febbraio 2020

Sono in corso numerose ricerche per monitorare gli aspetti di usabilità (efficacia, efficienza e soddisfazione d’uso) e accettabilità dei nuovi ausili tecnologici. «Esoscheletri, cobote pedane adattative possono rappresentare una risorsa per gestire l’invecchiamento della popolazione lavorativa. Si rende tuttavia necessario un approccio integrato alla valutazione del carico biomeccanico (con l’obiettivo di riduzione dello sforzo muscolare e della fatica) e al possibile impatto psico-sociale di questi ausili. Abbiamo bisogno di ingegneri che, in fase di progettazione sia di linee produttive, sia degli ausili stessi, tengano conto del fattore umano, e non solo degli aspetti meramente tecnici delle nuove tecnologie.

Per questo al Politecnico di Torino, dal 2008, vengono erogati corsi di ergonomia dei sistemi di produzione, con l’obiettivo di sensibilizzare gli studenti alla centralità dello “human centered design” e dell’interazione uomo-macchina. Gli indispensabili requisiti tecnici di sicurezza delle nuove tecnologie non possono prescindere dalle peculiarità fisiche, sensoriali e psicologiche dell’uomo e da aspetti quali l’usabilità e l’accettabilità delle stesse nello svolgimento del proprio lavoro», spiega Maria Pia Cavatorta, professore associato del Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale del Politecnico di Torino, referente per i corsi di ergonomia. A iniziare dal 2017 proprio con un approccio integrato, insieme con l’ergonomo cognitivo Silvia Gilotta, presidente della sezione Piemonte della Società italiana di Ergonomia (SIE), il Politecnico di Torino ha partecipato a una campagna di prove che ha coinvolto una trentina di operatori di Fca, e una decina di suoi team leader. I soggetti volontari hanno provato alcune tipologie di esoscheletri passivi per arti superiori, tra cui l’esoscheletro Mate, progettato e sviluppato da Comau, società del Gruppo automobilistico, rispetto ad attività sottoscocca che richiedono di lavorare a braccia alzate. Dai primi prototipi gli esoscheletri sono stati sottoposti a continue migliorie per renderli sempre più leggeri e per meglio gestire l’attivazione dei meccanismi di supporto e la loro disattivazione, quando le braccia scendono al di sotto delle spalle.

«Si tratta tuttavia di una prima fase nella valutazione dell’applicabilità a un contesto industriale. Occorreranno studi in grado di valutare l’usabilità e l’accettabilità dei lavoratori anche nel lungo termine. L’introduzione in produzione può rilevare ostacoli all’usabilità e all’accettazione del lavoratore, che possono non emergere in un contesto controllato di laboratorio. Risulterà poi necessario – precisa Cavatorta – capire come valutare il carico di lavoro biomeccanico durante attività di lavoro assistite dall’esoscheletro, nonché l’impatto di tali strutture sul lavoro fisico e mentale del lavoratore.»

La mission dell’ergonomia nella fabbrica 4.0 vuole essere quella di favorire la capacità di adattamento, efficienza e sostenibilità, da declinare innanzitutto rispetto alle abilità dell’uomo. «Per questo – raccomanda Cavatorta – nell’introduzione di nuove tecnologie quali esoscheletri o robot collaborativi (cobot) il coinvolgimento attivo e l’approccio partecipativo dei lavoratori risultano essenziali.» E già la ricerca internazionale si interroga su come rendere i cobot  dei “veri” compagni di lavoro (“robot workmates”) e non degli intrusi, come talvolta vengono percepiti, che dettano all’uomo tempi e ritmi, anziché tener conto della variabilità del comportamento umano. A questo scopo è in corso il progetto europeo Andy (Advancing Anticipatory Behaviors in Dyadic Human-Robot Collaboration), con capofila l’Istituto Italiano di Tecnologie(IIT), che attraverso big data, machine learning e AI sta studiando un robot sempre più adattabile alle esigenze del collega uomo, esigenze che via via possono cambiare. Sfruttando delle tutine sensorizzate, infatti, i ricercatori stanno raccogliendo tali quantità di dati sul comportamento umano che l’obiettivo sarà, attraverso il machine learning, che i nuovi robot imparino a rispondere in modo adattivo all’uomo e non solo, come ora, a svolgere i compiti più ripetitivi o pericolosi in un contesto di predeterminata suddivisione dei compiti. «A una recente conferenza mondiale in Australia si è già iniziato a parlare di Industria 5.0, dove i nuovi robot collaborativi possano divenire dei “veri” compagni di lavoro, in grado di avvertire situazioni anomale, anche uno sbadiglio o una distrazione oculare, perché no, e intervenire a supporto, anticipando il rischio di errore nel collega e alleviandogli la fatica», racconta Cavatorta. Che non esclude però il rischio di nuove problematiche etiche, oltre che ergonomiche: l’accettazione o meno di essere continuamente monitorati, in ogni gesto, o piccola distrazione, da una macchina.

Assemblaggio Comau per Fca

«È importante che i lavoratori percepiscano i vantaggi che la tecnologia può offrire per la sicurezza e l’ergonomia della nuova fabbrica. La progettazione di un ambiente di lavoro sicuro, confortevole e produttivo, che garantisca benessere e possibilità di valutazione attenta degli operatori da assegnare alle differenti postazioni di lavoro, deve rappresentare un punto saldo della fabbrica 4.0. È questo l’obiettivo del progetto regionale Humans, a cui ha partecipato il Politecnico insieme all’Università di Torino, Fca e Comau, in cui si lavora a una fabbrica a misura d’uomo, non soltanto nel rispetto delle caratteristiche medie della popolazione lavorativa, ma del singolo lavoratore. È il caso ad esempio delle pedane adattative che grazie al riconoscimento delle caratteristiche antropometriche di ciascun operatore, attraverso il suo badge, possono adattare l’altimetria della postazione di lavoro al singolo lavoratore, come già avviene su alcune linee nello stabilimento Fca di Cassino», prosegue Cavatorta. Sembra tutto molto avveniristico e invece è già realtà. Le normative sono ancora indietro rispetto a queste innovazioni in fabbrica, che pongono molte domande, per esempio se considerare gli esoscheletri strumenti di supporto facoltativo o presidi obbligatori per la sicurezza. Intanto, nel 2017 Iso ha lanciato una Call4experts per stilare delle linee guida sulle tecnologie 4.0 in fabbrica da un punto di vista ergonomico.

 

Neuroergonomia e lavoro digitale

Nicola De Pisapia, ricercatore dell’Università degli Studi di Trento

Non solo la normativa, ma anche la ricerca scientifica fa fatica a star dietro alla velocissima innovazione tecnologica che apre nuovi fronti anche alla valutazione ergonomica stessa. «L’evoluzione tecnologica è molto veloce rispetto ai tempi più lenti della ricerca scientifica, ma non mancano gli strumenti come questionari validati e sensori per la neuro e psicofisiologia per misurare e valutare l’impatto che queste tecnologie pervasive stanno avendo sulla nostra mente e sul nostro cervello», racconta Nicola De Pisapia, ricercatore dell’Università degli Studi di Trento, che ha un corso di laurea triennale e una specialistica di Interfacce e Tecnologie della Comunicazione al dipartimento Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento – «Per ora vedo le aziende più interessate ad applicare lo studio neuropsicologico (degli effetti di comportamenti e azioni del lavoro sul sistema cerebrale) al marketing, a prodotti da vendere e alle app digitali, che non alle nuove condizioni di lavoro in cui siamo immersi. Penso per esempio ai possibili effetti sull’attenzione dell’eccesso di informazioni, o alla perdita della propria scrivania o all’essere sempre connessi e reperibili, come nella modalità di lavoro smart. E ancora, quali saranno gli effetti sulle funzioni neuropsicologiche di attività in cui siamo sostituiti da app, da bracci robotici, da realtà virtuale o aumentata?

Alcuni studi, per esempio, hanno già dimostrato come l’uso costante di navigatori Gps per orientarsi riduca l’efficienza dell’area del cervello chiamata ippocampo, preposta all’orientamento spaziale. Quella parte si atrofizza, come un muscolo che non venga più usato.»  Come useremo dunque il tempo, lo spazio liberato per fare altro, per quelle attività a valore aggiunto auspicate e promesse dalle organizzazioni? «È sempre questione di che uso fare delle tecnologie che oggi abbiamo a disposizione e avere consapevolezza che possono agire in modo “invisibile” sul nostro cervello» – raccomanda Michela Balconi, professore di Psicofisiologia e Neuroscienze cognitive all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano – «Come nel marketing c’è un modo “invisibile” di creare attenzione, agganciare e indurre all’acquisto, così nell’utilizzo di software e macchine intelligentiche possono lavorare al nostro posto e alleviarci la fatica, istruendoci passo dopo passo, ovviamente allo scopo di rendere più efficace ed efficiente la prestazione, bisogna chiedersi che parte resti all’uomo a valore aggiunto, se non è previsto o se non è pianificato nell’organizzazione. Queste sono domande a cui dovremo darci sempre più delle risposte, con l’avanzare di queste tecnologie a supporto dei lavori tradizionali. Nelle fabbriche cinesi misurano già il calo di attenzione e produttività dell’operaio, che viene prontamente sollecitato a ristabilire il ritmo richiesto. Bisogna però capire quale livello di performance venga imposto e se non sia incompatibile con l’equilibrio psico-fisico del lavoratore. Anche noi stiamo misurando il livello di attenzione del cervello in determinate condizioni di stress, ma con la finalità di prenderne consapevolezza per disperdere meno energie, per avere una concentrazione più alta con un senso di benessere e di autocontrollo maggiore e ridurre, per esempio, gli incidenti in automobile. Come sempre, dipende dall’uso che si fa degli strumenti a disposizione.» Negli ultimi tre anni Balconi, che è responsabile dell’Unità di Ricerca in Neuroscienze Sociali e delle Emozioni del Dipartimento di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano ha svolto una ricerca, presentata a ottobre, che ha misurato il livello di stress e di attenzione del cervello di alcuni cluster di soggetti, attraverso l’uso di smart glasses. Si tratta degli occhiali “Lowdown Focus”, sviluppati e distribuiti da Safilo, che registrano l’attività elettrica del cervello e forniscono istruzioni su come abbassare il livello di stress con effetti migliorativi sulla performance (meno incidenti stradali, meno frenate brusche e comportamenti impulsivi in auto, per esempio, per il cluster dei driver). Il primo gruppo pilota sono stati studenti universitari presso il laboratorio interno dell’ateneo milanese per validare il metodo. Quindi il dispositivo, che inizialmente era un cerchietto (“headband”) sviluppato da una società di ricerca canadese, trasformato da Safilo in occhiali dal design sportivo per offrire un maggior comfort e una maggiore vestibilità, è stato applicato a manager di Atm, di Microsoft e della società di consulenza Prospecta. Quindi il terzo e ultimo gruppo, su richiesta di Cattolica Assicurazioni con il progetto “Drivefit”, è stato quello di una sessantina di driver impegnati al volante in città caotiche del Nord Italia. L’esperimento è durato 7 giorni su 7, dai 10 ai 20 minuti per volta, per quattro settimane di fila. In tutti i casi l’occhiale, dotato di elettrodi sulle stanghette e i naselli che permettono di rilevare l’elettroencefalogramma, fornisce un feedback immediato tramite un’applicazione per smartphone. Il soggetto viene così informato quando il suo stato di attività cerebrale supera certi livelli di stress. Il feedback avviene attraverso segnali acustici, come il canto di uccellini e il rumore di un’onda del mare, che aumentano di intensità e velocità fino al frastuono, quando il livello di stress supera i parametri normali. «Questo dispositivo ha anche una funzione di training, perché prima con i segnali acustici, poi con un riepilogo della propria performance sullo smartphone, vengono suggeriti comportamenti diversi e vengono dati rinforzi positivi.

Gli effetti positivi sono durati nel tempo, come hanno dimostrato follow-up successivi, a dimostrazione del fatto che il cervello, essendo plastico, può acquisire nuovi comportamenti e nuove abitudini anche in condizioni di pressione», commenta Balconi. Di fatto vengono misurate le funzioni attentive, i meccanismi di controllo attivi e inibitori e le funzioni esecutive, cioè la memoria a breve termine (la working memory) e il loro impatto sulla performance a seconda del livello di stress. Di conseguenza, l’aspetto interessante di questo dispositivo è che, collegato a un software e a un device mobile, si potrebbe estendere ad altre popolazioni aziendali per misurare per esempio l’ergonomia cognitivadell’utilizzo delle tecnologie nel mondo del lavoro, in ufficio e in fabbrica, e anche l’impatto neurofisiologico degli ausili tecnologici impiegati per migliorare l’ergonomia stessa.

Di fatto l’ergonomia si sta sempre più spostando da scienza del lavoro a scienza dell’uomo e degli “Human factors”, anche perché il confine tra vita professionale e vita privata è sempre più permeabile, complici le nuove tecnologie digitali e il nuovo modo di lavorare. «Oltre a dover riprogettare il lavoro che sta già cambiando e cambierà sempre di più con la sempre maggiore presenza di robotica e AI, e con il lavoro il sistema formativo, dobbiamo fare i conti con un mondo dove il profitto dipenderà sempre più da una risorsa nuova, l’informazione che noi stessi produciamo e che viene raccolta attraverso la sorveglianza continua del nostro comportamento e il monitoraggio del nostro corpo ed elaborata in modo non trasparente da parte di chi sa su di noi cose che neppure sappiamo e che permette di prevedere i nostri comportamenti», avverte provocatoriamente Sebastiano Bagnara, uno dei padri dell’economia cognitiva in Italia, già segretario generale della International Ergonomics Association e presidente di BSDesign.

Da industria italiana.it articolo di Gaia Fiertler

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